Kierkegaard ha avuto il coraggio di pensare la malattia per la morte: la disperazione. Elliott Smith l’ha cantata e suonata visceralmente. Enten/Eller, dice Kierkegaard. Either/Or, ribadisce Elliott Smith. L’esistenza è questo: scegliere fra due alternative inconciliabili, fra l’essere e il nulla, avere il coraggio di sostare sull’abisso e di compiere il salto. Ogni vita è un rischio incalcolabile.
Kierkegaard, insieme a Feuerbach, rappresenta la radicale controparte dell’hegelismo. Se Hegel, nel solco della tradizione mistica cui si riferisce, esalta il valore assoluto del distacco, della Ragione capace di affrancarsi dai legami delle passioni, Kierkegaard, contro il filosofo di Stoccarda, riafferma l’intreccio indissolubile di passione e pensiero. Ogni pensiero autentico si trova avviluppato in una passione vitale, la passione dell’esistenza. Non è il pensiero ad abbracciare l’esistenza, ma è l’esistenza a costituire il fondamento da cui si dispiega il lavoro della ragione. Se per Hegel il fine ultimo della Ragione, di quella Ragione che costituisce la trama stessa della realtà, è sbrogliare la matassa della contraddizione, per il Danese, invece, si tratta non solo di riconoscere il carattere irrimediabile della contraddizione, ma di abitarla: il paradosso, la compresenza di verità opposte, è la passione del pensare. Kierkegaard fa un passo indietro e ritorna a Pascal: il compito della ragione, il compito assegnatogli da Hegel, non è quello di comprendere tutto e di tradurre tutto in concetto, ma comprendere che non si può comprendere tutto; che il vero comprendere, sulla scorta di Socrate e di Cusano, è il non-comprendere. La ragione non solo deve riconoscere i suoi limiti, ma deve occuparsi del centro di gravitazione del limite, ossia della persona.
La filosofia hegeliana, infatti, parla dell’Uomo, di un’idea; quella kierkegaardiana parla dell’uomo concreto, dell’uomo così com’è. La filosofia di Hegel si propone di risolvere il fuoco incandescente della religione nella filosofia; per Kierkegaard, il contenuto religioso non può essere dedotto dalla ragione: fra la vita puramente filosofica e la vita religiosa v’è uno iato incolmabile. Se si guarda bene, dunque, si comprende che i due filosofi si scontrano sul terreno del cristianesimo. Si tratta, in fondo, non solo di due concezioni filosofiche divergenti, ma di due atteggiamenti differenti al cospetto della verità del cristianesimo. Per Hegel, il messaggio evangelico predica l’identità peregrinale fra lo spirito e l’Assoluto, il finito e l’infinito (il Figlio e il Padre sono uno); per Kierkegaard, la verità del cristianesimo non concerne l’identità fra finito e infinito, ma il rapporto fra il singolo e Dio. Hegel, in accordo con Eckhart, propone il trascendimento dell’individuale. Ogni residuo personalistico deve essere bruciato dal fuoco dello Spirito. Per il danese Kierkegaard, si tratta di afferrare «l’abisso immenso della differenza qualitativa tra Dio e l’uomo». L’errore del filosofo sistematico, di cui Hegel è icastica espressione, è di comprendere questa o quella scienza, dimenticando, però, la conoscenza più importante di tutte, la conoscenza di sé stessi. Il filosofo hegeliano erige il suo edificio concettuale, si perde nella presunta universalità delle sue astrazioni, ma la sua vita concreta risiede altrove. Il filosofo di professione, chiosa ironicamente Kierkegaard, somiglia a chi costruisce un enorme castello, ma va ad alloggiare in un fienile.
La filosofia assoluta di Hegel non ha saputo riconoscere la realtà del singolo. Ha confuso la singolarità con l’individualità. L’individuo è indiviso, un soggetto atomizzato, chiuso nella propria claustrofobica immanenza. L’esistenza, invece, stando all’etimo, è sporgere fuori dal perimetro della propria indivisa ioità, rompere gli argini della stolida coincidenza di sé con sé. E-sistere è questo perpetuo transitare che non si risolve mai nella fissità del concetto. Propria dell’individuo è l’insistenza, lo stare solo presso e dentro di sé. L’esistenza, lo scrive Kierkegaard nell’incipit folgorante de La malattia mortale, l’opera del 1848, non è sostanza fissa, ma rapporto. Una coincidenza paradossale di auto-relazione ed etero-relazione: relazione con sé e, a un tempo, relazione alla Trascendenza che pone la relazione nella sua interezza. L’esistenza è quel movimento che tenta di ricomporre lo scarto fra sé e sé. In questa ricomposizione, sempre in fieri, sempre da conquistare, l’io scopre lo scarto preminente, l’abisso che insieme lo unisce e lo separa dalla Trascendenza di Dio. Questo intreccio di rapporti teandrici, però, rappresenta sì la struttura dell’esistenza, l’universale condizione dell’uomo, ma ogni uomo la incarna a modo proprio, imprimendogli il sigillo della sua irriducibile singolarità. Non è l’uomo in generale ad essere in rapporto con Dio, ma è sempre quest’uomo qui, concreto, irripetibile, a tessere i fili della sua personale relazione con sé e con l’infinito di Dio. L’esistenzialismo di Kierkegaard si posiziona così agli antipodi del sistema hegeliano. Il finito non è ricompreso nel mare dell’Assoluto, ma si trova di fronte ad esso, al suo cospetto. La dignità dell’uomo consiste nel riconoscere di ritrovarsi nel punto d’intersezione che separa e unisce l’umana finitezza alla Trascendenza di Dio. L’hegelismo, invece, incorre nell’errore e nella contraddizione di dichiarare, da un lato, la storicità di qualsivoglia posizione filosofica (la filosofia, afferma, è il proprio tempo appreso col pensiero), dall’altro, per poter affermare la storicità di ogni posizione filosofica a sé coeva o antecedente, deve porsi nella posizione di poterle guardare tutte dall’alto, con distacco, sfuggendo così alla costitutiva relatività di ogni interpretazione filosofica del mondo.
Il sistema hegeliano, inoltre, s’impone non come un punto di vista, seppur privilegiato, su Dio, ma come il punto di vista di Dio. La fenomenologia dello spirito, lo abbiamo visto, è la storia del progressivo distacco dell’anima dalla sua particolarità per ricongiungersi all’Assoluto: è l’abbandono totale della propria prospettiva personale e l’assunzione di quella impersonale dello Spirito. Per Kierkegaard, invece, v’è un legame indissolubile tra persona e verità: l’una non sussiste senza l’altra. Si comprende, dunque, come l’autentica singolarità non possa essere confusa né con la particolarità né con l’individualità. Il singolo non è la parte di una totalità, il frammento finito e inadeguato dell’Assoluto; non è un essere indiviso, chiuso nel proprio solipsismo spirituale. Il singolo è ciò che non può essere mai costretto nell’angustia concettuale del sistema, ciò che straripa da ogni parola che pretenda di svelarne il mistero. Egli non è un momento del processo dialettico che investe il reale, e solo in virtù dell’appartenenza al movimento dello Spirito acquista realtà è dignità. Egli, in virtù di sé stesso, ispira il rispetto assoluto che, solitamente, nelle filosofie sistematiche, viene tributato solo all’universale, alla totalità. Tale rispetto discende dai segni che con minor inadeguatezza additano il fondo inattingibile della singolarità. Tali segni sono l’unicità, l’irripetibilità, l’incomparabilità, l’inconfondibilità, l’insostituibilità. Ogni uomo occupa nel firmamento dello spirito un posto che non può essere occupato da nessun altro. A rigore, si potrebbe dire che non c’è l’esistenza, ma solo l’esistente che incarna, nella sua irripetibile singolarità, l’universalità della condizione esistenziale. La verità, l’universale, è sempre mediata da una soggettività incarnata nell’irripetibilità della propria situazione storica. Il singolo, allora, non è chiamato ad assumere il punto di vista di Dio, ossia della verità, ma a farsi interprete della sua voce, sapendo che, da un lato, ogni interpretazione non potrà mai esaurire l’infinitezza di quella voce; e che, dall’altro, però, tale interpretazione non è altra dalla verità, ma sua, seppur parziale, precipua manifestazione. Singolarità e universalità, esistenza e trascendenza, sono i poli inscindibili di quel rapporto in cui, in ultimo, consiste l’umana esperienza.
L’attenzione posta da Kierkegaard sull’irriducibilità radicale dell’esistenza a qualsivoglia tassonomia filosofica si traduce stilisticamente nell’adozione di un registro marcatamente poetico. Il danese, sulla scia dei progenitori dell’esistenzialismo, Agostino e Pascal, annota le sue riflessioni in un diario, poiché non si può parlare dell’esistenza in terza persona, come se fosse un dato oggettivo, ma soltanto in prima persona. Riprendendo Socrate, e calandolo nella temperie dell’età moderna, il filosofo afferma che prima di affannarsi a conoscere i segreti degli universi, bisogna volgere lo sguardo su quel segreto della propria intima singolarità, il quale costituisce il baricentro di tutti i segreti e gli enigmi della natura. L’idealismo ha cercato di riportare l’attenzione dall’oggetto della scienza al soggetto creatore, ma lo ha fatto disincarnandolo, riducendolo a io puro, trascendentale, che organizza l’esperienza del mondo attraverso la sua categorizzazione. Il positivismo, all’opposto, ha cercato di ridurre il soggetto alle sue funzioni neuro-biologiche, decretando ogni tentativo di discorrere sull’interiorità come mera insensatezza. L’esistenzialismo, invece, affermando che il soggetto è Enkelt (singolo), tenta, con la consapevolezza dei limiti e dei vincoli del linguaggio, di oltrepassare qualsiasi tentativo di recintare l’esperienza soggettiva nella presunta esaustività di una definizione. Si potrebbe obiettare, infatti, che anche singolarità è un termine, una parola che, inevitabilmente, delimita e definisce. Ma si può rispondere che esso è il termine che svincola da ogni termine. Come osserva Pietro Prini, il più grande fraintendimento nel quale si può incorrere accostandosi all’opera di Kierkegaard è quello di ritenerla un altro sistema, solo alternativo a quello hegeliano. Dell’esistenza non si dà sistema. L’esistenza non si pensa, ma ogni pensiero si ritrova ad esistere, nel compito di dover corrispondere alla trasformazione interiore del singolo. Universale e singolare s’intrecciano, l’uno tiene la mano dell’altro. Ogni verità assoluta deve assolversi dalla sua assolutezza, se vuole essere davvero verità. Abbisogna non solo di un riconoscimento meramente teoretico, ma, e più profondamente, di un’appropriazione interiore e personale. Non è l’esistenza ad essere funzione della logica; è la logica ad essere funzione dell’esistenza. La verità e sempre verità ''per me''. Ciò non significa fare professione di relativismo. Per il relativismo, l’unicità della verità si dissolve nella molteplicità delle prospettive particolari. Ogni valore, ogni idea, non superano la soglia del tempo. L’eternità si diluisce, fino a scomparire, nella cornice storica. Il prospettivismo kierkegaardiano, invece, si pone su un altro piano. La prospettiva del singolo, pur differenziandosi qualitativamente dalla verità della Trascendenza, è indispensabile al suo rivelarsi. La voce della verità deve risuonare nella finitezza della voce personale. Della verità non si dà attingimento diretto, ma indiretto. La filosofia, in questo senso, non ha a che fare con l’essere, ma con il nostro rapporto con l’essere. L’hegelismo ha preteso di far coincidere essere e pensare.
Il pensiero soggettivo di Kiekegaard ribadisce, invece, che la filosofia non può racchiudere l’essere nella freddezza esangue del concetto. Parimenti, la verità che concerne la nostra interiorità ha molti nomi. Emblematico, in questo senso, non solo da un punto di vista strettamente letterario, il ricorso di Kikergaard agli eteronomi. Diversamente dallo pseudonimo, il quale è un nome fittizio per disegnare altrimenti la medesima identità personale, l’eteronomo designa una singolarità differente, interna all’identità personale dell’autore. Anche la storia personale e musicale di Elliott Smith inizia dall’adozione di un eteronomo, rivelatore della sua indole e di un punto nevralgico della sua biografia. Come per Kierkegaard, il quale con grande vigore ha posto il binomio inscindibile di vita e pensare, di autobiografia e scrittura, anche per Elliott si tratta di pensare la musica come diretta espressione della propria intimità, sapendo, però, che nessuna canzone potrà mai restituire quella singolarità assoluta che si cela dietro le note e le parole. La filosofia di Kierkegaard è segnata da due relazioni cruciali: quella col padre, Michael Pedersen, e quella con l’amata Regina Olsen. Vivrà nella credenza di dover espiare la colpa del padre, reo, non si sa con certezza, di averlo concepito subito dopo la morte della prima moglie. Nell’ambiente luterano in cui crebbe il filosofo ciò non era certamente visto di buon occhio. Altri, però, sostengono che, forse, il peccato di cui si macchiò il padre del danese, e che graverà sulla coscienza del filosofo per tutta la durata della sua esistenza, fu la blasfemia. Ad ogni modo, Kierkegaard era convinto dovesse farsi carico dei peccati del padre. Questa profonda convinzione di essere in debito con Dio inciderà anche nel rapporto con Regina. Egli rifiuterà di sposarla, non perché non l’amasse, ma perché la vita religiosa, per il filosofo, non poteva ammettere alcuna conciliazione col mondo.
Anche la vita di Elliott sembra marchiata a fuoco da alcune ferite che non possono rimarginarsi. L’infanzia dell’artista fu caratterizzata dall’assenza del padre, il quale divorziò dalla moglie l’anno successivo alla nascita di Steven Paul, questo il suo vero nome. Crebbe in Texas, dai genitori della madre, che lo iniziarono alla musica. Stimolato dal pop-rock dei Simon & Garfunkel e dei The Beatles, nonché dalla musica blues e jazz, all’età di nove anni iniziò a suonare il piano mostrando, fin da subito, una grande predisposizione. Allo studio del piano affiancò quello del clarinetto, ma fu l’avvicinamento alla chitarra che impresse una svolta alla sua formazione musicale. In questo periodo, s’innesta uno degli episodi che contribuiscono a plasmarne il carattere. Elliott decide di trasferirsi a Portland, dal padre Gary, perché il rapporto con la madre e, soprattutto, col suo patrigno, sono alquanto burrascosi. Il nuovo marito della madre giunge addirittura a picchiarlo. Elliott ritrova l’amore perduto dal padre, uno psichiatra, che, oltre ad incoraggiare il suo talento musicale, gli infonde la passione per la psicologia. L’inquietudine del ragazzo, però, non si placa. Decide infatti di farsi tatuare la sagoma del Texas sul braccio sinistro. E lo fa, paradossalmente, per marcare la sua totale estraneità da quel luogo, «per non scordare ciò da cui sto fuggendo». Inoltre, per prendere maggiormente le distanze dalle ferite dell’infanzia e dell’adolescenza, decide di cambiare il proprio nome, Steven Paul, in Elliott. Come dicevamo, il suo nuovo nome rientra nel novero degli eteronomi di kierkegaardiana memoria. Prendendo spunto da una via di Portland, la Elliott street, il giovane artista sceglie un nome che designa la volontà di lasciarsi alle spalle il passato per abbracciare una nuova identità, ciò che egli ritiene essere il suo vero sé. In questa scelta sembra profilarsi il germe di quella disperazione esistenziale che attanaglierà la sua esistenza e della quale Kierkegaard, forse, è stato il più profondo interprete. Nell’incipit de La malattia mortale il filosofo parla così dell’universalità di questa condizione:
« Come il medico può certamente dire che forse non esiste un solo uomo che sia completamente sano, così, se si conoscesse bene l’uomo, si dovrebbe dire che non vive un solo uomo il quale non sia alquanto disperato, non porti in sé un’inquietudine, un turbamento, una disarmonia, un’angoscia di qualche cosa che egli non conosce o che non osa conoscere, un’angoscia di una possibilità dell’esistenza o un’angoscia di se stesso, in modo che, come il medico parla di una malattia che cova nel corpo, cova anche lui una malattia, cova e porta con sé una malattia dello spirito, la quale ogni tanto, a guisa di un lampo, mediante e insieme a un’angoscia incomprensibile per lui stesso, fa sentire che c’è dentro ».
Fin dal suo primo disco da solista, Roman Candle del 1994, Eliott si fa portavoce dell’onnipervasiva realtà della disperazione, la quale, come nota finemente Kierkegaard, sembra annidarsi nelle pieghe nascoste dell’anima, per cui, sovente, il disperato non sa di essere disperato. E, forse, questa è la più acuta delle disperazioni. Elliott, invece, è conscio di essere abitato in tutte le sue fibre da un’angoscia «di qualche cosa che non conosce». Egli disperatamente vorrebbe essere sé stesso, ma non vi riesce. Ricordiamo che Kierkegaard, in base alla sua personale determinazione dell’io (l’io è un rapporto che, mettendosi in rapporto con sé, si mette, a un tempo, in rapporto con l’alterità della Trascendenza), stabilisce che vi possono essere due forme di disperazione: disperatamente non volere essere se stessi e non poter che essere se stessi; e disperatamente voler essere se stessi, senza riuscirvi. Roman Candle, a ben vedere, è un disco che oscilla vertiginosamente fra queste due forme di disperazione. Ne abbiamo contezza ascoltando le noti dolenti e malinconiche di No Name #3, una delle perle che compongono il disco: «Watched the dying day / Blushing in the sky / Everyone is uptight / So, come on, night / Everyone is gone / Home to oblivion». Il grunge tellurico degli Heatmiser, il gruppo in cui al tempo militava Elliot, è sgretolato da questo lo-fi, intriso di chiare reminescenze folk (i Big Star sono i numi tutelari della musica di Elliott), in cui si palesa l’anima irrequieta dell’artista. Già la title-track, Roman Candle, fornisce un assaggio del paesaggio espressionista che, di lì a poco, nota dopo nota, prenderà forma. Qui la ferita primigenia, sempre aperta, arriva addirittura a trasformarsi nella volontà di ferire l’altro. È l’esplosione acustica di un disagio esistenziale che agogna di diventare musica e parola.
La colpa, l’impossibilità di accettare sé stessi, il fardello della propria persona, conduce a riversare il disprezzo di sé sull’altro. La volontà di ferire, in ultimo, rivela il bisogno di fuggire dalla propria bruciante ferita. Nell’album eponimo, Elliott Smith, del 1995, la disperazione, il voler fuggire da sé, immergendo la propria esistenza nella nullità della più totale rassegnazione, cambia lievemente di segno. Già la scelta di intitolare il disco col proprio nome è il sintomo di una riaffermazione della propria singolarità. Elliott non vuole fuggire da sé, dalla propria ferita, ma vuole disperatamente essere sé stesso. Il disco si apre con il folk tormentato di Needle in the hay, un gioiello della musica indipendente che, di lì a qualche anno, fungerà da colonna sonora dei Tenenbaum di Wes Anderson, altra gemma dell’autarchia artistica. Il brano è un incedere mesto nei cunicoli della dipendenza, un folk minato da un rock trattenuto, come un grido di dolore taciuto, mozzato in gola. Se Kurt Cobain, con i suoi Nirvana, ha tentato, attraverso la furia di un rock sporco come il grunge, di comunicare l’impossibilità, per un’intera generazione, di ribellarsi alla società capitalistica, dal momento che anche il dissenso rappresentato dal rock viene fagocitato dalle logiche di mercato; Elliott, con la sua Needle in the hay, mostra, con voce e chitarra, le ceneri di ogni ribellione, quel nichilismo passivo che si insedia nelle vene e nella mente, e che conduce alla scarnificazione di ogni senso. Anche Christian Brothers sembra covare in sé un rock volutamente tenuto a freno, che resta sempre sull’orlo di deflagrare senza riuscirvi mai.
Ma è in St. Ides Heaven che Elliott riesce a consegnare all’ascoltatore il ritratto perfetto di quella solitudine che non trova requie in nessuna trascendenza (né in quella dell’altro né in quella dell’alterità per eccellenza, ossia Dio). Il ritmo incalzante di questa ballad pregna di spleen esistenziale apre uno squarcio sulla decadenza della provincia americana, sull’eterna ripetizione («Everything is exactly right / When i walk aorund here drunk every night») di sere affogate nell’alcol e nella droga. Un’immagine, più di tutte, campeggia in questo affresco della desolazione. Elliott barcolla tra le auto parcheggiate, allucinato per l’assunzione di anfetamina. La mente, canta, è un cielo tappezzato di stelle. Lo sguardo, il suo sguardo, in cui vivida tracima l’angoscia, si sofferma sul volto pallido della luna, la quale gli appare sospesa nel nulla, come una lampadina frantumata. Quella luna non rivela, oltre il suo anemico bagliore, l’orizzonte della Trascendenza, quel Nulla divino in cui tutto s’annienta e tutto si redime, ma solo il nulla dell’uomo, quel nulla a cui è appesa, come insegna Kierkegaard, la libertà umana. L’Angst, infatti, è la vertigine che sorge dinanzi all’abisso della propria esistenza, di un’esistenza che, nella sua nudità, ancora deve singolarizzarsi. Quella lampadina rotta, assisa nel cielo, nasconde nelle sue crepe tutte le possibilità dell’esistenza, le quali, facendo tremare d’angoscia il cuore, reclamano la sua scelta. Ma la disperazione, questa morte che incancrenisce la polpa della vita, è scegliere di non-scegliere, abbandonarsi alla pura possibilità, al nulla che non si converte mai nell’essere.
L’uomo è chiamato a scegliere fra il finito e l’infinito, fra l’essere e il nulla. Il dramma di questa scelta è misconosciuto dalla dialettica quantitativa di hegeliana memoria. Per quest’ultima, il passaggio dal nulla all’essere, dal finito all’infinito, non dipende dalla libertà umana, ma dall’intrinseca necessità che muove l’auto-trasparenza dello Spirito. Kiekegaard ribalta questo assunto: la necessità non è il sigillo dell’essere, ma un’opzione che concerne l’attivo esercizio della libertà. I momenti che compongono il dispiegarsi dello Spirito non sono esangue concetti, ma stadi dell’esistenza, modalità concrete di vivere e pensare. Tra uno stadio e l’altro del cammino della vita v’è uno iato incolmabile che può essere superato soltanto attraverso un salto, una decisione che taglia tutte le altre possibilità, le quali, virtualmente, baluginano nell’atto della ponderazione. Nel momento in cui si sceglie, ciò che si sceglie non è un’opinione, una teoria filosofica, un abito del quale ci si possa disfare, ma la forma precipua della propria esistenza: quella forma alla quale prestare fedeltà perché coincidente interamente con la carne viva della propria persona. Non è possibile essere, al contempo, marito ed esteta, dedicarsi alla vita sorretta dalla conformità a un principio etico e, contemporaneamente, abbandonarsi alla voluttà, all’amore che perpetuamente si rinnova e si dona a una nuova amata. Allo stesso modo, la vita religiosa, lo stadio che costituisce lo scopo ultimo dell’esistenza, implica il superamento sia della dimensione estetica del vivere sia di quella etica. Gli stadi precedenti non sono, hegelianamente, negati e conservati, ma trascesi radicalmente. Enter/Eller è, fin dal titolo, l’opera nella quale Kierkegaard, avvalendosi della finzione letteraria, di uno stile che unisce ironia e poesia, mette a tema la sua personale fenomenologia della libertà umana. L’uomo non può conciliare gli opposti servendosi della logica, può farlo solo con un’azione che partecipa al reale movimento dell’esistenza. L’io è chiamato a scegliere di essere o questo o quello. Either/or, terzo disco di Elliott Smith, com’è facile evincere dal titolo, è un omaggio all’opera succitata del filosofo danese, forse conosciuto durante gli anni di studio all’università (Elliott si laureò in filosofia e dottrine politiche). Come il filosofo, il quale visse nell’intimo la realtà del paradosso (il desiderio d’amare Regina e la possibilità, poi concretizzata, di vivere da solo, senza amore; il desiderio di diventare pastore e quello di vivere il cristianesimo fuori dalla chiesa, sulla sua soglia), Elliott trasfonde in musica e parole il dubbio agonico dell’umano esistere, l’antinomicità della verità che deborda dalla fissità di ogni definizione. Qui Elliott si svincola da tutte le facili etichette che pubblico e critica gli avevano appiccicato addosso. Il folk introverso dei primi due album sposa alla perfezione la fascinazione del pop (l’anima beatlesiana diviene impronta chiara e riconoscibile), la malinconia, che lambisce appena i territori angusti della disperazione, si intride della dolcezza dell’amore. Tra le pieghe della solitudine estrema sembra albeggiare, schiva come l’autore, la luce di una speranza. Ma questa speranza brilla soltanto dopo aver percorso le vie solitarie del pessimismo, quello che caratterizza il brano d’apertura, Speed Trials, dove l’immagine che prende corpo attraverso le note dolenti della chitarra è quella di un sorriso che percorre il viso soltanto per un attimo. Il folk-rock di Alameda, un quartiere di Portland, allunga la scia del pessimismo di Speed Trials e culmina con un monito che Elliott rivolge a stesso: nessuno può spezzare il tuo cuore, tu solo puoi farlo. In questo verso, forse, si delinea vagamente la convinzione, di kierkegaardiana memoria, secondo la quale la disperazione non è solo uno stato, un’ineluttabile necessità, ma il frutto di una scelta, la libera assunzione di un soggetto che decide se lasciarsi o meno distruggere dal veleno della depressione. Ballad of Big Nothing è una canzone pop intinta nel sangue amaro della più vigile coscienza, come già il titolo sembra indicare. La presenza di Kierkegaard diventa palpabile nel celebre ritornello: «You can do what you want to / whenever you want to / You can do what you want to / There’s no one to stop you». Siamo liberi di scegliere, ma non siamo liberi di non essere liberi. La libertà, come affermava un kierkegaardiano eterodosso come Sartre, non può ridursi a pura agilità, ma cova in sé, nel suo principiarsi, un ineliminabile residuo di necessità.
Dopo aver attraversato il paesaggio desolante della solitudine, si perviene al momento di maggiore intensità emotiva del disco: Between the bars. La tristezza che trasuda questa canzone si intreccia miracolosamente a un’infinita dolcezza, che, nota dopo nota, apre in due il cuore dell’ascoltatore. Elliott si rivolge a una persona che sembra essere trafitta dalla sua stessa solitudine, tormentata dai fantasmi dei possibili che non si tramutano mai in realtà: «The potential you’ll be that you’ll never see». Sembra quasi di vedere e di sentire la mano di Elliott che si allunga e accarezza il volto in lacrime della donna. L’amore, sembra dirci, è l’unico antidoto alla disperazione. Fra le sbarre della nostra prigione coscienziale un bacio, sorvegliato dall’antico bagliore delle stelle, vince il nulla che rode i nostri pensieri.
Angeles, brano che accompagnerà, qualche anno più tardi, la storia struggente di Paranoid Park (uno dei capolavori del genio di Gus Van Sant, anch’egli di Portland) è pervasa da un fascino crepuscolare. Un brano che sembra l’eco emotivo di una passeggiata solitaria nelle luci rarefatte della notte. La voce di Elliott è un sibilo che si dipana su un tappeto acustico di rara intensità. Ritorna il tema kierkegaardiano del possibile come scaturigine della vertigine esistenziale; il rischio e la tentazione come cifre stesse della vita. Miss Misery, come Angeles, diventerà la colonna sonora di un film di Gus Van Sant, Will Hunting. Verrà candidata persino come miglior canzone agli Oscar. E, in effetti, le note e le parole di questo gioiello del canzoniere di Elliott, non possono essere disgiunte dalla ritrosia da outsider con la quale si esibì la notte degli Oscar. Elliott non amava le luci della ribalta, rifuggiva le attenzioni dei media. Tutto quello che contava per lui era suonare e cantare ciò che promanava dal nucleo incandescente della sua esistenza.
Say Yes, il brano che chiude Either/Or, sembra diradare le brume dell’ansia metropolitana di Angeles. Il brano s’apre con Elliott che tossisce per schiarirsi la voce, come se sentisse il peso di ogni singola nota e di ogni singola parola. E, difatti, Say Yes è l’unica canzone d’amore che Elliott ha ammesso di aver scritto per qualcuno. Dirà, pensando ai momenti in cui l’ha scritta, di essere stato davvero innamorato, forse l’unica volta della sua vita. La dolcezza di questa confessione accorata raggiunge l’apice nei seguenti versi: «I’m in love with the world / trough the eyes of a girl / who’s still around the morning after». Nello sguardo dell’amata, l’estraneità del mondo si dissolve. Tutto s’impregna di una bellezza e di una magia inconsuete. Il possibile, il fondo dell’esistenza, non atterrisce più. Il rifiuto radicale della vita lascia il posto alla leggerezza di un mattino che abita nel profondo del cuore. Elliott sembra aver scelto di essere stesso, di farsi carico della sua indicibile singolarità. Purtroppo, l’afflato d’amore e di speranza che sancisce la fine di Either/or lo abbandonerà presto. Gli spettri della malattia mortale lo condurranno di nuovo nel vortice della dipendenza.
La depressione, nota costante di tutta la sua vita, riemergerà dal fondo della coscienza. La tentazione del nulla l’avrà vinta su quella fiammella di redenzione che fa capolino al disco immortale del 97’. Una canzone, più di tutte, rappresenta il presagio della sua tragica fine. Si tratta di Everything means nothing to me, la traccia numero cinque dell’ultimo album pubblicato in vita, Figures 8. Elliott, in quegli anni, abbandona la chitarra e inizia a utilizzare il piano per dare voce ai suoi demoni. Il pezzo sembra una lirica crepuscolare incisa s’una melodia surreale. S’apre con un’immagine: Elliott che vede il suo futuro nei marmi di una statua posizionata in una fontana. Lo sorprende, poi, il tremolio d’una pozza d’acqua. Un uccello blu, adagiato sulla sua spalla, inizia a cantare ripetutamente il titolo della canzone: tutto non significa niente per me. Mentre le note scandiscono questo paesaggio nichilista, nei versi figura un’immagine suggestiva: Elliott che cerca di salutare tutte le persone che ricordavano chi egli fosse veramente. È come se l’autore, con questo verso, stesse testimoniando il congedo da sé stesso, come se non si riconoscesse più, come se si fosse arreso definitivamente all’anonimia impersonale del nulla. Eppure, quel nulla che spazza via ogni residuo di senso, come la verità, è nulla “per me”. Neanche il nichilismo può cancellare il singolo. L’ultimo tragico atto della vita di Elliott può essere letto come la drammatica affermazione di quella singolarità che non trova dimora in nessuna categoria.
30 giugno 2025