La linea sottile tra passione e ossessione

 

Il 14 agosto 2024 è stata pubblicata su Disney+ la terza stagione della celebre serie statunitense The Bear. Il protagonista, lo chef stellato Carmy Berzatto, è tra le più accurate rappresentazioni dell'incarnazione fisica di un'ossessione. Come lui, ricordiamo altri memorabili protagonisti, tra cui Nina Sayers ne Il cigno nero (2010), Andrew Neyman in Whiplash (2014), Lou Bloom in Nightcrawler (2014), e molti altri. Questi personaggi sono la personificazione di una sublimazione del desiderio di riuscita. Ma l'ossessione è da considerarsi una cosa non sana?

 

di Sara Ricci

 

 

Quella di The Bear è la coinvolgente storia di Carmy Berzatto, uno chef che, ossessionato dalla propria esecuzione in ambito culinario, è costretto a prendere in mano le redini dell'attività del fratello da poco deceduto, anche lui cuoco. Dopo anni di lavoro lontano dalla sua città d'origine, Berzatto torna a Chicago e comincia a lavorare nel ristorante ereditato, ritrovandosi a dover gestire, insieme al dolore di un lutto inaspettato, i debiti, una cucina che cade a pezzi e un team poco disciplinato. Nel corso di tre stagioni le cose cambiano, la qualità del ristorante e dell'esecuzione aumenta esponenzialmente. Questo però accade solo grazie alla guida di Berzatto, che, mosso da una determinante ossessione, riesce a svoltare le cose per il meglio, pagando saltuariamente un costo relativamente alto: se stesso.

 

L'ossessione che muove Carmy parte da una passione viscerale per la sua professione. La sua visione delle cose perfettamente equilibrata tra presente e futuro ispira lo staff, che riesce a poco a poco a seguire i suoi ritmi, crescendo e rimanendo sempre a pochi passi da lui. Nel caso di Carmy, si potrebbe dire che l'ossessione è l'evoluzione ultima e involontaria di una passione: sono numerosi i flashback di un passato tormentato in cui, ancora dipendente, si vede costretto a sottostare a pesanti abusi psicologici che lo circoscriveranno nelle quattro mura asfissianti di una costante insoddisfazione. Tuttavia, nonostante il malessere generale, è proprio questa insaziabile fame a spingerlo oltre se stesso, aiutandolo così ad ottenere risultati eccellenti, spesso però a costo di perdere lucidità e focus sulla vita reale.

 

Lo stesso atteggiamento lo assumeva già Andrew Neyman in Whiplash (2014). Appena diciannovenne, Andrew ambisce a diventare uno dei più grandi batteristi di musica jazz. Un giorno, inaspettatamente, gli si presenta un'opportunità senza precedenti: il conduttore della Shaffer Conservatory band, Terrence Fletcher, lo invita a suonare come secondo batterista dell'orchestra. Andrew capisce subito che il percorso non sarà una passeggiata. Fletcher è infatti un insegnante sprezzante, autoritario, crudele tanto da abusare emotivamente e fisicamente dei propri studenti solo per portarli al di là dei loro limiti, su vette irraggiungibili ai musicisti comuni. Questo però non ferma il giovane diciannovenne, che vuole a tutti i costi impressionare il suo maestro: solo il sangue, il sudore e le lacrime rendono valida una sua sessione di prove. Così, ogni volta che Fletcher lo sovrasta, Andrew fa il possibile per rialzarsi e riprovare, ossessivamente e compulsivamente, a diventare il migliore, a prescindere dagli insulti e dai colpi subiti.

 

In Whiplash, esattamente come in The Bear, è cruciale lo stato mentale dell'artista: chi assiste a queste esibizioni non può percepire quanto velocemente una passione possa mutare in ossessione, e quanto questa ossessione possa modificare la realtà dei protagonisti e di chi li circonda e partecipa all'estasiante spettacolo dell'arte messa in atto. Andrew Neyman e Carmy Berzatto vivono in funzione della loro ossessione: Neyman è interessato solo alla musica, così come a Berzatto importa solo della cucina. In questo senso, la distanza tra i parallelelismi dei loro universi cinematografici si riduce sempre di più quando entrambi, in momenti diversi della loro ascensione, si ritrovano ad isolarsi da tutto e tutti per dedicarsi con religiosa devozione alle loro professioni.

 

Viene in mente l'episodio in cui Neyman lascia la sua ragazza di punto in bianco, predicendole un futuro di cui è certo, nel quale l'unica cosa realmente importante per lui sarebbe stata la passione-ossessione per la musica, che li avrebbe inevitabilmente divisi. Lo stesso accade a Carmy, anche se accidentalmente, nell'episodio in cui rimane bloccato nella cella frigorifera del ristorante e cede alla frustrazione del momento, con un monologo in cui – senza sapere che a pochi passi da lui c'è la sua ragazza che lo ascolta – ribadisce che è impossibile per lui sostenere un qualsiasi rapporto intimo, perché lui è uno ''psicopatico'', cosa che lo rende il migliore proprio perché non intrattiene ''stupidaggini'' ed è sempre concentrato, dedito alla sua routine, all'unico spazio in cui si sente realmente capace di poter controllare le cose.

 

In entrambe le brillanti esperienze di questi due personaggi, l'ossessione si risolve e acquieta nella performance: quando il pubblico è soddisfatto, quando chi guarda assume un atteggiamento di approvazione, l'ossessionato ha modo di riposarsi per qualche breve istante nello spazio di tempo che si crea tra chi gode di una creazione e chi l'ha creata, quando questa diventa fruibile. Così l'obiettivo è raggiunto ma il desiderio non muore, continua anzi a crescere, ad allargarsi in ogni direzione, in modo tale che l'artista possa perpetuamente trovare pace nell'inseguimento pericoloso di una versione sempre migliore di se stesso dentro il caos che gli è famigliare.

 

Completamente accecati dal bisogno ossessivo di migliorarsi e di diventare i più grandi di sempre, sia Berzatto che Neyman compiono un lavoro introspettivo faticoso nel percorso della loro ascesa, che conduce entrambi verso un orizzonte di liberazione. Questo non accade a Lou Bloom, protagonista del film Nightcrawler (2014): criminale di bassa lega a Los Angeles, un giorno è casualmente testimone di un incidente stradale, e dopo aver incontrato alcuni operatori video che riprendono la scena, intuisce che quella sarebbe stata per lui la svolta ideale. Così, dopo essersi procurato una videocamera e una radio della polizia, comincia a fiondarsi su scene del crimine e di emergenze varie per poter riprendere e guadagnare soldi vendendo il materiale ai network televisivi.

 

Nella sua ascesa, che poco ha a che vedere con l'introspezione e il desiderio di liberazione dai propri demoni interiori, Bloom diventa progressivamente sempre più spietato e crudele, incarnando la perfetta rappresentazione dell'arrampicatore sociale sociopatico. E' un vero e proprio sciacallo: non ha regole, né interessi nel capire quali sono i limiti da non superare per raggiungere i suoi obiettivi. Noncurante, lucido e freddo calcolatore, rimane sempre coerente con la profonda oscurità del suo carattere, fino a quando, pur di riuscire ad ottenere il risultato a cui ambisce, prima sabota un suo rivale, e più tardi coglierà l'occasione per eliminare il suo stesso assistente, che aveva preteso da lui un'equa divisione dei profitti di alcune riprese che gli avrebbero fruttato una cospicua quantità di denaro.

 

Qui l'ossessione ha un ruolo più cupo, macabro: Bloom è l'incarnazione impietosa e feroce del fine che giustifica i mezzi. Al contrario di Carmy Berzatto e Andrew Neyman, che nel corso delle loro esperienze cercano e hanno modo di confrontarsi con i creatori del loro arco narrativo ossessivo per trovare in qualche modo la radice – e di conseguenza la fine – delle loro ombre, dei loro mostri interiori, Lou Bloom ha un atteggiamento diverso, quasi predatorio nei confronti della sua stessa ossessione. L'immagine è simile a quella dell'uroboro, il serpente che si morde la coda: in questo contesto l'ossessione alimenta l'uomo, e l'uomo, con la fame insaziabile di riscattarsi in un mondo che fino ad allora lo ha rifiutato sprezzamente, alimenta a sua volta l'ossessione, in un ciclo infinito che sostiene una vera e propria gerarchia piramidale di cui lui è il punto più alto.

 

L'atteggiamento ossessivo di una sublimazione che supera di gran lunga i limiti lo si ritrova in Nina Sayers, protagonista de Il cigno nero. Se da una parte le storie di Berzatto e di Neyman possono ispirare chi le guarda, quella di Nina, con un arco narrativo definitivamente distruttivo, provoca sgomento e inquietudine. L'evoluzione di questa protagonista è infatti l'ascesa straziante di una giovane donna che è capace di riconoscersi solo attraverso la perfezione. In questo senso, il suo percorso autodistruttivo non può che terminare con l'ultimo atto dell'autodistruzione: la morte. Infatti, dopo essere stata scelta come interprete dei due ruoli di cigno bianco e cigno nero, Nina comincia a poco a poco a perdere se stessa, sprofondando in un tracollo fisico ed emotivo che sarà fondamentale per la perfetta esecuzione della sua ultima esibizione.

 

Il doppio ruolo porta Nina a sdoppiarsi, ma non solo sul palco: la donna, vittima di una interminabile tortura mentale che si autoinfligge, comincia ad avere allucinazioni e vedere la versione malvagia di sé (il Cigno Nero) dappertutto. Non solo: in alcune scene immagina che le crescano piume nere sulla schiena e che i piedi diventino le zampe dell'animale che interpreta. A questo punto Nina è impazzita, e la linea che divide passione, ossessione e malattia mentale è ormai svanita, dissolta: Nina non sa più cosa è reale e cosa non lo è, e in quel suo sdoppiarsi scopre una parte della sua identità che fino ad allora non aveva mai avuto modo di conoscere. Se all'inizio del film era simile al Cigno Bianco, dunque timida, gentile, semplice e pura, fino alla fine del film, parallelamente al tracollo emotivo di cui soffre, Sayers diventa l'incarnazione del Cigno Nero, perciò paranoica, violenta e sempre più impura.

 

Vive l'ultima manifestazione della sua ossessione poco prima della fine dell'esibizione, quando in camerino si accorge che, dopo una crisi avuta poco prima dell'ultimo atto, rompe uno specchio in una lite immaginaria con la sua rivale. Ma nel camerino non c'è nessuno, e poco dopo scopre di essersi pugnalata con un pezzo dello specchio che aveva distrutto durante la colluttazione allucinata. Invece di fermarsi, a pochi passi dal raggiungimento dell'obiettivo di una vita, Nina Sayers decide di terminare la sua performance, ignorando il sangue che le esce dallo stomaco. Così, nella scena finale, una volta realizzato il suo sogno e poco prima di morire, Nina appare soddisfatta, completamente dissociata dalla realtà, travolta dal candore che un tempo la caratterizzava e che adesso è così lontano da lei, vittima sacrificale di un'estasi che l'ha condotta ad una fine di cui probabilmente era già a conoscenza, ma che nonostante tutto non ha stanato la sua ambizione e quell'innaturale e sinistra connotazione che si nasconde nel desiderio di diventare uno dei più grandi di sempre.

 

Abbiamo detto dunque che ciò collega le storie di questi personaggi è la sublimazione della passione in ossessione, e che solo questo li porta a diventare memorabili nei loro rispettivi universi cinematografici. Si può definire questo atteggiamento come assolutamente necessario per diventare qualcuno? Se anche noi dovessimo ritrovarci davanti le stesse opportunità di Nina Sayers, o di Andrew Neyman, o addirittura di Lou Bloom, rimarremmo noi stessi? O ci tufferemmo senza esitazione nella dedizione per la nostra passione, consapevoli del disordine generale che questo potrebbe comportare? Per diventare ''uno dei più grandi di sempre'' è davvero essenziale stravolgere la normalità e superare ogni limite?

 

2 settembre 2024

 








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