Franz Kafka, Il castello: l'alienazione dell'uomo (I)

 

La prima volta che si vede il castello all’apparenza non potrà piacere, il problema è che solo avendolo visto, si è già entrati sotto la sua legislazione. Più lo si vede e lo si cerca di conoscere, più si rimane impigliati nella sua tela.

 

 

Prima parte

 

La prima volta che si vede il castello all’apparenza non potrà piacere; il problema è che solo avendolo visto, si è già entrati sotto la sua legislazione. Più lo si vede e lo si cerca di conoscere, più si rimane impigliati nella sua tela. Sembra essere questo il più scarno riassunto dell’opera “Il castello” di Franz Kafka: una storia rimasta incompiuta, non si sa bene per quale motivo, probabilmente per l’indisposizione dell’autore ad addentrarsi fino in fondo in quelle figure che lui stesso ritrae come “demoniache”.

 

La storia è quella di K., arrivato al villaggio, dove si svolgerà l’intera narrazione, in veste di agrimensore; egli non conosce nulla di tale villaggio e della sua popolazione, ma ben presto entrerà in contatto con una realtà del tutto inusuale. Il protagonista si scaglia sin da subito contro delle leggi non scritte che mettono a dura prova la sua permanenza e la sua voglia iniziale di conoscere cose nuove e lavorare: l’intero sistema è regolato da una rigorosa burocrazia che non gli permette di risolvere i problemi che egli incontra nell’avviamento del suo lavoro. Ben presto scopre che tutto sta in piedi su disposizione del castello, così ogni ordine non può essere dato se non per volere del castello. Per risolvere il problema della sua nomina come agrimensore prima di tutto cerca di raggiungere il castello fisicamente, ma la strada che apparentemente era diretta ad esso non si rivelò tale:

 

« questa strada principale del villaggio, non conduceva al monte su cui sorgeva il castello, conduceva soltanto nei pressi di esso per poi deviare come di proposito, e se non si allontanava dal castello, non gli si avvicinava neppure. » 

 

In un secondo momento cerca di arrivare al castello attraverso la diplomazia e l’aiuto che le persone che gli si presentano davanti gli possono offrire: anche qui però K. non ha vita facile. Ogni singolo individuo ha infatti un ruolo ben preciso nello scacchiere del villaggio: le regole che ognuno rispetta non sono alcunché di coercitivo, né sembra esserci una forza che sopprima chi non si appresta a recitare la propria parte, ma ognuno è nel proprio ruolo perché così è e non potrebbe essere altrimenti. Parlare del castello e dei signori che abitano in esso è un’operazione inusuale per gli abitanti del villaggio; essi dunque, quando vengono sollecitati su questo argomento, non possono far altro che indignarsi e cercare di sviare il discorso. Per K. alcuni atteggiamenti sono del tutto incomprensibili: in quanto estraneo non riesce ad entrare nell’ottica in cui vedono le cose tutti gli altri popolani. La piacevole visione che il suo obiettivo gli procura non lo fa demordere: cerca quindi di immedesimarsi nella vita del villaggio. Per far questo deve cambiare ottica, rivalutare tutto ciò che sta dietro ad ogni singola azione degli altri cittadini. Come se fosse costantemente privo di qualsiasi capacità di ragione, si trova a valutare non altro che ciò che gli si manifesta davanti, ciò che la nuova esperienza del villaggio gli offre. Sembra che le forme ontologiche di riferimento che aveva prima, ora, non siano più valide.  È quindi costretto a fidarsi solo dell’apparenza.

 

Edward Hopper, "La sera blu" (1914)
Edward Hopper, "La sera blu" (1914)

 

Il sistema in cui si trova a vivere è talmente diverso che prova una sorta di repulsione nei suoi confronti. Nel respingere il tentativo di mediazione in realtà K. c’è già dentro, pian piano inizia quindi a far proprio il villaggio e a relazionarsi come un autoctono. Particolarmente significativo è un passo della storia quando K. si abbandona tra le braccia di Frieda, sua futura compagna, la quale è stata l’amante di Klamm, un potente signore del castello: 

« Lì trascorse ore, ore di comune respiro, di comune pulsazione del cuore, in cui K. aveva costantemente la sensazione di smarrirsi o di essersi tanto inoltrato in un luogo estraneo quanto ancora non si era inoltrato nessuno prima di lui, un luogo estraneo, nel quale persino l’aria non aveva alcun elemento in comune con l’aria di casa, nel quale si era condannati a soffocare per l’estraneità ma tra le cui assurde seduzioni non si poteva far altro che proseguire ancora, smarrirsi ancora. »

 

Le “assurde seduzioni” di Frieda sono la nuova aria che K. respira: rappresentano il prestigioso legame che collega Frieda a Klamm, da cui K. è attratto al fine di portare a termine il suo obiettivo. Non riesce a tornare indietro: una volta posto il problema della conoscenza del suo destino, non può far altro che proseguire, a costo di soffocare nella nuova realtà che all’inizio sembra del tutto irrazionale. Grazie alla posizione privilegiata, cioè l’essere il nuovo compagno di Frieda, K. cerca a tutti i costi di avere un contatto con Klamm. Tutte le persone cui chiede un aiuto sono scioccate dalla sua invadenza e dalla sua mancanza di rispetto per i ruoli: Klamm è talmente influente che nessuno gli si può avvicinare, Klamm si avvicina solo da chi vuol essere avvicinato. Tutti i tentativi di K. sono dunque inutili, perché nel caso, sarebbe stato lo stesso Klamm che l’avrebbe chiamato. Le risposte che K. riceve dalle varie persone interpellate possono essere riassunte in questa:

 

« Lei non è del castello, non è del villaggio, non è niente. Anzi, qualcosa è, purtroppo, un forestiero, uno in soprannumero, uno che dappertutto è d’impiccio, uno a causa del quale si hanno continue seccature […], uno le cui intenzioni sono ignote. »

 

Vincent Van Gogh, "Un vecchio uomo afflitto" (1890)
Vincent Van Gogh, "Un vecchio uomo afflitto" (1890)

È questa l’immagine di K. che hanno gli abitanti del villaggio: qualcosa di in più, che non torna nei piani delle singole esistenze, un fattore destabilizzante, in quanto non calcolato, un ramo secco da potare, un asse storto da raddrizzare. È questo il destino di chi come K. è fuori dall’ottica comune, il quale avanza delle pretese secondo lui “logiche”, come quella di parlare con Klamm, ma che agli occhi del resto della gente sono “mostruose”: inevitabilmente, per sopravvivere, dovrà conformarsi e rispettare le regole del gioco. 

 

La faccenda si fa interessante quando K. entra in contatto con un personaggio particolare: la mamma di Frieda, la quale mette bene in guardia K. dal compiere azioni sprovvedute. Nel far questo la donna prende posizione rispetto al sistema: è la prima forma di analisi della realtà da parte degli abitanti del villaggio, può dunque essere considerata la prima messa in discussione del villaggio stesso:

 

« circa la situazione di questo villaggio lei è spaventosamente ignaro, viene il capogiro se si sta ad ascoltarla e si paragona mentalmente ciò che lei dice e pensa con l’effettiva realtà. Questa ignoranza non si guarisce in un solo colpo e forse non la si guarisce affatto, ma molte cose possono migliorare se lei mi presta anche soltanto un po’ di fede e tiene sempre presente questa ignoranza. » 

 

Per ammettere l’ignoranza di K. è necessario vedere che la sua posizione non sia per niente simile a quella di tutti gli altri popolani; e per vedere la posizione in cui sosta l’altro è necessario mettere in discussione la propria. Dunque per la madre di Frieda, il modo di vedere del villaggio, pur essendo secondo lei coerente, non è l’unico concepibile: si pongono dunque le basi di una messa in discussione del regolamento del villaggio e di conseguenza del castello.

 

Vincent Van Gogh, "La ronda dei carcerati" (1890)
Vincent Van Gogh, "La ronda dei carcerati" (1890)

Nonostante questo, la forza del castello continua incessantemente a premere e, al suo cospetto, ogni volontà si piega e obbedisce al proprio ruolo. La madre di Frieda intuisce che qualcosa non va, ma non riesce ad andare oltre, è presa dal ritmo incessante che il fare l'ostessa comporta. Dovendo seguire la locanda e tutte le richieste dei clienti non ha il minimo tempo per riflettere. Questo è l'effetto che un duro lavoro, come quello dell'albergatore, procura: dovendo badare a tutte le piccole richieste che i clienti avanzano, non si riesce a valutare le condizioni in cui lo si sta sta facendo e si finisce per adattarsi alla routine caotica e schizofrenica del quotidiano. Quando ci si appresta ad andare contro una società dogmatica, come potrebbe essere quella del villaggio, cercare di cambiarla è veramente difficile, perché ci si scontra con chi non è disposto a dialogare, in quanto gode della sicurezza che il suo pensiero gli procura. Sono necessarie azioni eclatanti, oserei dire rivoluzionarie, altrimenti finisce per avere il sopravvento la comodità di lasciare le cose così come stanno e consegnarsi al pensiero comune. Proprio quello che succede a K.: accecato dal desiderio di stabilità, di conoscenza, di lavoro, non è stato in grado di mettere in discussione il sistema e di rinunciare a esso. Assopito dal calore che immaginava avessero la tranquillità di un’occupazione sicura, la scoperta di cose nuove, il rapporto con la compagna, K. si ritrova a dipendere dal castello, ad alienare la propria persona in esso.

 

Qui si può leggere la seconda parte

 

 

19 novembre 2018

 








  • Canale Telegram: t.me/gazzettafilosofica