L'essere e la svastica. Il nazismo “filosofico” di Heidegger

 

Il libro Heidegger, a destra della verità di Giuseppe Dambrosio esplora il complesso rapporto tra la filosofia di Martin Heidegger ed il nazionalsocialismo, analizzandone le implicazioni politiche, ideologiche e culturali. Heidegger, figura cardine della filosofia del XX secolo, è stato e continua a essere oggetto di un acceso dibattito a causa della sua adesione al partito nazista nel 1933 e delle sue relazioni intellettuali e personali con l’ideologia nazionalsocialista, rimanendo profondamente controverso per il suo ruolo pubblico durante il regime di Hitler. La questione si amplia ulteriormente, nel considerare come la sua filosofia sia stata recepita e reinterpretata da movimenti estremisti, contribuendo a perpetuare il legame tra il pensiero heideggeriano e le ideologie autoritarie.

 

di Andrea Forria

 

 

Nel 1933, Heidegger assunse il ruolo di rettore dell'Università di Friburgo, aderendo, appunto, al partito nazista. Durante il suo breve mandato, implementò riforme discriminatorie che escludevano ebrei e dissidenti, dimostrando un'integrazione attiva nelle politiche del regime. Sebbene si dimise l'anno successivo, apparentemente per divergenze con il partito, non rinunciò mai alla tessera del NSDAP e mantenne legami con intellettuali vicini al regime. Non si oppose, ad esempio, all’espulsione di Edmund Husserl, suo mentore ebreo, dalla stessa università, a causa delle leggi razziali.

 

Questa adesione non è stata mai completamente chiarita o condannata nei suoi scritti, che non hanno dissipato del tutto i dubbi sulla sua complicità ideologica, sollevando interrogativi etici sul ruolo dell’intellettuale in contesti autoritari. Dambrosio introduce questa riflessione con una citazione provocatoria di Thomas Mann:

 

« Sarà superstizione, ma ai miei occhi dei libri che hanno comunque avuto la possibilità di uscire in Germania fra il 1933 e il 1945 sono del tutto privi di valore, e non si dovrebbe neppure prenderli in mano. Sono impregnati tutti di un certo odor di sangue e di vergogna; meglio varrebbe mandarli tutti al macero.  » (Perché non ritorno in Germania, in Scritti Storici e Politici)

 

La domanda posta da Mann  se fosse lecito o addirittura possibile “fare cultura” in una Germania che perpetrava crimini indicibili  trova eco nel percorso intellettuale e politico del filosofo di Messkirch. Heidegger vide nel nazionalsocialismo una possibilità di rinnovamento del popolo tedesco, interpretandolo come un’opportunità per superare il vuoto lasciato dalla metafisica occidentale e dalla modernità. Nel celebre Discorso di Rettorato (27 maggio 1933), Heidegger cercò di coniugare la sua filosofia con principi ideologici nazisti, elaborando una visione del nazionalsocialismo che sposava il concetto völkisch di omogeneità etnica e culturale con una rinnovata interpretazione dell’Essere. Questa rielaborazione è paragonabile al contributo di Eugen Fischer, rettore dell'Università di Berlino nello stesso periodo, che nel discorso inaugurale La genesi dello stato völkisch alla luce della biologia (29 luglio 1933) aveva legittimato la pseudo-scienza razziale. Heidegger reinterpretò il nazismo non solo come un sistema politico, ma come una modalità di darsi della storia dell’Essere, integrando principi come “Sangue e Suolo” (Blut und Boden) in un’elaborazione ontologica.

 

Questa rilettura ideologica, accompagnata dalla pratica concreta di indottrinamento degli studenti e dal sostegno al Führerprinzip, dimostra un coinvolgimento che supera l'ambito puramente accademico. Emblematiche in tal senso sono le sue parole:

 

 « Il Führer stesso, e lui solo, è la realtà tedesca di oggi, ma è anche la realtà del domani e la sua legge [...]. Heil Hitler! Martin Heidegger, Rettore. »

 

Il nichilismo è un concetto centrale per comprendere le radici e le implicazioni del pensiero heideggeriano. Tuttavia, esso si sviluppa in maniera profondamente diversa rispetto alla prospettiva di Friedrich Nietzsche. Per Nietzsche, il nichilismo è la conseguenza della “morte di Dio”, che provoca una crisi dei valori tradizionali. Questa crisi, però, rappresenta anche un’opportunità per la creazione di nuovi valori, incarnati nel concetto di “oltreuomo”. Nietzsche concepisce il nichilismo come una fase transitoria, un “ospite inquietante” che deve essere superato per rinnovare l'umanità.

 

Heidegger, invece, vede il nichilismo come il culmine della metafisica occidentale, che ha ridotto l’Essere a mero oggetto di calcolo e dominio, soprattutto nell’era della tecnica moderna. In questa prospettiva, il nichilismo rappresenta una perdita del senso autentico dell’Essere, causata dalla dimenticanza della sua verità originaria (alétheia).

 

Heidegger introduce un nichilismo negativo, in cui l’uomo, privato della sua autonomia, del libero arbitrio, ridotto a un “impiccato all’Essere”, diviene subordinato al destino storico dell’Essere, che egli interpreta come un processo collettivo. Per Heidegger, il dominio della tecnica è l’apice del nichilismo: l’essente viene ridotto a riserva di energia e l’uomo stesso è concepito come “materiale d’impiego”. Questa riduzione reifica il mondo, trasformandolo in un mero insieme di mezzi. Il confronto con il nazismo si inserisce qui: Heidegger interpreta il nazismo come un tentativo di rispondere al nichilismo della modernità, ma critica la sua incapacità di agire in modo autenticamente filosofico. Tuttavia, il filosofo equipara il processo di industrializzazione della modernità  come l’agricoltura intensiva  agli orrori dei campi di sterminio, evidenziando un inquietante distacco morale:

 

 « L’agricoltura è adesso un’industria alimentare motorizzata, nella sua essenza la stessa cosa della fabbricazione di cadaveri nelle camere a gas [...]. »

 

Questa affermazione, spesso citata, mostra la difficoltà di Heidegger nel tematizzare una condanna etica del nazismo. La filosofia di Heidegger ha suscitato aspre critiche da parte di intellettuali contemporanei e successivi, che hanno evidenziato sia le implicazioni politiche del suo pensiero sia le sue contraddizioni intrinseche. Le critiche di Luciano Parinetto e Herbert Marcuse hanno offerto analisi radicali e penetranti del pensiero heideggeriano, mettendo in luce le sue derive autoritarie e disumanizzanti.

 

Parinetto, filosofo marxista ed eretico, descrive Heidegger come “un pensatore teologico e reazionario”, il cui pensiero è permeato da un nichilismo negativo e da una concezione profondamente disumanizzante. Secondo Parinetto, Heidegger riduce l’essere umano a una semplice funzione subordinata al destino dell’Essere, privandolo di autonomia, responsabilità e senso critico. Il filosofo denuncia inoltre la mancanza di un ancoraggio etico nel pensiero di Heidegger, che sfocia in un silenzio complice di fronte ai crimini nazisti e alle loro radici ideologiche.

 

Per Parinetto, la filosofia di Heidegger esprime un'idea di morte e nulla deificato, in cui si intrecciano autoritarismo, discriminazione e un distacco gelido dalle problematiche dell’esistenza concreta. Egli sottolinea come concetti chiave del pensiero heideggeriano, quali il Da-sein e l’esser-per-la-morte, non conducano a una liberazione dell’individuo, bensì a una sua subordinazione ad astratti destini collettivi. Questo atteggiamento, secondo Parinetto, crea un fertile terreno per la giustificazione delle gerarchie autoritarie e dei regimi totalitari.

 

Herbert Marcuse, critico della scuola di Francoforte ed allievo di Heidegger, ha dedicato un’ampia analisi al pensiero del suo ex maestro, evidenziandone le implicazioni nichiliste e il profondo distacco dalla sfera vitale dell’esistenza. Secondo Marcuse, la filosofia di Heidegger svaluta la gioia, la sensualità e l’appagamento umano, promuovendo un’idea di esistenza centrata esclusivamente sull’angoscia e sulla morte.

 

Marcuse accusa Heidegger di un impoverimento antropologico: il filosofo non solo ignora le dimensioni della corporeità e del piacere, ma le esclude deliberatamente dalla sua analisi, concentrandosi su una visione della vita dominata dalla gravità e dalla trascendenza. Questa prospettiva, secondo Marcuse, non solo allontana l’uomo dalla ricerca di una felicità autentica, ma lo spinge verso un atteggiamento di rassegnazione nei confronti delle strutture oppressive. Le critiche di Parinetto e Marcuse convergono su un punto essenziale: la filosofia di Heidegger manca di un’autentica dimensione etica. Questo vuoto, evidenziato sia nella struttura del suo pensiero che nelle sue scelte biografiche, rende Heidegger incapace di affrontare la questione del male e delle responsabilità individuali di fronte alla storia. La sua concezione della tecnica e del nazismo come “modi di darsi dell’Essere” riflette un distacco che sfiora l’indifferenza nei confronti delle sofferenze umane.

 

Emblematico è il paragone che Heidegger traccia tra i processi di industrializzazione moderna e i campi di sterminio nazisti, che considera entrambi manifestazioni dello stesso destino della tecnica. Questa equiparazione, pur avendo un fondamento filosofico, risulta moralmente discutibile, in quanto non riconosce la specificità e la gravità etica dello sterminio ebraico. Altri pensatori autorevoli hanno espresso dubbi e critiche sulla filosofia di Heidegger. Hannah Arendt, sua ex allieva e amante, pur ammirando la profondità del suo pensiero, ha spesso denunciato il suo distacco dalle questioni politiche ed etiche concrete, sottolineando come il suo approccio metafisico non lo abbia preparato a comprendere la specificità del totalitarismo.

 

Theodor Adorno, nella sua critica alla filosofia esistenzialista, ha accusato Heidegger di favorire una mistificazione ontologica che maschera le dinamiche storiche e sociali del potere. Adorno considera il pensiero heideggeriano un'espressione di quel “sistema autoritario della filosofia” che egli ritiene complice delle strutture oppressive.

 

Karl Jaspers, amico e collega di Heidegger, ha espresso il suo stupore per l’adesione del filosofo al nazismo. Jaspers si interrogò sulla responsabilità morale di Heidegger, chiedendosi come un pensatore così acuto potesse essere cieco di fronte alla barbarie del regime hitleriano. La filosofia di Heidegger, nonostante rappresenti una delle vette intellettuali del XX secolo, continua a interrogare profondamente la coscienza collettiva. La critica al nichilismo moderno e al dominio della tecnica, pur affascinante e rilevante, è minata dalle ambiguità etiche e politiche della sua biografia. La riflessione su Heidegger invita a riconsiderare il ruolo dell’intellettuale nella storia ed evidenzia la necessità di un pensiero etico capace di resistere alle derive autoritarie. 

 

In questo senso, Heidegger, a destra della verità è un contributo essenziale per esplorare la complessità del pensiero filosofico e il suo rapporto con le dinamiche del potere. La capacità dell'autore di intrecciare un'analisi rigorosa con un approccio accessibile rende il libro una guida preziosa per chiunque voglia riflettere sulle ambiguità del pensiero filosofico e sul ruolo degli intellettuali nella storia. Con lucidità e passione critica, Dambrosio non si limita a una condanna sommaria: attraverso il suo saggio, invita a esplorare i pericoli di una filosofia che abdica alla dimensione etica ed offre una rilettura critica e profonda, caratterizzata da un'ampia documentazione e da un'attenta riflessione storica e filosofica.

 

Il suo lavoro si distingue per il coraggio di affrontare uno dei capitoli più controversi della storia del pensiero, offrendo strumenti preziosi per interpretare non solo il passato, ma anche le derive intellettuali del presente. In un’epoca segnata da nuove tentazioni autoritarie e disumanizzanti, il suo lavoro ci ricorda l’importanza di una filosofia radicata nella responsabilità, lasciandoci un messaggio profondo sull’urgenza di una filosofia capace di custodire l’umano.

 

27 gennaio 2025

 









Canale Telegram: t.me/gazzettafilosofica