François de la Rochefoucauld è un filosofo per tutti e per nessuno. La sua scrittura, semplice e diretta, racconta di noi: dei nostri vizi, delle nostre debolezze. Ma è proprio questa franchezza, che non conosce mezze misure, a suscitare un fastidioso disagio e a rendere il moralista francese un pensatore difficile da “digerire”. Il maggiore problema non è la comprensione delle sue massime, ma il riconoscersi in esse. In questo contributo si fornirà un piccolo assaggio dello stile di La Rochefoucauld con l’analisi di una delle sue sentenze più celebri: «Né il sole né la morte si possono guardare fissamente».
Tra i moralisti francesi del Seicento, François de La Rochefoucauld (1613-1680) è forse quello che maggiormente brilla per lo stile delle sentenze. Le sue massime sono piccoli gioielli cesellati con abili artifici retorici che hanno l’effetto di indurre nel lettore un senso di nudità. La Rochefoucauld svela le debolezze e le ipocrisie del genere umano, i meccanismi subdoli dell’amor proprio, i vizi che si nascondono dietro le apparenti virtù. Per chi non è abituato a “guardarsi allo specchio” è difficile resistere alle parole taglienti del filosofo. In questo breve contributo si prenderà in esame una sentenza la cui densità iconico-semantica è particolarmente indicativa della scrittura di La Rochefoucauld:
« Né il sole né la morte si possono guardare fissamente. » (F. de La Rochefoucauld, Massime)
La forza espressiva della sentenza non è solo nella capacità di contrarre in una frase un vasto orizzonte di significati. In tal senso essa è paragonabile per intensità al «Mi illumino d’immenso» di Ungaretti o ai più celebri versi dei poeti ermetici. L’aspetto che la rende così incisiva è il suo carattere perturbante. La Rochefoucauld costruisce la sentenza su un’associazione inconsueta: il risultato è una sensazione di straniamento che sembra ricordare quella prodotta da alcuni quadri di Escher. Come orientarsi se sole e morte sono accostati sul medesimo asse dalla visione?
Nell’immaginario comune il sole rinvia alla luce, alla vita, al dinamismo; la morte all’oscurità, alla rigidità, all’inerte. Affermare che sole e morte non possono essere guardati fissamente genera una ristrutturazione del campo di tensioni. Le due verticalità di segno opposto si ritrovano sulla stessa retta. In apparenza, la forzatura sembrerebbe riguardare soprattutto la morte, che rientra nella dimensione notturna. Ma il suggerimento di La Rochefoucauld è chiaro: la fonte del visibile resta in sé invisibile, perché fissarla acceca. Questa constatazione produce un importante slittamento semantico: l’assoluta visibilità del sole confina con l’invisibile. La deterritorializzazione del sole dal visibile si riverbera sulla seconda parte della sentenza, che si presenta a primo impatto ancora più enigmatica.
È noto quanto i filosofi abbiano invitato a meditare sulla morte. Qualche decennio prima di La Rochefoucauld, Montaigne aveva ripreso l’adagio platonico della filosofia come esercizio di morte. Sebbene la morte possa costituire un pensiero spiacevole, chi desidera vivere con saggezza deve rappresentarla costantemente. Questa importante tradizione insegna che solo fissando la morte si apprende a vivere.
Perché allora La Rochefoucauld enuncia un’impossibilità? Non dovrebbe, come tanti filosofi, chiederci di guardare con coraggio la morte? Si potrebbe giustificare l’apparente dissonanza con la presenza in La Rochefoucauld di una matrice epicurea (Cfr. W. Sivasriyananda, L’épicurisme de La Rochefoucauld). Per la filosofia del Giardino occorre concentrarsi sul presente, in quanto la morte è mera privazione di sensazione.
« Abituati a pensare che la morte non è nulla per noi, perché ogni bene e ogni male risiede nella facoltà di sentire, di cui la morte è appunto privazione. » (Epicuro, Epistola III a Meneceo)
Ma si giungerebbe a un paradosso: se la morte è un nulla, perché accostarla al sole? Entriamo in un vicolo cieco. Che la morte sia anticipata o ignorata, il guardarla non sarebbe problematico. Anzi fissarla dovrebbe aiutare l’uomo a considerarla come indifferente o a svalutarla nell’insignificanza. Per risolvere la difficoltà è opportuno fare un passo indietro. La Rochefoucauld non crede a quello che dicono i filosofi:
« L'attaccamento o l'indifferenza che i filosofi avevano per la vita non era che un gusto del loro amor proprio » (François de la Rochefoucauld, Massime).
Una massima che dà un colpo di spugna a oltre mille anni di presunta saggezza. Per La Rochefoucauld i filosofi hanno ben poco da insegnare sulla vita o sulla morte. Le loro riflessioni ci istruiscono più sul loro amor proprio che su come condurre la nostra vita. Il soggetto che pronuncia la sentenza non è allora il filosofo La Rochefoucauld, ma l’uomo. Per chi è onesto con se stesso non resta che ammettere l’impossibilità di fissare la morte. Percepita negli altri o immaginata, la morte provoca un’angoscia profonda che invade l’anima. Come il sole, la morte acceca: nel sole è l’eccesso del visibile ad abbagliare, nella morte è la rappresentazione di una notte infinita che tutto inghiotte. I due estremi del visibile e dell’invisibile non sono tollerabili dall’uomo, la cui esistenza è un breve soggiorno su una soglia crepuscolare. L’eco della sentenza di La Rochefoucauld non è però solo retrospettiva ma anche proiettiva. Si inserisce infatti nella filosofia contemporanea da contrappunto per ulteriori variazioni che la arricchiscono di senso. Si pensi al primo Heidegger, secondo cui la morte rappresenta la possibilità estrema e fondante dell'esistenza umana.
« La morte è una possibilità di essere che l’Esserci stesso deve sempre assumersi da sé. Nella morte l’Esserci incombe a se stesso nel suo poter-essere più proprio. » (M. Heidegger, Essere e tempo)
La condizione mortale implica l’essere accompagnati da questa possibilità limite, che definisce il nostro potere-essere. La morte preserva questo potere-essere finché rimane una possibilità, ma, nel momento in cui si attualizza, annulla ogni altra possibilità e dunque l’esistenza. Riletta la morte in questi termini, la sentenza di La Rochefoucauld indica allora l’impossibilità a darsi dell’estrema possibilità dell’esistenza. La morte non può essere guardata perché la sua presenza pietrifica l’osservatore, portandolo nello spazio dell’assoluta trasparenza a sé delle cose. Nell’atto di reificare la morte sfocia nell’eccesso del visibile. La morte è come una sorta di Euridice che affianca l’uomo. Tuttavia, a differenza del mito, l’incrocio di sguardi tra l’uomo Orfeo e la morte Euridice fa sparire entrambi nell’indifferenza di un visibile anonimo e assoluto che nulla dà a vedere.
Così sole e morte si ritrovano ad essere meno opposti di quello che apparivano all’inizio. Gli estremi del visibile e dell’invisibile tendono a identificarsi; il darsi della morte si avvicina asintoticamente alla pura visibilità di un sole che acceca e annulla il vedere e, con esso, il darsi di un mondo e della coscienza. In conclusione, la bellezza della massima di La Rochefoucauld è tutta in questo intreccio fecondo tra due immaginari distinti che cozzano: dal loro scontro scintillano associazioni inedite. Tra sole e morte si genera infatti un gioco di specchi, di riflessioni/rifrazioni in cui il discorso sulle differenze (vita-morte, luce-tenebre, visibile-invisibile) rivela un acceso dinamismo che scardina le nostre abitudini di pensiero.
11 settembre 2024
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