Come ha avuto inizio l’oblio della verità nell'era della post-verità? Se, come afferma Koyré, la scienza è inseparabile dalla sua storia, è cruciale esplorare i processi che hanno portato alla caduta dell’Astratto, aprendo la strada al Nichilismo e al dominio della vuota Interpretazione.
Dio è morto ma a noi non sembra importarne molto. Dacché l’umanità ha cominciato a mungere la macchina della téchne per arroccarsi in un castello di finte sicurezze e comodità, il dubbio filosofico è passato in secondo piano e guai a chi perde ancora tempo ad esercitarlo. Sì, perché ciò che è inutile non merita attenzione e la filosofia lo è per definizione: «La filosofia non serve a nulla, dirai; ma sappi che proprio perché priva del legame di servitù è il sapere più nobile» (Aristotele, Metafisica I, 2, 982b).
Dio è morto e tutte le metafisiche con lui. Non si può più pensare l’astratto: esso è oneroso, vuoto, il più delle volte deludente e a dirla tutta spesse volte ci abbandona a scomodi cortocircuiti intellettuali che ci lasciano con un pugno di mosche in mano e un gran mal di testa. Fatti, fatti, fatti. Loro sì che fanno girare il mondo: concreti, manipolabili, semplici e sotto gli occhi di tutti. Ma anche i fatti invecchiano male nella dimensione post-moderna: «No, i fatti proprio non esistono, bensì esistono solo interpretazioni» (F. Nietzsche, Frammenti postumi).
Soggettive, incomunicabili e soprattutto incontestabili, le interpretazioni sono il frutto ultimo della morte di ogni metafisica. La seducente privatizzazione delle idee, l’impossibilità della contraddizione e l’ineluttabile potere del “secondo me” hanno illuminato gli schermi dei nostri cellulari consegnandoci ad un mondo in cui la comunicazione è sempre più prolifica ma sempre meno efficace.
Astratto, Fatto e Interpretazione: tre parole chiave che conducono a tre sentieri diversi lungo i quali l’uomo s’è avventurato in cerca di un significato per la verità durante la lunga vita del pensiero occidentale (e non).
Della prima si occuparono lungamente gli antichi, i medievali e i moderni prima che una certa forma di positivismo imponesse nel panorama culturale europeo. L’Astratto è in effetti ciò che differenzia l’essere umano dall’animale. Esso consiste nella possibilità di schematizzare il mondo e di renderlo idea: questo forse per via di una propensione biologica a riconoscere in anticipo i rischi, come Daniel Dennett insegna chiamandoci “creature popperiane”; forse grazie al nostro originale legame con il mondo dell’Iperuranio, dove le cose sensibili si mostrano in tutta la loro perfezione; forse ancora in mille altri modi e secondo mille altre teorie. Ciò che resta è che l’Astratto permane prepotente nella storia dell’uomo e gli dona da sempre la capacità di parlare, contare, pianificare e produrre.
L’Astratto è ineffabile, la sua natura è labile e certa al tempo stesso. Per i greci esso è la via vera per la conoscenza del mondo, tant’è che Aristotele ne propone persino una formalizzazione: spiega infatti che non si può dedurre il falso da premesse vere e addirittura che ci sono ragionamenti validi e altri no: solo 19 dei 64 possibili sillogismi lo sono.
E l’anima? Cos’è il corpo senza l’anima? I greci introducono nel mondo occidentale la schiacciante prevaricazione di psiché su sôma, che, come nota Galimberti, i cristiani erediteranno, andando così a snaturare il vero senso dell’ebraismo. Eppure, l’anima è un’idea indimostrabile, un costrutto dell’intelletto o forse ancor più propriamente dell’intuizione. Noi non sappiamo se essa ci sia, possiamo solo ipotizzarlo.
Ma questa ipotesi, questa vaga parvenza, non è un pensiero ininfluente, bensì ciò che dà senso al corpo, al suo agire, che dà senso alla vita. E allora conviene indagare quest’anima, scrutare l’astratto, perché il corpo che è materia inerte e non comunica non può svelarci il senso della vita, il nostro senso. Questo è ciò che Hegel chiama autocoscienza (Selbstbewusstsein), coscienza che pensa sé stessa o che più propriamente Heidegger definisce Esserci (Dasein), ovvero l’ente che si domanda dell’Essere.
Tra le più grandi creature dell’Astratto non può mancare ovviamente Dio. Esso è il risultato di un’infinita catena di “perché?” che, se non interrotta al momento giusto genera paradossi e contraddizioni. Serve un garante, un garante del mondo che sfidi ogni aporia. Ci pensano i medievali: Anselmo d’Aosta lo giustifica in maniera impeccabile e quasi un millennio dopo Godel con i suoi strumenti corre in suo soccorso per confermare la sua tesi. Persino Cartesio dopo la geniale intuizione del cogito ergo sum capisce che non si possa andare da nessuna parte senza postulare Dio. Alle porte dell’Illuminismo, Newton e Leibniz, due giganti di quella che allora era filosofia naturale e oggi è fisica guerreggiano ancora opponendo le loro teorie premettendo ai loro ragionamenti la vera natura della volontà divina.
È in seno alla cosiddetta “crisi dei fondamenti” che imperversa nelle università europee a cavallo tra il XIX e lo scorso secolo che la potenza dirompente dell’Astratto comincia ad eclissarsi. La deduzione, forma per eccellenza del ragionamento lascia spazio nel positivismo e nel neopositivismo ad un nuovo e riformulato principio d’induzione, rinforzato da quello di verificazione prima e di falsificazione poi. «Un enunciato ha significato se, e solo se, è possibile la sua verificazione» (M. Schlick, Teoria generale della conoscenza) è il motto del circolo di Vienna, breve parentesi a cui segue una vasta eredità anche dopo il brutale omicidio del suo fondatore, Moritz Schlick.
Il martello di Nietzsche batte prepotente sull’Europa e la morte di Dio si concretizza in un nuovo contesto in cui non più l’Astratto domina, bensì il Fatto. La sua misurabilità e prevedibilità lo rende unico oggetto della scienza, la quale in un rinnovato clima scettico abbandona l’idea di raggiungere la verità e si accontenta di conoscerne le caratteristiche e il comportamento. È così che al vero si sostituisce l’utile ed è così che la filosofia viene spodestata da epistéme per divenire epistémo-logia, da scienza della cosa in sé a scienza del come si può far scienza.
Di per sé questo passaggio non è grave e anzi si incastra bene in un complesso storio-culturale e sociale che richiede sempre maggior pragmatismo e dinamicità. Non mancano tuttavia tentativi strenui di salvare l’oblio dell’Astratto che si incarneranno nel progetto della Fenomenologia di Husserl e nella sua prosecuzione ad opera di Heidegger. In una direzione divergente si incamminerà il sentiero tracciato a partire da Russell, Wittgenstein e altri che accoglieranno il nuovo ruolo epistemologico della filosofia rinnovandola e fondando quella che con Quine diverrà formalmente la filosofia analitica.
Lo scopo dell’Astratto diventa quindi duplice, sebbene depotenziato: la filosofia continentale da una parte tenta strenuamente di restaurarlo sotto la maschera di un esistenzialismo sempre più affannato, mentre la filosofia analitica rinuncia al programma originale di una metafisica come teoria del tutto spostando l’attenzione su problemi circoscritti da indagare secondo il rigore di un linguaggio perfetto come quello della logica matematica.
È proprio la prima di queste due vie che in un dopoguerra dilaniato e pessimista traina la coscienza sociale alla scoperta delle ragioni filosofiche dei misfatti del nazismo. Il celebre titolo di un saggio di Hans Jonas “il concetto di Dio dopo Auschwitz” centra in pieno il punto della questione: quale Dio se non uno malvagio avrebbe permesso la Shoah e altre simili barbarie?
Dio ora è morto sia in senso metafisico che etico e le basi della ragione illuminista crollano sotto il peso di un essere umano solo al mondo e privo di ogni principio fondante. Nulla impedisce allo stesso Jonas, a Lévinas, a McIntyre e ad altri prolifici intellettuali di tentare una restaurazione della morale addirittura basando sulla stessa l’intera ontologia (come Lévinas stesso tenterà di fare in “Totalità e Infinito”). Ma il senso del tutto pare perso o, peggio ancora, insignificante, annebbiato da un nuovo vorace pragmatismo che non lascia più spazio al dialogo sulla Giustizia, proponendo anzi che l’unica Giustizia sia quello del privato.
Concetti fondamentalmente astratti e figli dell’età dei lumi quali la Comunità, la Giustizia e lo Stato vengono progressivamente sostituiti dall’opinione, dalla prospettiva, dal valore privato della verità. È l’epoca del post-moderno, della post-verità, di cui in Italia Vattimo è maggior interprete e che all’estero assume le voci di Deridda, Foucault, Deleuze e Guattari.
I media e in particolare i social giungono infine come figli corrotti del post-moderno. Uno spazio entro il quale l’individuo può sentirsi libero di esprimere la propria prospettiva gli garantisce il potere di contraddire verità anche fattuali senza ripercussioni effettive. Lo spazio sociale diviene in ultima analisi uno spazio privato condiviso, condivisibile e al tempo stesso mai realmente contraddicibile in un contesto in cui l’opinione domina sul Fatto.
In tal senso Ferraris individua nell’ironizzazione, nella desublimazione e nella deoggettivazione il successo del post-moderno. La prima, largamente presente nel mondo social si manifesta nella vittoria dell’ironia sul Fatto: il vincitore del dibattito è colui che suscita la risata più sincera, non chi dice il vero poiché il vero in sé non esiste e resta solo un’opinione. La seconda si palesa nella soppressione del pudore e nel rifiuto di qualsiasi dogma considerato de-sessualizzante o non-dionisiaco: l’ostensione del corpo viene concessa senza restrizioni e la rinnovata libertà del corpo viene scambiata per l’ottenimento di un nuovo combattuto diritto. Infine, la deoggettivazione che secondo lo stesso Ferraris si intromette nella coscienza sociale europea a partire dalla distinzione fenomeno-noumeno operata da Kant, la quale avrebbe raggiunto l’eccesso in una nuova teoria trascendentale destinata a sbilanciare il rapporto soggetto-oggetto in favore del primo. Nulla è oggettivo, bensì tutto è soggettivo.
Ma se c’è un insegnamento da trarre dallo splendido saggio di Ferraris Manifesto del nuovo realismo è proprio che, qualora si parli di qualcosa ci si riferisce sempre e comunque a qualcosa di dato a tutti e non contestabile. Non possono farsi filosofia e nemmeno retorica senza l’idea che qualcosa di vero sia effettivamente dato e che la sua conoscenza possa essere inferita dal mondo circostante senza mediazioni da tutti allo stesso modo. Credere che la verità sia morta con la crisi dei fondenti etici e metafisici è credere che nulla di effettivamente percepito e vissuto abbia un senso e quindi cadere nel nichilismo.
Se è vero come tradizionalmente Aristotele afferma che lo scopo ultimo della vita è la propria personale felicità (eudaimonia) vale la pena rischiare di pensare che essa sia qualcosa più che un non-senso privo di prospettive e di fondamento. Vale la pena scommettere su di un a verità, per quanto scomoda o discutibile e vale la pena scontrarsi e dibattere per l’affermazione della stessa, sempre nel rispetto del valore dell’altrui persona che essa stessa garantirebbe. Nel periodo del nichilismo dilagante figlio del post-moderno, la luce di un nuovo realismo è la garanzia di un ritorno ad una rinnovata eudaimonia. Dio è morto, sì, ma possiamo rianimarlo.
11 Ottobre 2024
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