Il problema dell’immortalità (Athanasia), sotteso al presente articolo, è così pressante e così radicato che dobbiamo osare farcene un opinione. Heidegger e Bloch, sebbene con accenti diversi, convergono come un solo spirito nell’intendere la morte come un possibile viaggio all’insegna dell’indistruttibilità dell’io e della sua non replicabile haecceitas.
di Giuseppe Montana
Cosa significa pensare la morte, «signora assoluta»? A questa domanda esistenziale, Heidegger ha dedicato pagine intense di Sein und Zeit (1927). Tornare a leggerle non significa soltanto abbeverarsi a una fonte preziosa di saggezza, ma implica anche interrogarsi sulle ragioni della persistente rilevanza dei suoi contenuti. La riflessione personale del filosofo di Heidelberg inizia con una sorta di epoché fenomenologica, che pone sullo stesso piano dubitativo sia la concezione della morte come annientamento, sbriciolamento e disgregazione della persona, sia quella opposta che ravvisa in essa un passaggio, una trasformazione, nella permanenza di un nucleo di identità personale:
« finire significa cessare e ciò, di nuovo, in un senso ontologicamente variabile. […] Finire può determinare un che di non-terminato (una strada in costruzione si interrompe) o caratterizzare come terminato qualcosa (con l'ultima pennellata il quadro è terminato). »
Tuttavia, la parità delle due interpretazioni comincia subito ad essere squilibrata a favore di quella dell'indistruttibilità dell'Io, sicché anzitutto «l'esserci non perisce mai», e anche qualora la morte venisse determinata empiricamente «come la fine dell'esserci, cioè dell'essere al mondo, ciò non comporta nessuna decisione ontica se, dopo la morte, sia ancora possibile un altro essere, più alto o più basso, se l'esserci continui a vivere o magari durando oltre se stesso, sia immortale».
Una volta messa tra parentesi lʼovvietà del dato empirico visibile, vacilla anche lʼovvietà della morte come mero annientamento. A fronte del dileguare dalla scena del mondo dellʼio che ci ha lasciati, risuona con tutta la sua potenza anapodittica il germe indistruttibile dellʼego cogitante nel suo eliminabile autoesperirsi:
« lʼente che ancora rimane non rappresenta una mera cosa fisica […]. Il non più è più che una cosa materiale senza vita. In esso si incontra un non vivente. […] Indugiando presso di lui nel memore lutto, quelli che restano sono con lui […]. Quelli che restano possono ancora essere con lui. »
È vero che lʼanalisi della morte testé accennata «resta puramente al di qua, in quanto essa interpreta il fenomeno unicamente in vista di come esso potrebbe essere», rimanendo in effetti una vexata quaestio incostruibile. Tale ambiguità è però preziosa e precipua: essa infatti ci permette di porci liberamente a favore o contro il senso dell’esistenza, sulla scorta delle nostre più intime e personali notizie intuitive.
Lʼesserci esiste «via via già sempre, proprio in modo che il suo non ancora gli appartiene», scrive Heidegger. La morte dunque abita il nostro concetto; ci riguarda e inavvertitamente ci accompagna lungo i sentieri della vialità. Essa è unʼesperienza autentica se abbiamo la forza di attraversarla senza ignorarla o esorcizzarla. Non bisogna sottrarre lo sguardo da questa immane espressione del negativo – anche qualora i dubbi tramutatisi in angoscia ci vulnerano malignamente nei nostri punti più deboli – bensì lasciarsi attraversare da quella sconfortante inquietudine e seguire fiduciosamente (fiducia precaria, senza garanzie) l'istinto che chiama dall'interno del nostro io e che ci proietta al nostro più proprio poter essere, evitando così di scadere nella vuota indeterminatezza del si muore.
I casi di morte possono essere certo lʼoccasione di una prima superficiale ed elusiva presa di coscienza della morte. Il si muore che sentiamo alla televisione o leggiamo nei giornali diffonde lʼopinione che la morte colpisca. Il morire viene così appiattito e ridotto ad una mera occorrenza, in evento pubblico che per essenza non è ancora perspicuamente il mio progetto esistenziale di un essere-alla-morte autentico, ma fuga di fronte alla morte nel consolatorio non tocca a me.
Con la morte lʼesserci «incombe a se stesso, nel suo più proprio poter essere». Si tratta allora di caratterizzare lʼessere-alla-morte come un essere-a-una possibilità: possibilità più propria, che lʼesserci non si crea o procura, ma che di fatto già solo esistendo vi si trova gettato e dejetto.
Ora, dal momento che «la certezza della morte è accompagnata dallʼindeterminatezza del suo quando», la schiusura di tale possibilità privilegiata o autentica si fonda sul poderoso atto del precorrimento. Il precorrente non elude, come fa lʼessere-alla-morte inautentico, bensì si rende libero per la morte, divincolandosi dalla dispersione nelle possibilità casuali impellenti, in modo da comprendere e scegliere davvero soltanto quelle che sente intensivamente più sue, facendo sì che la sua vita non sia nulla di diverso da quella che voleva – nonostante l’inevitabile restringimento del ventaglio di possibilità contratte in esso ab initio.
Precorrere la propria morte, allora, significa anticiparla col pensiero, dando forma e misura alla nostra vita e ai progetti posti al di qua di essa; con questo virtuoso atto di possibilizzazione, lʼesserci «spezza lʼirrigidimento sullʼesistenza via via raggiunta preservandosi dal ricadere dietro se stesso e quindi dal diventare troppo vecchio per le proprie vittorie». La morte, insomma, non è un muro invalicabile, un nulla abissale o una presenza nientificante, ma è misura e gradiente che illumina le nostre possibilità autentiche: una chiamata destinale il cui profondissimo secretum si traduce nel destare o destanare quei predicati che ineriscono propriamente alla nostra soggettività, escludendo parimenti quelli che sentiamo estranei o lontani.
A corroborare questo nostro discorso vi è un altro gigante del ‘900, Ernst Bloch. Nel suo Das Prinzip Hoffnung annota che la morte, così come il male, non sono che increspature superficiali dell'essere nel suo volume totale. Un limite ontologico, seppur doloroso e malizioso, che l'utopia può vincere e sconfiggere. La morte, quale evento singolare, non può essere intesa come la fine di tutto. Essa è certamente un duro contraccolpo, un “nero ondeggiare della vela insicura in un mare oscuro e ignoto”, nonché la più forte anti-utopia ingigantita dalla paura morbosa di un ante-finale.
La paura, però, annulla gli uomini, impedendogli di vedere che un certo plus misterioso, un’eccedenza della vita, sopravanza silenziosamente la morte stessa. Nessuna persona è davvero destinata a scomparire: il corpo che se ne va e la sua morte non sono perciò che una vuota commedia attestante la precarietà non dell’Io ma del mondo, il quale non è né l’unico né l’ultimo orizzonte. Solo alla fine dei tempi, in seguito all’inabissarsi della scena mondana, sarà possibile sapere chi siamo veramente, giungendo alla x segreta, al nostro vero sé perduto e mai trovato, a lungo pensato e finalmente cercato.
Questa è per l'autore una certezza a priori radicata nel cuore dell'anima e confortata da indizi a posteriori, uno fra tutti: il timbro singolare impresso da ciascun io ai suoi atti o pensieri, nonché l'originalità e l’insostituibilità di ogni creatura.
Interrogare la morte è tuttavia un'esperienza personalissima; il risultato di questa esperienza non potrà avere alcun valore oggettivo e universale, ma vale solo per il singolo io interrogante, che con umiltà cerca, spera e trova nel fondo dell'anima un suo strato o nocciolo intensivo (il suo non ancora) che possa eventualmente permanere anche dopo il salto della morte:
« Ciò che in tutta la sua più profonda profondità non è ancora stato portato alla luce dal nostro essere, questo profilo intensivus sive absconditus, proprio perché esprime il non essere ancora divenuto sta ancora al di fuori del territorio che la morte può annientare. »
La morte può contaminare solo ciò che è effettuale non ciò che è possibile. La possibilità sta più in alto della realtà e, modulandosi come il non ancora espresso o come futuro anteriore sui generis di ciascun Io, lo proietta, trasfigurandolo, verso quel luogo che ancora non c’è, verso quella sconosciuta dimora in cui non siamo mai stati ma a cui già da sempre utopicamente apparteniamo. Ecco dunque che se coltiviamo la speranza nell'originarietà del senso, l'ultimità della morte, quale fine irrevocabile, verrà convertita in un passaggio trasformatore.
La speranza – o incompiutezza tendente al compimento – infatti è così gagliarda da scalfire il male (che appare come barriera, sonno, debolezza, fiacchezza e deformazione dell'aldilà: una deformazione che può essere vinta attingendo alle energie liberatrici custodite nelle profondità dell'Io), da spingerci a cercare i segni e le voci silenziose di un senso ultraterreno che scende dall'alto sulla scena del mondo e quindi a recare nelle nostre coscienze l'incrollabile fiducia in un “possibile nuovo inizio”. Solo aggrappandoci al capestro della speranza, gli orrori, i fenomeni insensati e aberranti, le spietate onde del male che flagellano con furia il cammino dell'umanità, non ci impediranno di guardare verso il cielo azzurro dei sogni e di resistere a oltranza per il tutto contro il nulla, sempre e comunque.
La speranza costruisce il reale e, forte come un magnete, trascina le anime a immaginare creativamente ed energicamente scenari utopici inesplorati. La speranza non cede, non rinuncia. Non aderisce saldamente al dato, non vi crede del tutto. Essa, fiduciosa, scava sotto la superficie sensibile degli avvenimenti a caccia di un luminoso e radioso non ancora, di un "felice domani". La direzione “tendenziforme” della speranza ci spinge ordunque a vedere “possibilità costantemente aperte” e a liberare inesauribili forze creative che spingono al loro aurorale, ancorché inatteso, dischiudimento.
Coniugata così alla speranza, la morte sembra più custodire che distruggere; con essa la vita più che ritrarsi e dileguare sembra raccogliersi e riconcentrarsi per rilanciarsi oltre nello spazio-patria-venturo del mondo divenuto tutto amico: solo lì, avremmo raggiunto la quiete e parimenti la nostra più prossima medesimezza e il nostro vero nome eidetico; solo lì si potrà avverare il sogno della bontà fraterna, della filadelfica unione di tutti; solo in quella sede divina, tramutatasi da sede privata dell'Onnipotente a città di accoglienza e di ospitalità del Dio-con-Noi, potrà avvenire il miracolo di una vita che ci attende oltre la vita che finisce.
13 gennaio 2025
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