Non gli mancheremo

 

Un’analisi tra i meandri della profonda piaga sociale e di distorsione della realtà, svelati dal caso di Moussa Diarra e le parole di Matteo Salvini.

 

Käthe Kollwitz, "Two Dead Persons"
Käthe Kollwitz, "Two Dead Persons"

 

Erano le 5 del mattino, nei pressi della stazione Porta Nuova di Verona, quando all’accadere di un incidente automobilistico, pervenne una pattuglia urbana. Alcuni vigili vengono, però, improvvisamente aggrediti. La causa pare inconoscibile. Eppure, un ragazzo qualunque, ventiseienne, brandisce un coltello e lo rivolge assennato verso di loro. Successivamente il giovane si dirige all’edificio della stazione, dove, infervorato dal livore, danneggia la biglietteria, un negozio lì vicino (a cui frange i vetri), e delle macchine sostate al parcheggio dinanzi. Verso le ore sette del mattino si vede compiere l’atto finale di questa tragedia: lui torna alla ferrovia dove sono presenti alcuni agenti della Polizia di Stato, di certo avvertiti da qualche spettatore. Essi intercettano il giovane e pretendono di identificarlo, ma lui con furia si scaglia con il coltello contro gli agenti. Uno di loro spara, per tre volte, colpendolo al petto, mortalmente. 

 

Lo straniero senza nome

 

Quanto ha preceduto è la cronaca dei fatti, la cui narrazione è stata proposta da innumerevoli cosiddette testate giornalistiche, e che non ha avuto alcun riguardo della voce di chi di tale vicenda fu protagonista. Di questo dettaglio se ne ha, difatti, l’immediata evidenza: quella voce non c’è e non deve essere riconosciuta poiché la voce della colpa, del diverso, dello straniero. Quest’ultima è, non a caso, la principale e distintiva denominazione attribuita al giovane, al quale – dettaglio che deve essere parso insignificante ai cronisti de Il Mattino, de Il Corriere della Sera, o de Il Giornale, o di molte altre testate – apparteneva un nome. L’assassinato è Moussa Diarra, dunque non più lo straniero senza nome la cui furia è imperversata in quel mattino di Verona, bensì un uomo con un nome ed un cognome, una persona con una storia. Si può dire che tale concetto di “straniero senza nome” trascenda la singolarità dell’individuo: l’identità di Moussa non risponde più della propria complessità, della propria vicenda umana o dei propri processi intellettivi, bensì viene resa riassumibile attraverso quel comune denominatore. E sarà attraverso esso che egli dovrà essere riconosciuto dall’italiano “odiatore” medio, ed associato a qualunque altro individuo sia spettata tale gogna. Il singolo è ora degradato dalla propria condizione, in una parola: “disumanizzato”. Moussa Diarra è ora lo Straniero, e qualunque immigrato abbia commesso un illecito di varia gravità è lo Straniero egualmente. Loro sono stranieri e in quanto tali è scontato manifestino la loro problematicità intrinseca. Non c’è bisogno di alcuna ulteriore spiegazione, ma piuttosto del paladino dell’occasione che liberi lo Stato da questi parassiti. No?

 

 

Ricomporre i frammenti

 

 

Come auspicabile, al seguito dell’episodio di Diarra è occorsa l’opinione pubblica, che inevitabilmente si è schierata, divisa in un gioco di parti polarizzate assai frequente di questi tempi e che si ripropone ad ogni nuova possibilità di diatriba. Lo stesso 20 ottobre, a poche ore dal dramma, il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti ha commentato sui propri account social l’accaduto: «Con tutto il rispetto, non ci mancherà. Grazie ai poliziotti per aver fatto il proprio dovere». Non ci mancherà. Un’atrocità efferata rivolta contro una persona deceduta. Un totale rifiuto di rispetto nei confronti di una vita perduta. Un torpore impronunciabile verso un Uomo, ma pronunciabile verso lo Straniero.

 

Ricostruire la vicenda umana di un uomo che ha dovuto battersi per tutta la propria vita contro immanenti forze avverse si rivela, così, un’impresa complessa quanto essenziale: significa ricomporre i frammenti di un’esistenza volontariamente dilaniata, raccontare una storia di sofferenza e struggimenti in cui ogni accadimento è volto, in ultima istanza, al decadimento dell’essere. È una condizione che accomuna molte persone, sulle quali grava un sistema che li ripudia e che, su di loro, esplica le proprie più profonde piaghe. E forse, a tale scopo di dispiegamento, Il Post ha offerto un districamento dell’inenarrabile.

 

Nove anni fa Moussa Diarra fuggiva dalla terra natìa del Mali, dove, già dal 2012, la guerra tra i gruppi jihadisti e il governo della giunta militare flagellava (e flagella ancora oggi) la quotidianità civile, già destabilizzata, inoltre, dalla crisi climatica e l’insicurezza diffusa. Il giovane, insieme al fratello, intraprende quindi il viaggio che lo condurrà dapprima in Libia, uno Stato sovvenzionato dal governo italiano per trattenere i migranti, e dove, tacitamente, sono detenuti in centri in cui è all’ordine del giorno torturarli, violentarli, e stuprarli. Solo dopo aver lavorato per otto mesi, Moussa riuscirà a guadagnarsi quanto potesse servire per imbarcarsi verso le coste italiane. Nel 2016 egli giunge a Lampedusa, per poi essere assegnato a Costagrande, un istituto di accoglienza di Verona divenuto celeberrimo per il sovraffollamento sistematico e le condizioni igieniche e vitali pessime in cui ebbero giaciuto gli “accolti”, fin quando esso chiuse i battenti nel marzo 2019. Nel frattempo, Moussa Diarra aveva avviato, già dal 2017, l’interminabile procedura di regolarizzazione della propria situazione: ottenuto dapprima un permesso umanitario dalla durata di due anni, risulta che dal 2020 fosse in possesso unicamente di un cedolino che gli garantisse la regolarità in attesa del rinnovo del permesso. I documenti testimoniano, così, innumerevoli appuntamenti in nome di quella speranza di stabilizzazione mai avverata, e di fronte, piuttosto, ad una condizione fattuale rispetto cui a Diarra fu impossibile ottenere un lavoro regolare, il codice fiscale, l’iscrizione anagrafica, e molti altri diritti civili. Eppure, sin dal suo arrivo a Verona, egli lavorò in ogni maniera gli fu possibile: allo scarico bagagli e come falegname, come lavapiatti e nei campi per tre euro l’ora. Moussa Diarra ha vissuto per anni in funzione di strumento, in disperata lotta per una normalità irraggiungibile. Dal 2020 tirava avanti di “dentro e fuori” tra i vari dormitori, fino a quando non trovò rifugio al Ghibellin Fuggiasco. Soffriva ormai da anni di depressione senza che alcun servizio di psichiatria gli avesse mai concesso un reale aiuto; ed ad agosto di quest’anno suo padre morì, in Mali. Negli ultimi tempi Diarra non aveva neanche più la forza di alzarsi dal letto, tanto da mancare all’ultimo appuntamento per il permesso o, meglio, per il rinnovo del cedolino.

 

Nel momento in cui scrivo quest’articolo è trascorso diverso tempo dagli avvenimenti di Porta Nuova, a cui sono immediatamente seguite delle indagini per eccesso colposo di legittima difesa, disposte dalla procura nei confronti dell’agente di polizia che ebbe inflitto a Diarra il colpo mortale. Ciononostante, se anche esse dovessero arenarsi in un nulla di fatto, vi è la vivida impressione che la morte di Moussa Diarra non possa essere ricondotta ad un atto fortuito da parte di un singolo, bensì alla conseguenza definitiva di uno stato d’odio e di repulsione nei confronti di chi commise il mortale errore di sognare. Dalle torture subite in Libia, ai centri di accoglienza che tali non erano; dai permessi regolamentari inaccessibili, allo sfruttamento sistematico; da una vita gettata in strada, ad una depressione mai assistita: la morte di Moussa è una sconfitta di noi tutti, attori di questo sistema che si è impegnato, attraverso ogni proprio mezzo, per rendere l’uomo uno straniero, trattandolo da reietto e non liberandolo da questa ostile etichetta neanche dopo la sua morte. E la cronaca squallida ha svolto a ciò un ruolo cruciale, da perfetta matrice quanto perfetta esplicitazione dei dilaganti sentimenti razziali che infettano la nostra società.

 

 

Oltre la linea rossa

 

L’articolo 10 della nostra costituzione stabilisce che all’individuo cui nel Paese d’origine sia impedito di esercitare «le libertà democratiche garantite dalla Costituzione Italiana» spetti diritto d’asilo da parte dello Stato. L’avversione rivolta dal leader della Lega verso gli immigrati è ormai celebre e scontata. Che egli non possieda una coscienza tale da comprendere che è impegno di chi rappresenta le istituzioni dello Stato garantire la tutela e la concordia delle persone che lo abitano, pare ormai certezza consolidata dalle innumerevoli prove offerte dal suo personaggio negli anni.

 

Scorrendo tra i post dell’account Facebook di Matteo Salvini si ottiene rapidamente una chiara impressione di quello che appare come un curatissimo canale di filtrazione informativa e di aggiornamenti che riguardino prettamente o le presunte notizie di crimini commessi da persone di etnie differenti e mai contestualizzati; o lo spudorato pavoneggiarsi delle proprie battaglie ideologiche e politiche, spesso filtrate a loro volta attraverso toni illusivi, mistificatori e conflittuali (e si pensi alla messinscena melodrammatica in risposta alle accuse sul caso Open Arms); o il ben più disimpegnato condimento di varietà intrattenitiva (quindi il tifo per la Ferrari, la commemorazione di celebrità, etc.). Essi sono dei contenuti ripugnanti, di cui risponde una comunità online accanita, ed alimentata continuamente dalle provocazioni del ministro: «Medaglia e promozione», propone un utente in difesa dell’agente che ha ucciso Diarra «Che schifo la magistratura!», commenta un altro all’appello di Salvini sull’inequità dei magistrati italiani; «Cambiate mestiere che non fate ridere, deficienti», suggerisce un seguace ai comici Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu, rei di aver satireggiato il ministro.

 

Eppure, quel «non ci mancherà» appare come il superamento indelicato di una sottile linea rossa, oltre la quale ogni principio umano e civile cede dinanzi all’odio, e, perdipiù, dal carattere non troppo velatamente razziale. Perfino considerando il profilo proprio di Matteo Salvini pare implausibile – o quantomeno è auspicabile – che egli possa consciamente riconoscere l’efferatezza a cui ha dato voce. La realtà probabile è che, ricorrendo a mezzi sempre più beceri, le dichiarazioni del ministro non vogliono essere altro che parole alla pancia dell’elettorato più estremista. Un boato d’inumanità nel nome del populismo. E, in questo perfetto quadro strategico di proselitismo, lo Straniero svolge il ruolo del nemico: colui su cui abbattere ogni propria ansia e paura, colui che si prospetta come l’origine di ogni male, colui contro cui bisogna unirsi. Un gioco vecchio come il mondo, e che rivela la cappa di piombo che tende sulla testa della nostra democrazia in un tempo in cui ogni valore può deflagrare. Perché, se non varrà più un codice morale che stabilisca il rispetto per il prossimo e per la sua memoria, se non varrà una coscienza popolare che salvaguardi la civiltà dalla brutalità, oggi possiamo dire che Moussa Diarra «non ci mancherà» ma domani sarà un altro diverso a non mancarci. Ed un giorno potrai essere tu, ed un altro potrò essere io. E sono convinto che non gli mancheremo.

 

Sabato 26 ottobre, per le strade di Verona, hanno sfilato cinquemila persone e più, in memoria di Diarra. Una testimonianza di resilienza plurale ha attraversato la città da Piazza Bra al piazzale della stazione. Il corteo è stato solenne e pacifico, ed in seguito le realtà organizzatrici hanno rilasciato un comunicato stampa, da cui si cita:

 

« Il razzismo strutturale è alla base della morte di Moussa Diarra, costretto a vivere otto anni di sofferenza, precarietà abitativa e sfruttamento lavorativo. Chiedere giustizia per lui significa andare oltre l’accaduto in Stazione Porta Nuova e riconoscere un contesto discriminatorio che opprime le persone straniere attraverso pratiche illegittime e ostacolando l’accesso a diritti fondamentali. »

 

 

8 gennaio 2025

 








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