Il presente contributo presenta, in maniera telegrafica, un’interpretazione non molto usuale, nella storiografia contemporanea sul buddhismo antico, ma non gratuita, come si dimostrerà con riferimenti ai testi originali, circa un possibile modo d’intendere l’Assoluto all’interno della cornice filosofico-religiosa del buddhismo pāli.
di Simone Perrone
È doveroso premettere alla “meditazione” che di seguito proporremo una precisazione sul senso in cui qui intendiamo il concetto di “Assoluto”: esso sarà assunto nel suo semplice senso etimologico, spogliato delle stratificazioni filosofiche e “mistiche” che nei secoli vi si sono aggiunte. Non perché siano irrilevanti o inutili per capire quanto andremo dicendo, ma per restituire il termine in questione alla sua matrice originaria, indi procedere a una sua definizione in termini buddhisti. “Assoluto” verrà dunque a significare, anzitutto, “svincolato”, sciolto dalla dipendenza da cosa quale che sia.
È lecito parlarne in riferimento all’insegnamento buddhista qual è dato cogliere in primo luogo dai testi canonici? Come apparirà chiaro man a mano che la nostra esposizione procederà, riteniamo che il nibbāna (più noto nel suo corrispettivo sanscrito nirvāṇa) possa essere sussunto sotto il concetto di “Assoluto”. Il Canone pāli, notoriamente, è parco di sue descrizioni particolareggiate, verosimilmente in ragione di una sorta di profonda riverenza verso la sua “sacertà”, rispetto alla quale l’atteggiamento più acconcio non può esser altro che il silenzio. Ma è pur necessario prefigurare agli adepti buddhisti l’esito degli sforzi cui essi si sottopongono, poiché, certo, la vita monastica non è – almeno dapprincipio – priva di difficoltà e momenti critici, come testimoniano, ad esempio, le “strofe delle monache anziane” (Therīgāthā).
Se, dunque, il Buddha non poté sottrarsi all’istanza di parlare del nibbāna, il suo approccio maggiormente rappresentato nei testi canonici è senz’altro quello di tipo “apofatico”, tale per cui dell’Assoluto egli tende ad enfatizzare la sua “alterità” rispetto a quanto è noto dall’esperienza “mondana”, sia essa ordinaria ovvero, com’è quella legata agli stati meditativi, anche i più elevati, straordinaria. Celebre, al riguardo, è il Paṭhamanibbānapaṭisaṃyutta-sutta (Primo discorso connesso al nibbāna), ove il Buddha fa riferimento al nibbāna, innanzitutto, con un pronome dimostrativo, tad, “quello”, che non si può escludere a priori richiami uno dei modi con cui le Upaniṣad fanno riferimento al principio assoluto: “tat”, in Chāndogya Upaniṣad (probabilmente pre-buddhista) 6.8.7, ove si trova il famoso mahāvākya (“grande sentenza”) tat tvam asi, tradizionalmente interpretato come “Quello tu sei”, a indicare l’identità ontologica tra il micro e il macro-cosmo, tra l’essenza del soggetto e quella dell’intero universo, insomma tra Ātman e Brahman.
Vi sono autorevoli studiosi che hanno rilevato come certe descrizioni “apofatiche” del nibbāna all’interno del Canone antico abbiano di fatto un «pretto sapore upaniṣadico» (M. Piantelli), «cioè pare di scorgere una concezione del nirvāṇa reificata quale ente metafisico» (A. Rigopoulos). Non siamo da ciò condotti di necessità a desumere che i referenti di queste pur similari descrizioni siano i medesimi; potrebbe anch’essere, secondo una spiegazione più “economica” e rispettosa delle differenze dottrinali, che si sia fatto uso di preferenza di termini “negativi” nella comune consapevolezza di non poter parlare in modo compiuto di ciò che, per sua natura, trascende il linguaggio.
Eppure, un’ulteriore area di sovrapposizione tra questi due importanti “movimenti” potrebbe rinvenirsi nella concezione parimenti “metafisica” dell’Assoluto, inteso in ambedue quale “realtà ultima”. Non solamente trascendente, in quanto anche immanente, ma tale per cui la sua realizzazione finale coincide col superamento definitivo del mondo condizionato nella sua totalità: di quello che è universalmente noto come saṃsāra (“con-scorrere”).
A corroborare la tesi per cui il nibbāna possa essere propriamente concepibile quale “Assoluto”, si può addurre non soltanto la sua definizione tipica come “incondizionato” (asaṅkhata), già di per sé prossima concettualmente a quella di “Assoluto”, ma altresì un passo di una tra le opere più celebri della letteratura buddhista antica, cioè il Milindapañha (Le questioni di Milinda), ove si sostiene che del Buddha, trapassato e pervenuto così alla definitiva realizzazione, non è possibile dire che sia “qui o lì”. Siamo legittimati a derivarne che il nibbāna finale non sia nella dimensione dello spazio; come non in quella del tempo e nell’ordine della causalità.
Non nella dimensione temporale, poiché sempre il Milindapañha c’informa che per quanti abbiano “raggiunto” il nibbāna definitivo il tempo vien meno; non nell’ordine causale, poiché, secondo quanto apprendiamo stavolta da quell’autorevole compendio della dottrina e delle pratiche della tradizione pāli che è il Visuddhimagga (Il sentiero della purificazione), il nibbāna è “non-prodotto” (appabhava): esiste un metodo che vi “conduce”, quello (ri)scoperto e insegnato dal Buddha, ma esso a rigore non lo produce. Insomma, il nibbāna è affatto “svincolato”, “sciolto”, “indipendente”: non si costituisce in relazioni di dipendenza da spazio, tempo e causalità; sicché è, in una parola, “Assoluto”.
Riteniamo che un compito dello studioso sia non meramente ripetere pedissequamente quanto si trova nei testi, ma anche derivarne le conseguenze, svilupparne le implicazioni, rendere esplicito l’implicito. Con questa convinzione metodologica, possiamo concludere che, se non nello spazio, se non nel tempo, se non soggetto alla legge di causalità, il nibbāna sia allora infinito, eterno e incausato. Questo ha conseguenze di certo rilievo per il nostro discorso. Se, infatti, esiste un che siffatto, a rigore non sarà possibile “raggiungerlo”, poiché ciò vorrebbe dire (1) muoversi entro uno spazio definito, transitando da un punto “A” a un punto “B”; (2) il darsi di tal moto in un arco temporale definito; (3) attivare un processo causale che determini il passaggio da “A” a “B” in un tempo limitato.
Ciò, se applicato al nibbāna, è evidentemente assurdo. Ma c’è di più: il nibbāna riluce nella sua purezza originaria, non più maculata da contaminazioni avventizie determinate da sovrimposizioni cognitive, quando si verifichi quella che è definita “fine del mondo” (lokassanta). Cos’è, dunque, il “mondo”? Il Samiddhilokapañhā-sutta (La domanda di Samiddhi sul mondo) ne dà una pregnante definizione in termini di ciò che risulta dall’occorrenza di un organo di senso, il suo proprio oggetto, la coscienza corrispondente e quel che per suo tramite può conoscersi. Questo è chiamato “mondo” (loka) ovvero il suo “concetto” (lokapaññatti). Il testo è denso di implicazioni che qui, tuttavia, non possiamo adeguatamente esaminare. Possiamo quanto meno rilevare che il medesimo discorso afferma che, quando nessuno dei fattori suddetti si dia, viene meno anche il “mondo” o il suo “concetto”.
Ma è tutto? Alla scomparsa del “mondo” non avanza alcunché? Se fosse così, i detrattori – antichi e moderni – che tacciano il buddhismo di “nichilismo” non sarebbero in fallo. Non è così, tuttavia. Vediamo perché. Un’altra definizione di “mondo” è quella che lo intende come le “sei basi sensoriali” (saḷāyatana), che nel loro insieme tracciano il perimetro dell’esperienza: occhio-forme visibili, orecchio-suoni, e così via, includendo la “mente” (mano) e gli oggetti mentali (dhamma) come sesto ambito. Ora, il Kāmaguṇa-sutta ci dice che può verificarsi l’arresto dei sei campi sensoriali (saḷāyatananirodha), vale a dire la cessazione dell’occhio e della percezione di forme materiali etc.; insomma, la cessazione del “mondo”. Ma c’è una “base” (āyatana) in cui ciò avviene. Il testo di per sé non precisa di cosa si tratti, ma il commentario specifica che il riferimento è al nibbāna.
Possiamo, quindi, rispondere in modo deciso alla domanda posta addietro: quando il “mondo” cessa, l’Assoluto risplende nella sua immacolata trasparenza. Il nibbāna è, dunque, la realtà ultima; il “mondo” ne è una sorta di “copertura”, del tutto contingente, poiché può venir meno, può non essere, laddove l’Assoluto è indefettibile, non può non essere.
Ma c’è un’ulteriore, fondamentale conseguenza che si può trarre: in quanto il nibbāna è eterno, esso è sempre presente, sia quando il soggetto si trovi nel divenire ciclico caratteristico del saṃsāra, sia quando se ne liberi. Ma, allora, dal punto di vista assoluto la “liberazione” non è una condizione che si aggiunga al nibbāna o comunque una sua modificazione, bensì la sua natura intrinseca, co-eterna con esso. Insomma, la liberazione, se non convenzionalmente, non ha un momento d’inizio, giacché, in quanto co-essenziale col nibbāna, è al pari di questo sempiterna, e dunque, a rigore, non può essere effettuata come risultato finale di un lungo percorso di studio e pratica.
Non che, per questo, tutto ciò sia inutile e superfluo: è irrinunciabile, ma il suo valore si esaurisce sul piano del mondo convenzionale, poiché la liberazione (mutti) – ineffabile, poiché non ricompresa nel “mondo” – non è un “conseguimento” che avvenga in un certo luogo e tempo, ma, semmai, un “disvelamento” di ciò che è sempre stato e sempre sarà: il nibbāna, l’Assoluto. Crediamo che questo, invero, sia il senso più profondo e radicale di quella citazione, presente nel Visuddhimagga (XVI, 90), che dice, nella traduzione italiana di A. S. Comba: «C’è la liberazione, non l’uomo liberato» (atthi nibbuti, na nibbuto pumā).
“Liberazione”, in questa prospettiva, non significa divenire qualcos’altro o scoprire la propria intima essenza, in una corrispondenza micro- e macro-cosmica, bensì spogliarsi, definitivamente al momento della morte di un compiutamente realizzato, di tutto ciò che mai si è stati né mai ci è appartenuto, tutto ciò di cui si può - e si deve - dire: “questo non è mio, questo non sono io, questo non è il mio sé” (netaṃ mama, nesohamasmi, na meso attā), e cioè i diversi ma correlati aspetti dell’esperienza, definiti già dal Buddha stesso in termini di “cinque aggregati” (pañcakkhandha): forma materiale (rūpa), sensazione (vedanā), appercezione (saññā), volizione (saṅkhāra), conoscenza discriminativa (viññāṇa). Quand’essi cessano di manifestarsi, e così di costituire dinamicamente l’esperienza umana, allora risplende pienamente l’Assoluto: “dove”, come dice il Bāhiya-sutta, non rifulgono le stelle, ma non per questo v’è oscurità.
Alla morte del soggetto pienamente realizzato, dell’arahant (lett. “degno”), la stessa dualità caratteristica del “mondo” (condizionato) sparisce. Essa, difatti, esiste nella correlazione tra le basi sensoriali interne ed esterne – prendendo ad esempio l’analisi dell’esperienza in termini di saḷāyatana –, ma con la “fine del mondo” non può che cessare anch’essa, rivelandosi puramente contingente. Non ci arrischiamo al punto di dire “inesistente”, poiché il “mondo”, il saṃsāra, l’esistenza (bhava), possiedono senz’altro un grado di realtà: non sono pure e semplici illusioni, ma, in quanto contingenti, in quanto defettibili, non sono paramaṃ ariyasaccaṃ, la “suprema, nobile verità”.
Ma è pur vero che, senza l’apparenza e le pratiche che con essa hanno a che fare, inclusa la “contemplazione”, mancherebbe quel mezzo indispensabile per scorgervi “dietro” l’Assoluto, che peraltro, occorre dirlo, non ne è la causa, in quanto è al di fuori di ogni relazione causale. Detto altrimenti, il nibbāna non è ciò da cui “promana” il saṃsāra: nessun testo canonico ne ha una tale concezione. La molteplicità fenomenica, dunque, è irriducibile a un'unica sostanza che ne sia il fondamento ontologico; pertanto, la tradizione pāli non può essere intesa in modo "monista". E tuttavia, il nibbāna – per usare le parole di A. Pelissero – “si trova dietro lo schermo mutevole degli skandha [equivalente sanscrito del pāli khandha]”, è la “realtà soggiacente all’apparenza”.
Una sorta di dualismo (realtà-apparenza, condizionato-incondizionato, saṃsāra-nibbāna), quindi, nella tradizione in esame effettivamente si dà – in ciò differenziandola dalle filosofie “non-dualiste”, e non è un caso che lo stesso termine advaya, “non-duale”, sia scarsamente presente nelle sue fonti –, giacché saṃsāra e nibbāna sono ambedue irriducibili. La differenza di natura che intercorre tra essi è, piuttosto, nella nostra interpretazione, che il primo è contingente, ma non per questo “illusorio” o addirittura “inesistente” tout court, mentre il secondo è il solo a essere in un certo senso “necessario”: impossibilitato, per la sua stessa natura “immortale/oltre la morte” (amata), a venir meno.
La molteplicità fenomenica, con le sue coppie di contrari, relativi per il fatto stesso di costituirsi in correlazione, ossia sempre uno in rapporto al suo contrario, al culmine di un percorso meditativo che comporta il graduale assottigliamento della mente e la rarefazione delle sue funzioni cognitive, da ultimo scompare, lasciando brillare, immacolato, il nibbāna, che rivela la natura velleitaria di ogni tentativo di definirlo. Rimane, infine, soltanto la liberazione con la sua plenitudine, affatto inconcepibile secondo categorie “mondane”, le sole che abbiamo.
In conclusione, se il saṃsāra è, come dice una citazione contenuta nel Visuddhimagga (XVII, 115), la successione ininterrotta degli elementi costituenti l’esperienza, il nibbāna per converso ne è l’arresto, tant’è vero ch’esso, nel Sāriputta-sutta, è definito come bhavanirodha, “cessazione dell’esistenza”, “cessazione del divenire”, senza che ciò autorizzi un’interpretazione schiettamente nichilista. Poiché, come s’è detto, è proprio alla “fine del mondo”, ovvero all’”arresto delle sfere sensoriali”, insomma al superamento della dimensione condizionata, che l’Assoluto – in un “non luogo”, in un “non tempo” e senza “causa” – risplende in tutta la sua purezza.
È la fine definitiva della sofferenza (dukkhassanta), possibile in ogni dove e quando, poiché, se il nibbāna è incondizionato, com’è davvero secondo la tradizione in analisi, non esistono un luogo e un tempo che gli siano più vicini, ma solo circostanze più favorevoli – come, sopra tutte, quelle offerte dalla vita monastica - al suo intuitivo riconoscimento. Ciò, peraltro, non ne altera la natura: il nibbāna non è passibile di trasformazione alcuna; ma, certo, dal lato del mondo condizionato l’effetto è il superamento della sofferenza esistenziale: un fenomeno relativo che, come tale, può cessare lavorando sulle sue cause con il metodo messo a disposizione dell’umanità dal Buddha, in grado massimo sapiente e compassionevole.
6 settembre 2024
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