Meditazione su Kafka

 

Un libro deve essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi. Che tipo di ascia usa Kafka per ferirci e lasciarci morenti? Le acque che si celano sotto il nostro ghiaccio sono intatte e limpide o movimentate e torbide? E in definitiva, cosa muove questo mare? Cosa lo fa arrestare? 

 

Andy Warhol, Ritratto di Kafka
Andy Warhol, Ritratto di Kafka

 

« Ma è bene se la coscienza riceve larghe ferite perché in tal modo diventa più sensibile a ogni morso. Bisognerebbe leggere, credo, soltanto libri che mordono e pungono. Se il libro che stiamo leggendo non ci sveglia come un pugno che ci martella sul cranio, perché dunque lo leggiamo? Buon Dio, saremmo felici anche se non avessimo dei libri, e quei libri che ci rendono felici potremmo, a rigore, scriverli da noi. Ma ciò di cui abbiamo bisogno sono quei libri che ci piombano addosso come la sfortuna, che ci perturbano profondamente come la morte di qualcuno che amiamo più di noi stessi, come un suicidio. Un libro deve essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi. »

 

Così scriveva Kafka, appena ventenne, al suo amico e compagno di scuola Oskar Pollak, in una lettera che è riuscita ad incarnare con estrema sintesi il ruolo arduo ma necessario svolto da ogni buona letteratura: un carattere distintivo della scrittura che l’autore non solo rintracciava e auspicava ma, che più compiutamente incarnava nella sofferenza e nell’umanità della propria vita, nell’eleganza e nell’assurdo della sua prosa.

 

La scrittura di Kafka è senza la minima ombra di dubbio una delle massime espressioni di buona letteratura a cui Kafka stesso credeva; essa non si limita a distruggere il mare ghiacciato che si è formato in ogni uomo, piuttosto lo rende tempestoso e inquieto, fa evaporare le sue acque allo stesso modo in cui rende evanescenti le nostre convinzioni apparentemente più certe e profonde, smuove le correnti e rompe il silenzio, erode le rocce e spesso sfocia in un vero e proprio flusso perenne, che da nulla si lascia arrestare e che quasi tutto sembra portare con sé.

 

La produzione dell’autore è in questo senso tanto significativa quanto fuorviante a chi si atteggia al testo pretendendo delle risposte chiare e nette o esibendo degli schemi di pensiero statici e già precostituiti: da questo punto di vista appare significativa già la prima raccolta di racconti pubblicata nel 1913, Contemplazione o Meditazione, dalle cui pagine è già possibile intravedere la figura di un bambino diverso e lontano degli altri che improvvisamente si fa adulto, non venendo però meno a quella separatezza e scissione rispetto all’uomo comune che per quanto difficile gli permette di osservarlo, facendogli comprendere di quale prodotto umano esso sia divenuto e sempre stato prigioniero.

 

Knud-Andreassen Baade, "Il relitto"
Knud-Andreassen Baade, "Il relitto"

 

Racconti totalmente diversi da quelli a cui Kafka stesso, anche se non troppo, sembrerebbe averci abituato: nessun io che si fa personaggio e che si cela dietro il nome o le movenze di una propria creazione, solo poche righe, spesso molto complesse che, come sottolineato dall’autore stesso in una lettera a Felice Bauer, lasciano intravedere qualche raggio di luce in un’oscurità molto fitta.

 

Ciò che colpisce nella raccolta di racconti, ma in generale nelle opere di Kafka, non è la luce immediata che essa porta con sé ma più concretamente quel groviglio di tenebre nel quale necessariamente avvolge il lettore; tuttavia, come nell’esperienza comune, è solo dopo esserci abituati all’oscurità che possiamo intravedere in essa e attraverso essa degli oggetti concreti… in questo caso però, ciò che intravediamo non ci piace affatto: siamo terribilmente simili all’uomo che Kafka ci ha narrato.

 

Il meccanismo di luci e ombre a cui il pensiero dell’autore ci vincola emerge molto significativamente nella terzultima delle diciotto prose di Meditazioni: Desiderio di diventare indiano.

 

« Ah, se fossi un indiano, ecco qua, pronto, sul cavallo in corsa, obliquo nel vento, scosso da brevi sussulti sul suolo sussultante, fino a gettare gli speroni, che non ci sono, fino a buttare le redini, che non ci sono, fino a intravedere appena la prateria rasata che mi fugge davanti, senza più collo né testa di cavallo. »

 

Kafka tende ad una condizione, una condizione particolare che viene presentata ipoteticamente come qualcosa di remoto e di impossibile: quella dell’indiano non è che una proiezione concreta, lontana e quasi assurda della libertà assoluta che l’autore, come del resto ogni uomo, tanto brama.

 

Ah, se potessi essere un indiano, subito pronto ad agire concretamente e senza limitazioni, come non limitate sono le vie di chi si muove eternamente in corsa, calpestando un suolo che brama di essere calpestato e che è recettivo delle mie azioni e della mia volontà; ah, se potessi correre, abbandonando speroni e redini, costrizioni che mai ho avuto e che mai detteranno e modificheranno il mio desiderio di sfuggire: ecco allora che correrei eternamente fino ad un’infinita prateria deserta, fino ad accorgermi che il mio cavallo non ha testa né collo e che dunque ho sempre corso da solo.

 

La libertà kafkiana è una libertà che rincorre se stessa e che vuole cercare di liberarsi dalla costrizione esterna tanto quanto dall’uomo come sua manifestazione locale e parziale: l’individuo vorrebbe a tutti i costi essere padrone delle proprie azioni e dei propri pensieri allo stesso modo in cui un cavaliere impone la via al proprio destriero ma, sorprendendosi ad agire, ecco che l’uomo rintraccia in sé dei meccanismi inspiegabili, delle azioni non pensate, dei sentimenti non giustificati e non giustificabili, delle parole dette ma non pensate.

 

Carlo Carrà, " Il cavaliere rosso"
Carlo Carrà, " Il cavaliere rosso"

 

L’uomo vorrebbe vivere la propria libertà, vorrebbe essere un tutt’uno con essa allo stesso modo in cui l’indiano e il proprio cavallo sono un tutt’uno nella loro eterna corsa: vorrebbe saper rendere conto delle proprie azioni, vorrebbe che esse tracciassero delle orme sul sentiero appena percorso e non che scomparissero passo dopo passo.

 

Ma ecco però, che protratta la corsa per tutta la giornata il cavallo inizia a svanire e a rivelare di esser stato non un mezzo di una corsa e di una volontà eterna ma una semplice illusione: la condizione dell’uomo non è quella della corsa continua, della manifestazione piena di una volontà assoluta ma è più propriamente quella di chi, camminando nella notte, avanza piano, guardandosi attorno e scegliendo cautamente le vie da percorrere.

 

Da un lato l’uomo vorrebbe essere cosciente delle proprie azioni, dall’altro vorrebbe non scegliere assolutamente e non vorrebbe venire a patti con l’esistenza; la condizione che gli si offre è una ingiustamente intermedia: egli può essere padrone di alcune delle sue scelte, specie sul tipo di briglie e di speroni con le quali convincersi o lasciarsi convincere ad agire e particolarmente sul tipo di paraocchi da indossare.

 

30 giugno 2023

 







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