Liturgia del restare

 

Partire o restare come il parlare o morire dell'Heptaméron: ci sono delicate circostanze di vita per cui si pensa che la soluzione sia una bianca o nera presa di posizione. Ma una così netta polarizzazione non può essere una risposta autentica. Così, tra parlare o morire, ciò che conta è l'integrità della verità. Nello stesso modo, come per Ulisse, tra partire o restare ciò che conta è sempre il ritorno.

 

di Sara Ricci

 

 

Partire, restare. Spesso scegliere pare impossibile. Altre volte, invece, la decisione è ovvia: quando le risorse circostanti cominciano a scarseggiare, quando le già poche opportunità si schiudono in vicoli ciechi, partire diventa l’unica opzione, l’unica necessità. Davanti a questo bivio, che segna un nuovo inizio o la ricalibrazione di un antico radicamento, il sentimento è in egual misura tortuoso, a volte confusionario, difficile da gestire ed elaborare. Chi parte si lascia spesso alle spalle una storia che non è solo la propria, perché costituita da tradizioni, costumi, usanze, linguaggi, – da una familiarità che è naturalmente difficile da sradicare. Allontanarsi dai luoghi in cui la vita ha cominciato a prendere ritmo è sempre un’impresa particolare, non facile a prescindere dal sentimento con cui si parte.

 

Già da diverso tempo l’Italia ha a che fare con il fenomeno dello spopolamento. Ad oggi sono numerose le storie di persone che scelgono di partire, pur consapevoli delle difficoltà a cui si va incontro quando si decide di ricominciare altrove, molte volte da zero, lontano da casa, dal proprio vicinato, dalle consuetudini che hanno dettato le caratteristiche di una parte importante di vita. Sempre più persone si ritrovano costrette ad abbandonare le aree interne, quelle parti d’Italia lontane da servizi essenziali che a volte non funzionano come dovrebbero e, in altri casi, sono completamente assenti. Un esempio riportato in un'analisi demografica da Luisa Corazza (direttrice ArIA, Aree interne e Appennini) è quello del Salento, considerato un'area interna perché, anche se circondato dal mare, ha moltissimi problemi con i servizi sanitari, le scuole e la mobilità. I dati Istat dimostrano che il 58% del territorio italiano è classificabile come area interna, e di questa percentuale di territorio, solo il 22% è ancora abitato. A subire il fenomeno dello spopolamento sono soprattutto le regioni del Sud, dunque Basilicata, Calabria, Molise e Puglia.

 

Ma proprio in questi territori è stato possibile individuare un altro tipo di atteggiamento, opposto a quello di coloro che hanno scelto di andare via. Si tratta di coloro che restano, i quali, soprattutto nel caso dei piccoli paesi, non lo fanno mai per un sentimento di nostalgia e in nome della nota romanticizzazione dei luoghi parzialmente abbandonati, che respirano a intermittenza, e di cui si esalta la ‘’vita lenta’’ e il ‘’dolce far niente’’. Nell’Italia contemporanea, che lo si riconosca o meno, la scelta di restare è anche – ma non solo – una scelta politica, un atto di resistenza. Così continua a resistere anche la cultura della precarietà, costantemente aperta al rischio (Teti, 2022), per cui si decide di rimanere in luoghi fatiscenti e pericolanti. Basti pensare al recente caso del crollo di un ballatoio di collegamento nella Vela Celeste a Scampia, che ha causato tre morti e dodici feriti. Casi come questo accadono perché alla base c’è il rifiuto – e spesso l’impraticabilità – di abbandonare i luoghi, che di fatto possiedono un’anima, e non si possono definire in modo semplicistico meri spazi da occupare. Così ne parlava poco tempo fa Vito Teti ne La restanza (Einaudi, 2022):

 

« Siamo costitutivamente il luogo in cui siamo nati e cresciuti, siamo i luoghi che abbiamo abitato; siamo i luoghi sognati e desiderati e siamo anche i luoghi da cui siamo fuggiti e che a volte abbiamo odiato, per urgenza d’esistere al di fuori e al di là del perimetro noto. Ogni luogo non è solo articolazione spaziale, ma anche dimensione della mente e richiede un’organizzazione simbolica tramata di tempo, memoria e oblio. [...] Un luogo è un insieme di relazioni, di legami magari controversi e mutevoli, eppure indispensabili. »

 

Se da una parte bisogna viaggiare, abbandonare i posti, rischiare di perdersi, poiché il partire evidenzia la necessità di cercare qualcosa di nuovo, di costruire delle basi dal nulla, la restanza spesso espone il ‘’dovere’’ di essere fedeli alle tradizioni, alle eredità culturali, e l’immensa potenzialità rigenerativa del tenerle come punto di riferimento per un’evoluzione che non si allontani del tutto dalle proprie origini. «Il sapiens», scrive Teti, «non è un animale biologicamente e culturalmente destinato a migrare, restare, tornare intese come dimensioni escludenti ed esclusive». Inteso in questa maniera, l'essere umano è tridimensionale, ed è capace di mutare costantemente in questi tre stadi di esistenza. Secondo l'etnologo, è per questo movimento infinito che l'uomo è esistenzialmente tormentato da un sentimento nostalgico nei confronti del paese, dell'altrove, della città, dell'infanzia, dei luoghi mai visti, di quelli che non vedrà: partire e restare sono per lui manifestazioni di un'incessante ondulazione che ricorda lo spaesamento liberatorio del viaggiare.

 

La parola restanza, che Vito Teti utilizza per raccontare il fenomeno del rimanere, arriva all’etnologo in un’occasione di gioia e condivisione: durante un pranzo con amici nelle terre del Cilento, Carlo Palumbo, ex emigrato, contadino, camminatore, gli porge un pane realizzato con diverse farine, e lo definisce ‘’pane della restanza’’. Nella cultura meridionale, spiega Teti, il pane della ‘’rispensa’’ (ristenza, restanza) è un pane duro, conservato anche per una settimana, che si mangia cotto con acqua e sale, a volte con polenta, peperoncino, olio, ma anche ammorbidito per la minestra con verdure o per il brodo. Il termine restanza veniva utilizzato per alimenti che avanzavano e che non si buttavano mai, a favore di una cultura del valore e della conservazione, contro quella sempre più veloce e cieca del consumo di massa. Il concetto riporta a quella che Felice Chilanti chiamò età del pane, un’era in cui si consumava per stretta necessità, in cui si otteneva un senso di soddisfazione più palpabile, adesso purtroppo molto difficile da raggiungere.

 

Al giorno d'oggi, soprattutto per il tono nostalgico con cui si parla della cultura dei piccoli borghi, le aree interne stanno ottenendo una nuova luce mediatica. Ma in questa narrazione romanticizzante, per quanto utile a rivalutare il concetto di abbandono e ritorno nei paesi, non bisogna dimenticare di tenere in considerazione la quantità di fatica che serve per restare. Come afferma Teti, un paese ha una sua dimensione unica, in cui «gli abitanti convivono con i loro santi protettori, i loro defunti, le loro memorie. Nel paese [...] si appartiene ad una casa, a una terra, a una località, a una parrocchia, a una contrada, a un acquedotto».

 

Quello che serve, secondo l’etnologo, è un cambio di prospettiva, uno sguardo nuovo che tenga in considerazione anche la memoria: i paesi e le aree interne infatti non sono mai stati luoghi improduttivi, statici, di ode alla lentezza e al riposo, come si tende notoriamente a credere. Queste zone, al contrario di come lo sguardo mediatico direttamente e indirettamente antimeridionalista le descrive, sono sempre state zone mobili, di sacrificio e di cura, sudore, dedizione, e il più delle volte di circostanze faticose vincolanti ben lontane dalle favole accalappia-turisti di cui tutti siamo a conoscenza.

 

A questo proposito viene in mente una recente video-critica dell’attivista Claudia Fauzia: nel video viene ripreso un altro contenuto di un influencer che romanticizza la vita di due ottantenni di Sarno – un paese in provincia di Salerno – che dopo tutto questo tempo ancora si svegliano molto presto per accudire la propria terra, raccogliendo pomodori a mano perché a loro il sudore non ha mai fatto paura. Qui, oltre ad una chiara rappresentazione di alcune specifiche sfaccettature della cultura della restanza, è molto evidente come i media idealizzino il concetto di fatica e di sacrificio, anche nel caso di due persone anziane, che dopo un’intera vita ancora non hanno scelta, come spiega Fauzia, e sono costretti a vivere in un sistema che glorifica la fatica e l’abnegazione, in cui proprio la fatica è il vincolo per eccellenza, ed è necessaria per sopravvivere.

 

Partenza e restanza sono due facce della stessa medaglia. Se da una parte il viaggio è necessario come punto di riferimento per un orizzonte di crescita e di ispirazione, il restare è a sua volta fondamentale come simbolo del radicamento, dell'origine, della primissima versione di un sé. Sono due aspetti essenziali per ogni essere umano. A differenza di molti anni fa, in cui restare significava soprattutto appartenere, oggi il termine ha un peso e un significato diverso, di apertura alla rigenerazione e all'innovazione studiata di spazi che hanno risorse con potenzialità enormi.

 

Ma attenzione, perché la possibilità di rigenerazione non può e non deve essere un tentativo di ritorno alla gloria di un immaginario passato florido, che altro non ha fatto se non condurci dove siamo adesso, anzi: come giustamente afferma Teti, se si riuscissero a mettere in primo piano le esigenze di chi in questi luoghi vive o desidererebbe ritornare, piuttosto che la bulimia di consumo caratteristica dell'overtourism di cui si è tanto parlato in questi ultimi mesi, forse «il paese potrebbe ripresentarsi come un corpo aperto, dinamico, capace di accogliere, meta per chi cerca “altro” quando la metropoli degenera in un’omologante monotonia».

 

E forse si potrebbe davvero parlare di riappropriazione territoriale, culturale ed ideologica, per cui la restanza assumerebbe un significato diverso, lontano dall'immaginario di rassegnazione e arresa, e più vicino ad un rivoluzionario senso di opposizione e lotta contro lo spopolamento, contro le difficoltà apparentemente invalicabili, contro quel sistema di apologia della fatica e di abnegazione del sé di cui parlava anche. Fauzia.

 

 

15 novembre 2024

 








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