Donne, globalizzazione e il movimento internazionale delle donne

 

Breve estratto di La rivoluzione al punto zero. Questa edizione integrale del testo di Federici è un must read che mette a nudo il ruolo centrale ma invisibile del lavoro domestico e di cura nel sistema capitalistico e raccoglie decenni di analisi e pratiche femministe, per dare voce alle lotte contro lo sfruttamento silenzioso delle donne e fornire strumenti per trasformare radicalmente il presente.

 

di Silvia Federici, a cura di Sara Ricci

 

 

Immagini di donne che stringono a sé i figli tra le Ie macerie di quella che una volta era la loro casa, o che cercano con difficoltà di ricrearsi una vita sotto i tendoni dei campi per i rifugiati, o che vengono sfruttate in fabbrica, nei bordelli o come collaboratrici domestiche in paesi stranieri sono state per anni un elemento fondamentale nei telegiornali. E le statistiche sostengono la storia di vittimizzazione raccontata da queste immagini, al punto che la “femminilizzazione della povertà” è diventata una categoria sociologica da manuale. Eppure, i fattori scatenanti questo drammatico deterioramento delle condizioni di vita delle donne – che coincide ironicamente con la campagna delle Nazioni Unite avente per scopo il miglioramento della posizione delle donne – non sono compresi appieno negli Stati Uniti, nemmeno nei circoli femministi. Le sociologhe femministe odierne concordano che le donne di tutto il mondo stanno sopportando un “costo sproporzionato” per la “integrazione nell’economia globale” del loro paese. Ma il perché questo avvenga non è discusso, o viene attribuito al pregiudizio patriarcale degli organismi internazionali che presiedono la globalizzazione.

 

Perciò alcune organizzazioni femministe hanno proposto una nuova “marcia per le istituzioni” in modo da influenzare lo sviluppo mondiale e far sì che gli organismi finanziari come la Banca Mondiale “siano più sensibili alla questione del genere”. Altre hanno cominciato a fare pressione sui governi affinché questi ultimi applichino le raccomandazioni delle Nazioni Unite, convinte che la strategia migliore sia quella della “partecipazione”. Eppure, la globalizzazione è particolarmente disastrosa per le donne non perché sia gestita da organismi dominati da uomini ignari dei bisogni delle donne, ma a causa degli obiettivi che intende raggiungere.

 

Il fine della globalizzazione è dare al capitale d'impresa il completo controllo sul lavoro e sulle risorse naturali. Di conseguenza deve espropriare i lavoratori da ogni strumento di sussistenza che potrebbe permettere loro di resistere a uno sfruttamento più intenso; ne consegue che non può riuscire nel suo intento se non attraverso l’attacco sistematico alle condizioni materiali di riproduzione sociale e ai soggetti principali di quel lavoro, che nella quasi totalità dei paesi sono donne. Le donne vengono vittimizzate anche perché colpevoli dei due crimini più importanti che la globalizzazione dovrebbe ostacolare. Sono loro che, con le loro lotte, hanno contribuito maggiormente a “valorizzare” il lavoro dei figli e delle comunità, mettendo in dubbio le gerarchie sessuali in cui il capitalismo prospera e portando lo stato nazione ad ampliare gli investimenti nella riproduzione della forza-lavoro. Sono sempre loro le principali sostenitrici di un uso non-capitalista delle risorse naturali (terra, acqua, foreste) e dell’agricoltura orientata alla sussistenza, e perciò sono da ostacolo sia alla mercificazione completa della “natura” che alla distruzione degli ultimi terreni di proprietà collettiva.

 

È per questo motivo che la globalizzazione, in tutte le sue forme, siano esse adeguamenti strutturali, liberalizzazione degli scambi commerciali o guerra a bassa intensità, è fondamentalmente una guerra contro le donne, una guerra particolarmente devastante per le donne nel “Terzo Mondo” ma che minaccia e indebolisce la vita e l’autonomia delle donne lavoratrici ovunque, anche nei paesi capitalisti “avanzati”. Ne consegue che la condizione economica e sociale delle donne non potrà essere migliorata senza una lotta contro la globalizzazione capitalista e la delegittimazione degli organismi e dei programmi a sostegno dell’espansione mondiale del Capitale, a partire dal FMI e la Banca Mondiale, oltre al WTO. Per contro, ogni tentativo di “emancipare” le donne “genderizzando” questi organismi è condannato a fallire, ed è inoltre destinato ad avere un effetto mistificatore, permettendo a questi organismi di appropriarsi delle lotte che le donne stanno portando avanti contro i programmi neoliberali e per la costruzione di un’alternativa non-capitalista.

 

Globalizzazione: un attacco alla riproduzione

 

Per comprendere come mai la globalizzazione sia una guerra contro le donne, dobbiamo leggere questo processo “in modo politico”, in quanto strategia con lo scopo di vanificare il “rifiuto di lavorare” dei lavoratori tramite l’espansione mondiale del mercato del lavoro. Si tratta di una risposta al ciclo di lotte che, a partire dal movimento anticolonialista per arrivare al Black Power, ai Colletti Blu e ai movimenti femministi degli anni Sessanta e Settanta, metteva in dubbio la divisione internazionale e sessuale del lavoro, dando il via a una storica crisi di profio oltre che a una vera rivoluzione culturale. Le lotte delle donne – contro la dipendenza dagli uomini, per il riconoscimento del lavoro domestico in quanto lavoro, contro le gerarchie razziali e sessuali – sono un aspetto fondamentale di questa crisi. Non è dunque un caso se tutti i programmi associati alla globalizzazione hanno avuto le donne come principale bersaglio. I programmi di adeguamento strutturale, per esempio, nonostante vengano presentati come strumenti di ripresa economica, hanno distrutto la vita delle donne, rendendo loro impossibile riprodurre la famiglia e loro stesse.

 

Uno degli obiettivi primari di questi programmi è la “modernizzazione” dell’agricoltura, vale a dire la sua riorganizzazione su base commerciale e in funzione delle esportazioni. Questo significa che più terra è trasformata in campi di raccolti redditizi, più donne, le principali agricoltrici di sussistenza, vengono sostanzialmente sfollate. Questo avviene anche a causa del taglio della spesa per il settore pubblico, che ha distrutto i servizi assistenziali e il pubblico impiego. Anche qui sono le donne ad aver pagato il prezzo più alto, non solo perché sono state le prime a essere licenziate, ma anche perché il mancato accesso alla sanità pubblica e ai servizi per l’infanzia costituisce per loro la differenza tra la vita e la morte.

 

Anche la creazione di “catene di montaggio mondiali”, che disseminano fabbriche in tutto il mondo, nutrendosi del lavoro di giovani donne fa parte della guerra contro di esse e la riproduzione. Lavorare per il mercato globale può sicuramente rappresentare un’opportunità per avere più autonomia, per alcune donne. Ma se anche fosse vero, si tratterebbe di un’autonomia per cui le donne pagano con la salute e la possibilità di avere una famiglia, viste le lunghe ore di lavoro e le condizioni pericolose delle zone di libero scambio. È un’illusione pensare che lavorare in queste zone industriali sia una buona soluzione temporanea per le giovani donne prima del matrimonio.

 

La maggior parte di loro finisce per passare la vita rinchiusa in fabbriche-prigioni, e persino quelle che si licenziano si ritrovano con il corpo mutilato. Si prenda il caso delle giovani lavoratrici nelle fabbriche di fiori in Colombia o Kenya, che dopo pochi anni o addirittura mesi diventano cieche o sviluppano malattie mortali dovute alla continua esposizione a fumigazioni e pesticidi.

 

Prova della guerra che gli organismi internazionali hanno scatenato contro le donne, specialmente nel Sud del mondo, è il fatto che molte di esse sono state costrette a lasciare il proprio paese ed emigrare al Nord, dove l’unico impiego che spesso riescono a trovare è il lavoro domestico. Sono le donne del Sud del mondo, infatti, che oggi si prendono cura dei bambini e degli anziani in molte nazioni d’Europa e degli Stati Uniti, fenomeno che alcuni hanno descritto come sviluppo di una “maternità universale” e “cura universale”. Per consolidarsi, la nuova economia mondiale conta molto sul disinteresse dello stato per il processo di riproduzione sociale. Tagliare il costo del lavoro è cruciale per trarre profitto, laddove il debito e gli adeguamenti non bastano, ci pensa la guerra a risolvere la situazione.

 

In altri miei scritti ho evidenziato come molte guerre scatenate negli ultimi anni sul continente africano scaturiscano dalle politiche di adeguamento strutturale, che esacerbano i conflitti locali e precludono la strada all’accumulazione alle élite locali, lasciando solo la possibilità di depredare e saccheggiare. Voglio qui ribadire che molte delle guerre contemporanee intendono distruggere l’agricoltura di sussistenza e che dunque attaccano principalmente le donne. Il discorso è valido sia per la “guerra alle droghe” che serve a distruggere i campi dei piccoli agricoltori, sia per la guerra a bassa intensità e agli “interventi umanitari”. Altri fenomeni che seguono il processo di globalizzazione hanno conseguenze devastanti per le donne e la riproduzione: contaminazione dell’ambiente, privatizzazione dell’acqua – l’ultima missione della Banca Mondiale che predice allegramente come le guerre del XXI secolo saranno guerre per l’acqua – il disboscamento e l’esportazione di intere foreste. Vi è dietro una logica che rimanda ai regimi di lavoro tipici delle piantagioni colonialiste, dove i lavoratori erano distrutti per produrre per il mercato mondiale e a malapena si riproducevano.

 

Tutte le statistiche demografiche che misurano la qualità della vita nelle nazioni “adeguate” sono chiare su questo punto. Generalmente indicano: tassi di mortalità più elevati e aspettativa di vita ridotta (a cinque anni dalla nascita per i bambini africani); distruzione di famiglie e comunità, che porta i bambini a vivere per strada o a lavorare in condizioni di schiavitù; un maggior numero di rifugiati, soprattutto donne, sfollati a causa della guerra o delle politiche economiche; crescita di mega baraccopoli alimentate dall’allontanamento degli agricoltori dalla loro terra; un tasso superiore di violenza contro le donne per mano di parenti maschi, autorità governative ed eserciti in lotta tra loro.

 

Anche nel “Nord” la globalizzazione ha devastato l’economia politica che sostiene la vita delle donne. Negli Stati Uniti, presumibilmente l’esempio più di successo del neoliberismo, il sistema assistenziale è stato smantellato – specialmente l’AFDC (Aid to Families with Dependent Children), che impatta le donne con figli a carico. Per questo motivo le famiglie con donne a capo sono state del tutto pauperizzate, e le donne della classe lavoratrice devono svolgere più di un lavoro per sopravvivere. Nel frattempo, il numero di donne rinchiuse in carcere è continuato a salire, la politica di incarcerazione di massa, in linea con il ritorno di economie simili alle piantagioni nel cuore dell'industrialismo, è prevalsa.

 

Quali sono le implicazioni di questa situazione per i movimenti femministi internazionali? La risposta si trova nell’edizione integrale del libro di Silvia Federici La rivoluzione al punto zero, pubblicato quest’anno da D Editore per la collana “Nextopie”, diretta da Emmanuele Pilia.

 

07 agosto 2025

 









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