La classe come organismo sociale autopoietico

 

Nell’orizzonte didattico e pedagogico contemporaneo la classe è pensata soprattutto all’interno di una prospettiva cognitivista. Essa è vista come un elaboratore complesso di informazioni provenienti dall’ambiente (il docente o altre fonti di stimoli). Ogni alunno può svolgere diversi ruoli in base ai compiti affidati. L’obiettivo finale (l’output) è lo sviluppo di una serie di competenze individuali e relazionali che dovrebbero essere misurabili attraverso specifici descrittori. La competenza si manifesterebbe con comportamenti e atteggiamenti identificabili in modo inequivocabile. Il presente articolo contesta l’approccio cognitivista, proponendo un modello biologico che ha il suo centro nel concetto di autopoiesi sviluppato da Francisco Varela e Humberto Maturana.

Johann Peter Hasenclever, La scuola del villaggio, 1845
Johann Peter Hasenclever, La scuola del villaggio, 1845

 

Nell’orizzonte didattico e pedagogico contemporaneo l’apprendimento è pensato secondo una prospettiva cognitivista. Agli input provenienti dall’ambiente (il docente in primis) seguono gli output, ossia i processi e i risultati, letti come insieme di operazioni formali e simboliche che possono essere segmentate con precisi descrittori. Questo approccio è applicato sia alle conoscenze, alle abilità e alle competenze del singolo sia a quelle del gruppo classe. Negli ultimi decenni si è posta sempre più l’importanza di sviluppare nelle scuole non solo un saper fare individuale ma anche un saper fare relazionale. Le competenze sociali giocano un ruolo fondamentale nel lavoro e, più in generale, nelle comunità. La scuola, in quanto luogo per eccellenza di formazione, non può ignorarle. Da qui l’importanza di una didattica innovativa che adotti strategie atte a favorire la collaborazione tra pari.

 

Quale sia il tipo di intelligenza che si vuole sviluppare, la cognizione continua ad essere però «definita – per utilizzare le parole di Varela – come un insieme di calcoli di rappresentazioni simboliche» (F. Varela, Percezione situata e neurobiologia). La centralità accordata in tempi recenti, anche a causa del crescente disagio giovanile, all’intelligenza emotiva non sembra aver apportato particolari cambiamenti a tale quadro.

 

Persiste una visione disincarnata e simbolica dell’intelligenza: che si tratti del saper fare volto alla produzione di qualcosa, di quello inerente all’ambito relazionale o alla gestione dell’emozioni, la dimensione psichica tende ad essere separata dal piano biologico e risolta in operazioni formali scomponibili ed etichettabili. Anche se in modo meno coerente – e per certi versi perfino confuso –, si ripropone sul versante scolastico quanto già da tempo è in atto in ambito psichiatrico. Come il DSM-5 prova ad offrire una tassonomia dettagliata dei disturbi mentali, così lo stile pedagogico più in voga nelle nostre scuole prova a delineare un elenco di conoscenze, di abilità e di competenze che dovrebbero incasellare gli studenti nelle varie fasi del processo formativo.

 

Nel presente articolo si vuole abbozzare una proposta diversa, che tenga conto di aspetti ignorati o sottovalutati dall’attitudine cognitivista. Nell’apprendimento entrano in gioco fattori come il contesto, la contingenza, l’imprevedibilità che svolgono una funzione positiva. Per coglierne la portata ci si focalizzerà in prima battuta su un concetto chiave elaborato da Maturana e Varela: l’autopoiesi.

 

L'autopoiesi

 

M. C. Escher, Mani che disegnano, 1948
M. C. Escher, Mani che disegnano, 1948

Per ragioni di spazio l’autopoiesi sarà analizzata dalla prospettiva della classe. Sebbene sembrerebbe più corretto partire dal singolo studente pensato come organismo autopoietico, in ambito scolastico l’elemento sociale è essenziale. Lo studente è fin dall’inizio inserito in un gruppo classe, in un contesto che influisce in maniera decisiva sulla sua formazione. Per mostrare il “come” di questa relazione è importante soffermarsi sulla definizione di autopoiesi.

In Macchine ed esseri viventi Maturana e Varela caratterizzano le macchine autopoietiche come macchine la cui particolarità consiste 

 

« nella variabilità che esse mantengono costante. Una macchina autopoietica è una macchina organizzata come un sistema di processi di produzione di componenti; tali processi sono collegati tra loro in modo da produrre dei componenti che a loro volta: 1. generano i processi (relazioni) di produzione che li producono mediante continue interazioni e trasformazioni e 2. costituiscono la macchina come un’unità nello spazio fisico. Di conseguenza, una macchina autopoietica specifica e produce continuamente la propria organizzazione mediante la produzione dei propri componenti, sotto condizioni di continua perturbazione e compensazione di queste perturbazioni (produzione di componenti). Possiamo dire, quindi, che una macchina autopoietica è un sistema omeostatico in cui la variabile che si mantiene costante è appunto la propria organizzazione. » (H. Maturana, F. Varela, Macchine ed esseri viventi. L’autopoiesi e l’organizzazione biologica

 

L’autopoiesi descrive un sistema che si autoproduce continuamente. Nella macchina autopoietica processi e componenti sono strettamente collegati: i processi generano i componenti e questi generano i processi. Ai fattori di perturbazione la macchina autopoietica reagisce con processi di compensazione che servono a mantenere costante la propria organizzazione. Questo non significa però che una macchina autopoietica non possa subire evoluzioni. Se l’organizzazione di una macchina autopoietica deve restare costante affinché non perda la sua identità, la struttura può cambiare.

 

« Per organizzazione si intende l’insieme dei rapporti che devono esistere fra i componenti di un qualcosa perché questo possa essere considerato come appartenente a una classe particolare. Per struttura di qualcosa si intende l’insieme dei componenti e dei rapporti che, concretamente, costituiscono una unità particolare nella realizzazione della sua organizzazione. » (H. Maturana, F. Varela, L’albero della conoscenza

 

Per chiarire la differenza tra organizzazione e struttura si può ricorrere a un semplice esempio. Si pensi a una bicicletta. L’organizzazione di una bicicletta è determinata dall’insieme dei rapporti tra i suoi componenti – sellino, ruote, manubrio, ecc.. Affinché una bicicletta sia tale, non si può prescindere dalla presenza di un manubrio e di un certo rapporto tra questo e le ruote, dai pedali e dal loro rapporto con il movimento delle ruote, ecc. D’altra parte il “come” questi rapporti si realizzino (la struttura) è suscettibile di notevoli variazioni. Esistono infatti molteplici biciclette che presentano diverse strutture (per materiali, telai, ecc.). L’organizzazione è costante – poiché se questa muta, non avremo più una bicicletta –, ma le strutture possono anche differenziarsi significativamente.

 

Anche se a un livello più complesso, lo stesso si può dire per le macchine autopoietiche. La struttura di un essere vivente subisce nel corso del tempo grandi mutamenti. Perturbazioni e compensazioni interne ed esterne e la storia stessa dell’organismo ne alterano la struttura, ma l’organizzazione resta costante. Quando il cambiamento della struttura è tale da modificare l’organizzazione, l’organismo si trasforma in un nuovo sistema – ad esempio il bruco che si trasforma in farfalla. Una macchina autopoietica si caratterizza anche per la chiusura organizzativa e per l’autonomia. La relazione circolare tra processi e componenti genera una chiusura. L’autopoiesi implica infatti quella che Varela chiama una relazione “Stella”:

 

« La relazione « Stella » si scrive così: Trinità = Un ente/il processo che conduce a questo ente. […] Per trinità intendo il modo in cui gli elementi di una coppia (poli, estremità, modi, lati) sono legati l’uno all’altro pur restando distinti. » (F. Varela, Ni un, ni deux, in Id., Le cercle créateur. Écrits 1976-2001)

 

La chiusura organizzativa dell’organismo autopoietico si esplica anche nella sua autonomia, nella sua coerenza interna che rende conto della sua identità e della storia delle sue interazioni. Si tratta forse dell’aspetto più discusso dai critici dei due filosofi. Secondo Maturana e Varela la macchina autopoietica è autonoma, ma questa autonomia non va letta all’interno della tendenza comune a separare organismo e ambiente. I due studiosi vogliono piuttosto sottolineare come la relazione tra essere vivente e ambiente sia una co-costruzione: l’ambiente determina l’essere vivente e l’essere vivente determina l’ambiente. Delineati il concetto di autopoiesi e gli elementi ad esso correlati, vediamo ora come questo orizzonte teorico possa dare una visione della classe diversa da quella di matrice cognitivista con conseguenze rilevanti sul piano didattico.

 

Classe e autopoiesi

T. E. Duverger, A scuola, 1860
T. E. Duverger, A scuola, 1860

Le ricerche di Varela e Maturana hanno avuto ripercussioni non solo in ambito biologico, ma anche nelle scienze sociali e, più in generale, nelle scienze umane. Tra i vari studiosi che hanno esteso il paradigma dell’autopoiesi vanno citati almeno Niklas Luhmann (cfr. Sistemi sociali. Fondamenti di una teoria generale) e Jean-Pierre Dupuy (cfr. Ordres et désordres). Il tentativo di pensare la classe come organismo sociale autopoietico non ha in linea di principio nulla di sorprendente. L’intenzione è di declinare e di specificare le peculiarità dell’autopoiesi in questo particolare gruppo sociale.

 

In prima istanza la classe potrebbe essere definita come un insieme di individui che presentano delle relazioni a forte gradiente evolutivo. Appena composta, una classe è rappresentabile come un gruppo di studenti che hanno relazioni deboli. Non si può parlare ancora di un organismo sociale autopoietico, perché il gruppo è dato dalla somma dei singoli componenti. Tuttavia le interazioni frequenti e prolungate nel tempo tra gli studenti – a scuola e al di fuori – e con gli insegnanti generano una chiusura organizzativa con processi emergenti. Varela afferma

 

« Si qualifica abitualmente un processo come emergente quando appartiene a una rete di sotto-unità. Un processo emergente risulta da interazioni locali tra queste sotto-unità, senza appartenere a nessuna di esse presa isolatamente. L’idea è che interazioni puramente locali possono dare nascita a nuove strutture di comportamento, che appaiano allora a livelli di descrizioni più elevati (più globali). » (F. Varela, Perception située et neurobiologie, in Id., Le Cercle créateur)

 

Qualsiasi insegnante riscontra come ogni classe sia diversa dalle altre. La singolarità non si fonda unicamente sulla varietà degli studenti. Sono anche le dinamiche di gruppo a mutare. Inoltre, i processi emergenti non sono riducibili alle caratteristiche degli alunni che compongono le classi. Ad esempio, classi in cui gli studenti sono di alta estrazione sociale e individualmente hanno un buon rendimento potrebbero rivelarsi molto difficili da gestire sia a livello disciplinare sia didattico. Viceversa, classi i cui componenti provengono da zone disagiate e con profili curriculari di partenza di livello base potrebbero essere più attive e collaborative nell’apprendimento.

 

Le interazioni tra gli studenti di una classe originano insomma processi emergenti che sono in parte contingenti e imprevedibili. La loro comprensione è importante per due ragioni: in primo luogo, essa è essenziale per lo svolgimento dell’attività didattica. I docenti interagiscono sia con la classe sia con i singoli alunni e questi due livelli vanno presi in considerazioni individualmente e nelle loro interazioni; in secondo luogo, si deve considerare la “causalità discendente” dei processi emergenti. «Le caratteristiche globali del sistema reggono e costringono le interazioni locali» (Ivi). I processi emergenti possono causare importanti alterazioni a livello locale. In una classe, un clima troppo competitivo può generare ad esempio ansia anche in soggetti che di solito non mostrano comportamenti ansiogeni.

 

Queste brevi considerazioni sono sufficienti per dedurre alcuni primi corollari. In quanto organismo sociale autopoietico la classe non è un’entità programmabile. Le relazioni tra il locale e il globale generano una chiusura organizzativa e un’autonomia con specifici processi emergenti, che non sono modificabili a piacimento. Si possono indurre delle perturbazioni esterne per alterare la struttura – qui il termine è assunto nel significato tecnico chiarito in precedenza – in una direzione più virtuosa, ma gli effetti di queste perturbazioni restano parzialmente aleatori, anche a causa della presenza di perturbazioni interne all’organismo classe non sempre note ai docenti. Ma allora qual è il ruolo dell’insegnante in una classe autopoietica?

 

Il docente perturbatore

 

N. Bogdanov-Belsky, Aritmetica a mente nella scuola pubblica di S. Rachinsky, 1895
N. Bogdanov-Belsky, Aritmetica a mente nella scuola pubblica di S. Rachinsky, 1895

« Le macchine autopoietiche non possiedono né input né output, possono essere disturbate da fattori esterni e sperimentare cambiamenti che compensano tali disturbi. » (H. Maturana, F. Varela, Macchine ed esseri viventi)

 

Se si accetta di ripensare la classe come organismo sociale autopoietico è necessario abbandonare l’assioma da cui prende le mosse il cognitivismo, un assioma che tra i docenti è un vero e proprio luogo comune: l’apprendimento è questione di input e di output. L’idea dominante è che l’apprendimento abbia a che vedere con l’assimilazione e l’elaborazione di una serie di informazioni. Se le informazioni sono presentate in modo efficace, l’output (conoscenze, abilità, competenze) sarà positivo; in caso contrario, l’output sarà negativo. Il docente dà gli input, la classe risponde con gli output.

 

Che si sia fautori di un insegnamento tradizionale (di tipo trasmissivo) o innovativo, lo schema input-output non è messo in dubbio. Anche coloro che promuovono il coinvolgimento attivo della classe e l’introduzione di metodologie partecipative (es. il cooperative learning o la classe capovolta) tendono a ragionare sull’apprendimento in termini di programmazione e di somministrazione di stimoli in vista di risultati più o meno predefiniti.

 

La didattica per competenze non si scosta infatti dall’approccio problem solving. «Le competenze» sono «abilità e capacità cognitive possedute o che possono essere apprese dagli individui e che consentono loro di risolvere problemi particolari» (Federal Ministry of Education Resarch, 2004) o, se ci riferiamo alle Linee guida del 2010, «capacità di utilizzare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e personale» (MPI, Istituti Tecnici. Linee guida per il passaggio al nuovo ordinamento, DPR 15 marzo 2010, art. 8, comma 3).

 

Se nella didattica trasmissiva l’input è una nozione e l’output è il saperla ripetere, nella didattica per competenze l’input è un problema e l’output è una o più competenze che dovrebbero entrare in azione – da valutare con oggettività dopo aver individuato gli opportuni descrittori. Lo schema input-output dimentica un aspetto fondamentale proprio di tutti gli esseri viventi su cui a più riprese si soffermano Varela e Maturana: l’impossibilità di distinguere in modo netto l’organismo dall’ambiente. Si è già detto come organismo e ambiente si co-costruiscano a vicenda, e questo vale anche per la classe e per gli studenti che ne fanno parte.

 

La classe è un organismo sociale autopoietico composto da organismi autopoietici. Le interazioni a livello locale e globale contribuiscono alla costruzione dell’ambiente, così come le perturbazioni esterne possono comportare ristrutturazioni a livello globale e locale. In tutte queste complesse relazioni vi è circolarità e non linearità; e di conseguenza lo schema input-output non sembra rendere giustizia ai molteplici fattori in gioco nell’attività didattica.

 

Nell’apprendimento l’insegnante non è affatto un elemento esterno, né può svolgere il ruolo di “osservatore oggettivo”. Il fatto che molti (dal Ministero ai pedagogisti) auspichino che gli insegnanti abbiano maggiori competenze docimologiche e sappiano avvalersi di griglie di valutazione efficaci per ogni aspetto dell’apprendimento non tiene conto dell’implicazione enattiva – con questa espressione Varela e Maturana intendono la co-implicazione e co-costruzione organismo-ambiente – del docente. L’insegnante è in accoppiamento strutturale con le sue classi, rappresenta una parte importante del loro ambiente; egli è co-costruito dai suoi studenti, è soggetto e oggetto di costruzione, è osservatore e osservato.

 

« Il nostro vivere afferma Maturana ha luogo in accoppiamento strutturale con il mondo che noi stessi realizziamo, e il mondo che noi realizziamo è quello che facciamo come osservatori nel linguaggio, operando in accoppiamento strutturale linguistico nella prassi del nostro vivere. » (H. Maturana, Autocoscienza e realtà)

 

Come nella vita così nella scuola non esiste un osservatore oggettivo. Le nostre presunte descrizioni oggettive della realtà nascondono un certo modo di agire, di essere in accoppiamento strutturale con l’ambiente. «Il soggetto-osservatore – direbbe Morin – sorprende il suo stesso volto nell’oggetto della sua osservazione» (E. Morin, Il Metodo. I. La natura della natura). Dietro la presunta descrizione oggettiva delle competenze degli studenti e delle dinamiche di una classe, vi è l’illusione di poter osservare dall’esterno realtà che sono continuamente modificate dalle parole e dalle azioni degli insegnanti.

 

Verrebbe da chiedersi se invece di essere a ogni costo un esperto programmatore di apprendimenti, un osservatore o un valutatore imparziale di prestazioni, il docente non dovrebbe accontentarsi della più umile ma più realistica funzione di “perturbatore”. Sarebbe forse più proficuo pensare gli insegnamenti e le strategie didattiche messe in atto da un docente come perturbazioni indotte nell’organismo autopoietico della classe e dei singoli organismi autopoietici degli studenti. In alcuni casi queste perturbazioni potranno portare a ristrutturazioni più efficaci della classe o dei singoli studenti o di entrambi; in altri potrebbero non sortire alcun effetto sulla classe e sugli studenti, ma un effetto sull’insegnante che modificherà il proprio rapporto con la classe per raggiungere un accoppiamento strutturale migliore.

 

I successi e i fallimenti degli studenti e degli insegnanti non sarebbero allora da leggere in un’ottica di causalità lineare, ma nella prospettiva di una circolarità creatrice di adattamenti e di riadattamenti in cui si abbraccia senza timore l’imprevedibile e la contingenza. Il successo formativo degli studenti e le performance dei gruppi classe non saranno più interpretati in termini di griglie che dovrebbero misurarne oggettivamente le prestazioni. Ma, per dirla con un’espressione cara a Spinoza, nell’ottica di un aumento della propria potenza di esistere.

 

Uno studente raggiunge il successo formativo quando matura un alto livello di integrazione ad un tempo biologica, cognitiva e sociale, quando la sua struttura vitale agisce e reagisce sui fattori di perturbazione, riuscendo a modificare sé e l’ambiente. Analogo discorso per il gruppo classe dove la “performance” dovrà essere pensata come capacità di resistere e di evolvere nel rispondere a perturbazioni esterne (indotte volontariamente e involontariamente dall’insegnante o da altri soggetti) e interne (es. variazioni locali che si ripercuotono sul piano globale).

 

Uscire dall’attitudine cognitivista e dalle sue derive scientiste; rileggere l’apprendimento e la relazione tra insegnanti e alunni in chiave autopoietica, ossia in termini di chiusura organizzativa, di autonomia, di accoppiamento strutturale; abbracciare l’imprevedibile e la contingenza come fattori positivi dell’apprendimento; pensare il ruolo dell’insegnante in chiave perturbativa; mettere al centro l’integrazione (biologica, psichica e sociale) individuale e del gruppo classe come fulcro intorno a cui ricostruire il concetto di successo formativo; queste coordinate possono essere il punto di partenza per un ripensamento dell’attività didattica.

 

Non si tratta però di compiere una rivoluzione, quanto di recuperare in chiave moderna, la stretta relazione tra insegnamento e arte di vivere. Radicare l’insegnamento nella biologia significa infatti riscoprire la funzione vitale e trasformativa della conoscenza. Apprendere è strutturare e ristrutturare la propria relazione con sé, con gli altri e con l’ambiente verso forme di esistenza sempre più integrate; apprendere nella sua accezione più profonda è «reinserire l’io nel mondo e nell’universale» (P. Hadot, Le sage et le monde). Con queste parole Pierre Hadot definiva il senso della filosofia come esercizio della saggezza. 

 

6 Novembre 2024

 








  • Canale Telegram: t.me/gazzettafilosofica