Nei Contributi alla filosofia (Dall’evento) Heidegger coglie l’Essere come Evento. La storia del pensiero occidentale viene ricompresa come l’accadere dell’Essere come Evento, e più in particolare come l’accadere della sua dimenticanza. L’epoca della tecnica è il compimento di questa dimenticanza, poiché mentre regnano la spiegabilità e la fattibilità di tutto, dell’Essere non ne è più nulla. Heidegger annuncia però un “altro inizio”; il pensiero deve operare una trasformazione radicale che lo porti a disporsi all’ascolto dell’Essere piuttosto che al dominio incondizionato dell’essente.
Nei Contributi alla filosofia (Dall’evento), seconda grande opera di Heidegger che fu redatta tra il 1936 e il 1938 e pubblicata postuma nel 1989, egli espone il suo tentativo, non riuscito in Essere e tempo, di cogliere il senso o la verità dell’Essere al di qua di ogni avvicinamento preliminare, “saltandoci” cioè direttamente dentro, senza usufruire di ponti o mediazioni di sorta. Il “fallimento” dell’opera del 1927 è, in tal senso, da attribuire all’avvicinamento ancora in qualche modo “soggettivistico” e “trascendentale” alla verità dell’Essere, in quanto poneva la domanda sul senso dell’Essere a partire dalla domanda sull’essere dell’Esserci, pur cogliendo quest’ultimo al di là della sua cristallizzazione metafisica come “soggetto” o “animale razionale”. Comprendere l’Essere a partire dall’uomo, infatti, significa rimanere ancora con un piede dentro la tradizione, e il tentativo di introdursi all’Essere implica forse una qualche ulteriore riduzione dell’Essere a un che di “presente” e di avvicinabile. Nondimeno, come testimonia la Lettera sull’umanismo del 1946, l’incompiutezza di Essere e tempo è da comprendere alla luce di una mancanza del linguaggio stesso: questo è, difatti, “impregnato” di categorie metafisiche, e ciò lo rende del tutto inadatto a cogliere ciò che è sfuggito radicalmente alla millenaria riflessione della metafisica. “Dire” l’Essere con il linguaggio ereditato dalla tradizione significa perdere ciò che si vuole dire nello stesso istante in cui si prova a dirlo. La metafisica, come indagine attorno alla verità dell’ente compreso nella sua “enticità”, ha pensato l’Essere a partire dall’ente, fino ad attribuire all’Essere i tratti fondamentali dell’ente (tra tutti, il suo “esser-presente”), e giungendo infine a pensare l’Essere come ente. Anche se inteso come l’Ente sommo, l’Ente “più essente” di tutti che funge da causa prima o fondamento ultimo di tutti gli altri enti (si pensi al rapporto tra Creatore e creato), la sua differenza dall’ente è stata sempre pensata in termini inadeguati (l’Essere è stato pensato come un ente “più ente” degli altri enti). Basti pensare al rapporto fondativo tra Essere ed ente, che la metafisica ha sempre inteso in termini puramente causali, sempre con lo sguardo rivolto agli enti e ai rapporti che questi instaurano, e pensando l’Essere all’interno di quei rapporti, solo intendendolo come termine ultimo. Il rapporto tra Essere ed ente, dunque, è stato pensato su “analogia” del rapporto tra ente ed ente, e l’Essere stesso è stato pensato a partire dall’ente. Ebbene, questa tradizione millenaria che è la metafisica, da Heidegger definita talvolta anche “onto-teo-logia”, è la storia della dimenticanza dell’Essere (Seinsvergessenheit), del suo differire dall’ente, è cioè la storia dell’oblio dell’Essere che giunge al suo compimento nella moderna società tecnica, l’epoca del compimento della metafisica. In quest’ultima lo stesso oblio viene obliato, e l’ente “è” nel completo abbandono dell’Essere, mentre dominano la “producibilità totale” (tecnica) e la “spiegabilità di tutto” (scienza moderna): per dirlo in una battuta, dell’essere non ne è più nulla. Per questo Heidegger può affermare, all’inizio di Essere e tempo, che «il problema dell’essere è oggi caduto nella dimenticanza» (Heidegger, Essere e tempo). Entro questo sfondo, i Contributi sono un tentativo, fondamentalmente a-sistematico e circolare, di “saltare” nella verità dell’Essere senza ricorrere ad alcun avvicinamento preliminare, senza erigere alcun ponte. In questo suo saltare il pensiero deve farsi audace, poiché fare i conti con l’Essere significa provare a pensare ciò che per sua natura si cela, si occulta, si ritrae, si nasconde. In tal senso, il pensiero necessita di una trasformazione radicale poiché, abbandonando ogni sostegno, deve predisporsi al ritegno supremo e deve insistere nell’apertura come “frammezzo”, deve persistere nell’attesa, nel cercare e nel domandare, rinunciando a pervenire ad una risposta ultima di ciò che è per essenza mistero. Così, nei Contributi la filosofia «risale a un ambito ancora più originario anche di quello che nel passaggio dovette compiere l’impostazione “fondamentalonologica” dell’esser-ci in Essere e tempo» (Heidegger, Contributi alla filosofia (Dall’evento)). Essere e tempo si riconfigura, agli occhi di questo nuovo tentativo, come un “momento transitorio”, come un punto di passaggio e, si potrebbe dire, di svolta o inversione. Il suo fallimento risulta cioè necessario, e solo grazie ad esso il sentiero, svoltando in un tornante, riesce a proseguire verso la medesima meta. Come scrive chiaramente Heidegger, «la domanda della verità dell’Essere, è e rimane la mia domanda, ed è la mia unica domanda, perché appunto riguarda ciò che più di tutto è unico» (Ivi).
I Contributi cercano di pensare l’Essere al di là di ogni ipostatizzazione entificante, nel tentativo di mantenerlo nel suo continuo “differire” dall’ente. In conseguenza a ciò, dell’Essere non si può più dire che “è”, poiché così facendo lo si ridurrebbe nuovamente a ciò che esso “non-è”, ovvero all’ente. Quest’ultimo, infatti, “è” in quanto è presente e reso manifesto dall’Essere: la presenza è, per il pensiero metafisico, il tratto fondamentale dell’ente, in quanto l’ente è ciò che, stando dinanzi, sottomano (vor-handen), si dà al conoscere. Si può dunque avere conoscenza dell’ente, poiché l’ente è ciò che è svelato, manifesto, presente. L’Essere, al contrario, pensato per quello che è originariamente, è un che di transitivo e di differente dall’ente; è non-ente e, in un certo senso, ni-ente: «L’Essere, dal punto di vista dell’ente, non “è” l’ente: è il non ente e dunque, secondo il concetto usuale, il nulla» (Ivi). In quanto radicalmente altro dall’ente, all’Essere non può spettare il tratto della presenza e, al contrario, gli spetta quello dell’assenza. L’Essere va ripensato come ciò che si ritrae, si cela, si nasconde, si occulta, rendendo così manifesto l’ente. In questo interno differire e ritrarsi, l’Essere va pensato non più come ciò che “è” (ist) al massimo grado, ma come ciò che “si dà” (es gibt) o, in altri termini, come ciò che “accade”, “eviene” (ereignet). Questo comporta una trasformazione radicale del pensiero, e non un mero cambio di registro o di tema di indagine. Infatti, scrive Heidegger, «“Pensiero”, nell’abituale definizione, da lungo tempo in uso, è il rap-presentare (Vor-stellen)» (Ivi), e il rappresentare è, come mostra il termine tedesco, un “porre” (stellen) qualcosa “davanti” (vor) allo sguardo di chi lo osserva ovvero, modernamente, del “soggetto”. Se tuttavia l’Essere è ciò che, per la sua natura schiva, si nasconde ad ogni sguardo, è evidente che il pensiero come rappresentazione non può strutturalmente cogliere l’Essere, poiché questo non si lascia rappresentare se non perdendosi e riducendosi ad ente. Al pensiero, dunque, è richiesta una trasformazione radicale, e solo così l’Essere sarà finalmente colto nella sua verità, come Ereignis, evento. Come afferma Heidegger stesso, dopo Essere e tempo egli operò una “svolta”, “Kehre”. La svolta, però, non riguarda semplicemente un passaggio biografico e intellettuale del pensiero heideggeriano, ma è piuttosto un carattere fondamentale dell’Essere stesso in quanto Ereignis. Per quanto, certamente, il pensiero di Heidegger effettui un passaggio di fondamentale importanza, la svolta non va ridotta a questo, ma va compresa come l’accadere stesso dell’Essere come Evento, come la compresenza, in esso, di due “facce” inscindibili: Essere ed esserci, manifestazione e occultamento, dono e rifiuto, appropriazione ed espropriazione. Così, sostiene Heidegger, «l’Essere è, in quanto rifiuto che assegna, l’evento-appropriazione dell’esser-ci» (Ivi) e, in altre parole, «L’Essere “è” così l’evento (Er-eignis) dell’appropriazione (Er-eignung) del Ci, quell’aperto in cui esso stesso vibra» (Ivi). La svolta, dunque, è lo svoltare stesso dell’Ereignis, e il pensiero che voglia cogliere l’Essere nel suo svoltare non può che operare, a sua volta, una svolta. La svolta del pensiero è dunque richiesta dalla stessa essenza svoltante dell’Evento.
Ma cosa intende propriamente Heidegger quando sostiene che l’Essere è Ereignis? Il termine “Ereignis” è un sostantivo il cui significato letterale è appunto “accadimento”, “avvenimento”, “evento”. Ora, Heidegger avvicina il verbo eignen, “esser proprio”, “appartenere”, all’aggettivo “eigen”, “proprio”. Ebbene, il risultato di questo avvicinamento è il tenere insieme, nello stesso termine, il senso dinamico-storico e quello dell’appropriazione. In questo modo, il termine Ereignis può venir tradotto con “evento-appropriazione”, e il verbo riflessivo “sich ereignen” con un “accadere” che “appropria”. Va aggiunta la presenza del termine “Enteignis”, con cui Heidegger indica l’“espropriazione” dell’Essere nel suo massimo abbandono nell’epoca della Maschenschaft, termine che presenta il prefisso “ent”, il quale indica “mancanza” e “allontanamento”. Si capisce così come Heidegger riesca, tramite il termine Ereignis, a pensare ciò che già in Essere e tempo aveva inteso come la “fenomenicità” o “fenomenalità” dell’Essere, ovvero l’idea che l’Essere “si dia”, “accada”, e non “sia” meramente. Nel suo darsi storico ed eventuale, che è un accadere-appropriante, l’Essere presenta una compresenza di dono e rifiuto, appropriazione ed espropriazione, che costituiscono in un certo senso i due lati di una medaglia che “svolta”. Questa rivoluzionaria concezione dell’Essere è strettamente legata alla riflessione di Heidegger sul termine greco ἀλήθεια, tradotto (e tradito) con il termine latino “veritas”, da cui “verità”. Il termine greco va ripensato con più profondità in quanto, per la presenza dell’alfa privativo, è traducibile letteralmente con “non-velamento” o “non-ascosità”. La verità va dunque ripensata, secondo Heidegger, al di qua della sua interpretazione corrispondentista, come ciò che si presenta nascondendosi, e che quindi rende per definizione impossibile un accesso completo e assoluto: verità e non-verità sono cioè compresenti. La presenza di una negatività nella verità, testimoniata dall’alfa privativo, è ciò che porta in definitiva Heidegger ad affermare che «l’Essere è velarsi» (Ivi) e che «all’essenza dell’Essere appartiene il rifiuto» (Ivi). L’Essere, dunque, non si dà mai in piena manifestatività, ed anzi il suo rapporto con l’esserci è un rapporto che appropria ed espropria allo stesso tempo, dando luce così a diverse “configurazioni” di questo rapporto che sono le stesse epoche della storia. Dire l’Essere come Evento, dunque, significa dirne l’epocalità. La storia dell’essere (Seinsgeschichte) è così l’Essere stesso nel suo darsi e celarsi.
Più in generale, tuttavia, la concezione dell’Essere heideggeriana è rivoluzionaria per la sua attenzione e per il suo conferimento del primato al “possibile” piuttosto che al “reale”. In ciò si ripropone il senso di quella capitale affermazione di Essere e tempo, alla fine del paragrafo settimo (il paragrafo sul metodo), in cui si può leggere: «Höher als die Wirklichkeit steht die Möglichkeit», «Più in alto della realtà si trova la possibilità » (Heidegger, Essere e tempo). Questo primato è ribadito esplicitamente nei Contributi, quando Heidegger scrive che
« Solo nell’Essere permane essenzialmente come la sua fenditura più profonda il possibile, cosicché l’Essere, nel pensiero dell’altro inizio, va pensato in primo luogo nella forma del possibile. (Ma la metafisica fa del “reale”, considerato come ente, il punto di partenza e la meta della determinazione dell’essere) » (Heidegger, Contributi).
In effetti, il significato rivoluzionario dell’Essere come Ereignis sta fondamentalmente nel pensare l’Essere come possibilità estrema, di contro ad ogni “reificazione” ed “entificazione”. L’Essere come concepito da Heidegger è così molto lontano dal “cuore che non trema” della Verità di Parmenide, in quanto è anzi attraversato da un “tremito” e da una “vibrazione”: l’Essere come Ereignis trema, oscilla, si fende e si frastaglia. L’Essere, come accadere-appropriante, si dà e si cela, trema e si fende secondo delle specifiche scansioni ritmiche che sono le epoche. Le epoche e la storia sono così, in un certo senso, lo stesso “tremare” dell’Essere.
Il concetto di “altro inizio” chiama direttamente in causa l’essenza storica dell’Essere, e ha precisamente a che fare con la storia dell’essere. È l’Essere stesso che, dandosi all’esserci sempre e solo parzialmente, in questo rapporto dischiude mondi storici che sono, in realtà, l’Essere stesso nel suo accadere. Poiché l’Essere non “è” prima del suo accadere, esso è il suo stesso accadere, ovvero la sua storia. Tuttavia, in quanto l’essenza dell’Essere è l’occultamento, il rifiuto, ne consegue che la sua storia, fatta di appropriazioni ed espropriazioni, si destina necessariamente, in un primo momento, come storia del suo oblio e della sua riduzione all’ente. In virtù del carattere storico-destinale dell’Essere come Ereignis, Heidegger tenta una scansione essenziale della storia dell’Essere facendo riferimento a due domande possibili: la “domanda guida” (Leitfrage) e la “domanda fondamentale” (Grundfrage):
« Se si domanda dell’ente in quanto ente e dunque, secondo questa impostazione e in questa direzione, dell’essere dell’ente, allora colui che domanda sta nell’ambito della domanda dalla quale fu guidato l’inizio della filosofia occidentale e la sua storia sino alla sua fine in Nietzsche. Chiamiamo perciò questa domanda sull’essere (dell’ente) la domanda guida. Nella sua forma più generale è stata formulata da Aristotele: “che cos’è l’ente?” […]. Essere significa qui enticità […]. Se invece si domanda dell’Essere, l’impostazione della domanda non prende le mosse dall’ente, cioè ogni volta da questo o da quello e neppure dall’ente nel suo insieme, ma si compie il salto dentro (Einsprung) la verità (radura e velamento) dell’Essere stesso. Qui contemporaneamente si esperisce e si raggiunge con il domandare ciò che permane in anticipo (e che è nascosto alla domanda guida), l’apertura per la permanenza essenziale come tale, vale a dire la verità. E nella misura in cui l’Essere è esperito come fondamento dell’ente, la domanda così posta sull’essenziale permanenza dell’Essere è la domanda fondamentale » (Heidegger, Contributi).
La domanda guida “che cos’è l’essere dell’ente?” è la domanda che ha determinato l’inizio della filosofia occidentale e che ne ha accompagnato gli sviluppi fino all’inizio del suo compimento in Hegel e al suo compimento definitivo in Nietzsche. In tal modo, l’intera storia della filosofia è riletta da Heidegger nel suo carattere unitario, determinato dal dominio della domanda guida. «Il nome “metafisica” è qui usato senza riserve per caratterizzare l’intera storia della filosofia fino ad oggi» (Ivi); ciò comporta che tale percorso unitario, che va fondamentalmente da Anassimandro a Nietzsche, è da intendere come la metafisica stessa, e questo percorso è da Heidegger denominato “primo inizio”. La storia della domanda guida, dunque, è la storia della filosofia occidentale, che è la storia della metafisica ovvero la storia del primo inizio.
La metafisica è la storia del pensiero che riduce l’Essere all’ente, che dunque fugge costantemente dall’Essere per tuffarsi nell’ente, in una fuga che è determinata da un “imbarazzo”, per altro testimoniato fin dagli inizi della filosofia, dinanzi al fondamentale problema dell’Essere. Riassumendo: «La storia di questa domanda [la domanda guida] dell’essere è la storia della metafisica, del pensiero che pensa l’essere come essere dell’ente, in base a quest’ultimo e avendo quest’ultimo di mira» (Ivi). Noi sappiamo che domandare attorno all’essere dell’ente (domanda guida) significa obliare la “differenza ontologica” di Essere ed ente, il che significa, a sua volta, obliare la verità dell’Essere. In questo senso, la storia della metafisica è la storia della dimenticanza dell’Essere (Seinsvergessenheit). La dimenticanza dell’Essere, tuttavia, non è da intendere come un “errore” dei metafisici, evitabile o quantomeno emendabile, ma piuttosto come l’“errare” stesso dell’Essere. Infatti, «il fatto che l’essere abbandoni l’ente significa che l’Essere si vela nell’evidenza dell’ente. E l’Essere stesso è essenzialmente determinato come questo velarsi che si sottrae» (Ivi). La dimenticanza dell’Essere, che è la storia della metafisica, è infatti il destino dell’Essere il quale, poiché è essenzialmente rifiuto, “si destina” al pensiero come dimenticanza e dunque come metafisica; la dimenticanza dell’Essere è allora una necessità dell’Essere stesso. In altre parole, poiché l’Essere deve celarsi affinché l’ente si manifesti, il destino dell’Essere è quello di essere dimenticato, e con ciò il destino del pensiero è di concentrarsi sull’ente, allontanandosi dall’Essere.
« Il primo inizio esperisce e pone la verità dell’ente senza domandare della verità come tale, poiché ciò che in essa è svelato, l’ente in quanto ente, sovrasta necessariamente tutto perché inghiotte anche il niente e lo ingloba in sé nella forma del “non”, del contro, o lo annienta del tutto » (Ivi).
Siamo all’interno della storia dell’oblio dell’Essere, che si compie nell’ente che sovrasta tutto, nella sua assoluta e piena evidenza e presenza. Al progressivo nascondersi dell’Essere l’ente svetta sempre più luminoso, e il pensiero si rivolge sempre più esclusivamente verso di esso. Il “primo inizio”, passando per la metafisica della soggettività moderna, compie il destino dell’Essere come oblio nel momento in cui l’ente giunge a costituirsi come mero “oggetto” a portata del “soggetto”, fino ad essere materialmente dominato da questo, e laddove esso perviene alla sua massima evidenza e completa autonomia dall’Essere: è questa l’epoca del compimento della metafisica, l’epoca della società tecnica. Come Heidegger scrive ne Überwindung der Metaphysik, infatti, «Il termine “la tecnica” è qui inteso in modo così essenziale che il suo significato si identifica con quello di “metafisica compiuta”» (Heidegger, Oltrepassamento della metafisica). Questa epoca viene colta, nei Contributi, con il termine “Macchinazione” (“Maschenschaft”). Il completo dominio della fattibilità dell’ente cui si giunge nella società tecnica fa cioè perno su una precomprensione dell’ente come ciò che, in quanto presente lì davanti, è pienamente dominabile:
« Si considera l’ente, nel senso di ciò che è oggettivamente lì presente, come ciò che è indiscutibile e intangibile a cui ci si attiene nella maniera più adeguata se ciò che è lì davanti sotto-mano (vor-handen) si trasforma nell’utilizzabile alla mano (zuhanden) per eccellenza e se quest’ultimo è installato in senso senz’altro tecnico » (Heidegger, Contributi).
Da quanto detto sopra, è subito evidente che questa interpretazione dell’ente è possibile solo per un pensiero che abbia dimenticato l’Essere concentrandosi solo sull’ente, e questo è il pensiero del primo inizio. La metafisica culmina dunque nella macchinazione, la quale si rivela essere il compimento di quel pensiero che domina l’ente anzitutto su di un piano conoscitivo, riducendolo a “oggetto”, e che giunge infine a dominarlo materialmente mediante l’apparato tecnico, in cui la “volontà di potenza” come “volontà di volontà” si esercita ciecamente e con una potenza inesauribile. L’assoluta evidenza dell’ente, per cui esso sussiste tranquillamente anche nell’abbandono dell’essere, giunge infine, nell’epoca del compimento della metafisica, a determinarne la “banalità” e la “quotidianità”. Lo stesso ente finisce per non destare alcuna curiosità e domanda, e tutta l’attenzione che si rivolge ormai ad esso ha soli intenti strumentali. Nell’epoca della tecnica, dunque, si esaurisce infine anche la domanda attorno all’essere dell’ente (domanda guida), e l’oblio dell’essere diventa, propriamente, oblio dell’oblio. Dell’essere non ne è più nulla.
Heidegger annuncia però la possibilità di un “altro inizio” che si contrapponga al primo:
«Nell’epoca della totale assenza di domande è sufficiente porre una buona volta la domanda di tutte le domande. Nell’epoca dell’infinita indigenza, nella prospettiva della latente necessità della assenza di necessità, questa domanda deve inevitabilmente apparire come la chiacchera più inutile, peraltro già liquidata […]. La domanda del “senso dell’Essere” è la domanda di tutte le domande» (Ivi).
L’altro inizio e il primo inizio non sono propriamente due “inizi” distinti, né fanno direttamente riferimento a due fasi storiche separate. Piuttosto, l’inizio è, in un certo senso, sempre lo stesso, mentre è ciò che da questo si attiva e diparte che è differente. Di che inizio stiamo parlando? Di quell’inizio che è l’Essere stesso come “intrasponibile inizialità”: «L’inizio è l’Essere stesso in quanto evento, il velato dominio dell’origine della verità dell’ente come tale. E l’Essere, in quanto evento, è l’inizio» (Ivi). Questa inizialità che è l’Essere come Evento è l’inizialità del far-essere l’ente ritraendosi, è lo stesso movimento transitivo dell’Essere come suo differire dall’ente. In questo complesso movimento l’Essere “svolta” su sé stesso, si “fende”, e dà inizio all’inizio. Ora, mentre il primo inizio è un “inizio iniziato”, giacché distoglie lo sguardo dall’inizialità e lo rivolge a ciò a cui questa inizialità ha dato inizio, ovvero l’ente, l’altro inizio intende invece “saltare dentro” a questa stessa inizialità dell’Essere. In questo senso l’inizio, da intendere come l’inizialità originaria dell’Essere, è il medesimo (l’Essere, appunto), mentre a mutare è, in un certo senso, il “momento” che viene prediletto di questa inizialità. Il pensiero dell’altro inizio, dunque, è il “pensiero iniziale” dell’inizialità, mentre il pensiero del “primo inizio” è il pensiero dell’iniziato e, in questo senso, la storia del primo inizio è la storia di un continuo finire poiché, avendo posto l’attenzione a ciò che è iniziato, anziché all’inizialità stessa, ha posto l’attenzione ad un inizio che ha smesso di iniziare. Come scrive Heidegger, «anche ciò che dell’inizio è iniziale va perduto, ovvero si ritrae in ciò che dell’inizio è insondato, non appena la domanda guida diventa decisiva per il pensiero» (Ivi). L’insondato dell’inizio è proprio la sua intrasponibile inizialità, quel movimento stesso che è la verità dell’Essere, per cui esso svolta in una dinamica di dono e rifiuto. Per questo motivo Heidegger individua in Nietzsche il pensatore della fine della metafisica, in quanto in Nietzsche questo inizio viene finalmente a galla nella maniera più esplicita: il primo inizio è ciò che, in quanto è inizio iniziato, è inizio che è dall’origine destinato al suo finire. La fine della metafisica è infatti l’essenza stessa della metafisica come oblio dell’Essere. La disattenzione a ciò che è iniziale è lo stesso oblio dell’Essere in favore dell’ente.
Come avviene, però, il passaggio dal primo all’altro inizio? «Dalla domanda guida alla domanda fondamentale non si verifica mai un procedere diretto che mantenga lo stesso senso e impieghi ancora la domanda guida (rivolta all’Essere), bensì solo un salto, cioè la necessarietà di un altro inizio» (Ivi). È solo mediante un saltare, privo di ponti e privo di ogni certezza, che l’altro inizio del pensiero si dischiude. Questo passaggio, però, non può che avvenire nell’epoca del compiersi del primo inizio: «La metafisica occidentale è dunque, alla sua fine, lontanissima dalla domanda sulla verità dell’Essere, eppure al tempo stesso vicinissima giacché, in quanto fine, ha preparato il passaggio che a quella domanda conduce» (Ivi). Lo stesso concetto di “differenza ontologica”, usato da Heidegger decisamente meno di quanto si sia soliti pensare (perché contiene ancora un residuo metafisico), è un concetto che incarna il passaggio, cogliendo nello svettare dell’ente la presenza di una assenza. L’altro inizio è, dunque, il saltar dentro, a seguito di una rincorsa (momento di passaggio preparatorio), nell’essenza svoltante e abissale dell’Essere, ovvero dentro la sua intrasponibile inizialità. In questo, il pensiero effettua una svolta, e dalla domanda guida passa alla domanda fondamentale. La metafisica, mediante questo svoltare, viene oltrepassata, ma non nella forma di un andare “oltre”, di un “superamento” (neanche di un “Aufhebung” in senso hegeliano), bensì nella peculiare forma dell’addentrarcisi, del “passo indietro” (schritt zurück) all’origine: il superamento della metafisica è il suo “involgimento”, la sua “torsione”, “Verwindung”, intesa come ritorno all’origine. Questo perché l’altro inizio non è da intendere come un secondo inizio, ma come un “riattivare” l’inizio occultato dall’inizio iniziato. È l’origine del primo inizio, ovvero della metafisica, che il pensiero dell’altro inizio pone ad indagine, e questa origine è l’inizialità stessa dell’Essere. La metafisica non è propriamente superabile nel senso di qualcosa che può venir “lasciato alle spalle”, perché essa è il destino stesso dell’Essere. Piuttosto, la metafisica giunge ad un punto in cui è possibile il suo svoltare verso l’origine che l’ha determinata, pervenendo a quel “prima” che è l’inizialità. Il pensiero, in quanto deve farsi svoltante, deve permanere nel passaggio, nel salto, senza pervenire ad alcun atterraggio, il che è determinato dalla stessa essenza svoltante dell’Essere. Rimanere nell’inizialità significa far sì che l’altro inizio permanga nel passaggio, perché il suo risolversi in percorso ne segnerebbe il suo ridursi, nuovamente, ad inizio iniziato, l’inizio che ha smesso di iniziare.
Il suo saltar dentro l’essenza dell’Essere, infatti, non è un banale cambio d’oggetto e di riferimento, ma richiede una trasformazione radicale dell’uomo, il quale deve appropriare sé nell’esser-ci, compiendo il suo destino come guardiano della verità dell’Essere. Questo avviene mediante la disposizione fondamentale del ritegno, per cui il pensiero si fa attesa e domanda, e in tal senso ottiene una autentica fondazione: il pensiero riesce a pervenire ad una fondazione originaria solo lasciando-essere il fondamento come fondante. Il pensiero iniziale, come pensiero dell’inizialità, è il pensiero che, anziché “pro-durre” e predisporre l’ente, lascia essere l’Essere come fondamento. L’Essere, nel suo silenzioso ritrarsi, richiede all’uomo di disporsi all’ascolto, richiede cioè una trasformazione, da soggetto che è giunto a porre e dominare l’oggetto, a guardiano del mistero dell’Essere. Solo nell’altro inizio la verità dell’Essere può apparire come rifiuto, solo in questa svolta l’uomo può, giungendo al suo “proprio”, trasformarsi spostandosi nella radura, insistendoci, e disponendosi all’ascolto. Il compito che spetta a noi, in quanto figli dell’epoca della metafisica compiuta, è allora quello di predisporci al ritegno, all’ascolto, di modo da poter udire la silenziosa chiamata dell’Essere nel tempo del suo completo abbandono. In un’epoca in cui regnano la fattibilità di tutto, la producibilità totale dell’ente (tecnica) e la spiegabilità di ogni inspiegabile (scienze moderne), è necessario accogliere il mistero dell’Essere, e operare una svolta nel pensiero. Certo, questa trasformazione richiede la massima modestia e al tempo stesso il massimo coraggio. Infatti, ci vuole modestia per disporsi all’ascolto, e ci vuole coraggio per saltare in quel fondamento che, in quanto è senza fondo, non può darci alcun sostegno.
31 settembre 2024
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