Schopenhauer e il Buddha: abbozzo di un confronto

 

Anche chi abbia soltanto una vaga reminiscenza della filosofia liceale rammenterà che Schopenhauer è stato tra i primi filosofi europei ad accogliere nel suo pensiero elementi di origine asiatica, in particolar modo indiana. Il presente contributo s’incarica di individuare qualche convergenza tra la filosofia schopenhaueriana e la sapienza buddhista, a partire da quella realizzazione meditativa nota come “arresto di nozioni ed esperienza” (saññāvedayitanirodha).

 

di Simone Perrone

 

 

Arthur Schopenhauer (1788-1860) non era digiuno di filosofia indiana: benché al suo tempo la scienza buddhologica, in particolare, fosse ancora allo stato di un infante che muove i suoi primi passi, egli – da persona colta e poliedrica qual era – non solo si era documentato con acribia sul buddhismo, nella misura possibile da parte di chi non avesse accesso alle fonti in lingua originale, ma vi aveva scorto anche significative e sorprendenti convergenze col suo stesso pensiero, che riceveva anche per questa via una graditissima conferma. 

Ciò che Schopenhauer ha fatto è un grande lavoro di sintesi di oltre due millenni di filosofia occidentale, da Platone a Kant, passando per i mistici tedeschi; ma egli ha anche gettato le basi per un incontro pregnante con la sapienza asiatica, in specie indiana, di cui ha accolto, trasformandoli, alcuni elementi. Ancorché noi siamo d’avviso che Schopenhauer, ciononostante, sia e resti un pensatore sostanzialmente radicato nella cultura occidentale, ben più che in quelle d’Oriente che proprio allora l’Europa cominciava a conoscere con metodi di indagine scientifici (si pensi a Eugène Burnouf e alla sua pionieristica opera Introduction à l'histoire du Bouddhisme indien), riveste d’altra parte un certo interesse – se non altro comparativo – la rilevazione di alcune convergenze che si possono individuare a partire dalla filosofia schopenhaueriana in relazione anzitutto a quel particolare conseguimento contemplativo noto in lingua pāli come saññāvedayitanirodha, ovvero “arresto di nozioni ed esperienza”.

 

Notoriamente, Schopenhauer mutua dalla scolastica il concetto di principium individuationis, identificandolo con le forme a priori di spazio e tempo, e delimitandone il campo d’applicazione al dominio fenomenico. Ciò implica che, mentre la realtà fenomenica appare plurale e diversificata, fatta di enti distinti e reciprocamente separati, la cosa in sé, cui quelle forme sono estranee, è invece una, indivisibile e identica, presente egualmente in ogni essere vivente e cosa. La molteplicità fenomenica non è che la manifestazione della volontà per mezzo delle idee platoniche, che ne costituiscono, in termini schopenhaueriani, l’oggettità adeguata. Il principio di individuazione, com’è risaputo, è definito dal Nostro come “velo di Māyā” (Der Schleier der Māyā), espressione che, tuttavia, a rigore non è presente in alcun testo sanscrito: essa appare, dunque, come un’invenzione – non necessariamente in senso dispregiativo – dello stesso Schopenhauer. Poiché spazio e tempo non sono che forme dell’intuizione del soggetto, da cui risulta l’apparenza della pluralità, essi non pertengono alla cosa in sé, che, peraltro, nei fenomeni si manifesta. 

Ora, il saññāvedayitanirodha potrebbe – crediamo legittimamente – essere inteso, alla luce della filosofia schopenhaueriana, come inveramento della temporanea sospensione del principium individuationis, da cui consegue di necessità la momentanea scomparsa del mondo come rappresentazione – il che vuol dire una redenzione dal dolore che dà un assaggio di cosa possa essere la liberazione finale dal medesimo; in termini buddhisti, del “nibbāna senza residuo” (anupadisesa-nibbāna), ove le coordinate spaziali e temporali svaniscono completamente, come avviene egualmente nella compiuta negazione della volontà schopenhaueriana. Quel che a questo punto rimane è indefinibile. Sarebbe senz’altro una corriva presentazione del pensiero buddhista e di quello di Schopenhauer definirlo come Nulla puro e semplice, dacché tanto l’uno quanto l’altro, pur storicamente tacciati o comunque identificati col nichilismo, hanno invero auto-compreso il loro fine “salvifico” in altro modo: il primo presentandolo anche con attributi positivi, che testimoniano di una realtà esistente e non di un nulla tout court; il secondo distinguendo il nihil privativum dal nihil negativum, il quale solo è il nulla assoluto, come tale impensabile, non collimante, però, con l’esito mistico del Mondo come volontà e rappresentazione.

 

Col venir meno dell’esperienza nel nirodha, e dunque anche della dualità altrimenti inseparabile di soggetto e oggetto, viene meno per ciò stesso ogni forma di conoscenza, sicché a rigore la “cessazione” non è un’esperienza, ma la sua radicale negazione: ciò che altrove abbiamo proposto di definire una “non-esperienza”, pur con la consapevolezza che con questo non abbiamo fatto altro che cambiare i termini di un problema che continua a esistere. Del resto, anche lo stesso Schopenhauer aveva contezza del fatto che dello sbocco finale della sua filosofia non fosse possibile parlare in modo adeguato. Di esso non si dà conoscenza positiva, ma soltanto negativa. E questo è un tratto in comune col prevalente apofatismo presente nei discorsi del Buddha rispetto al nibbāna.

Tanto per il Buddha quanto per Schopenhauer, la causalità non è qualcosa che abbia un’esistenza incondizionata: essa, difatti, estende il suo potere unicamente all’interno di quella dimensione che il primo definirebbe “condizionata” o “costruita” (saṅkhata) dal nostro apparato cognitivo, il secondo come “rappresentazione” (Vorstellung): la legge di causalità non è, pertanto, una veritas aeterna, per cui non si può fondarvi ad esempio una dimostrazione dell’esistenza di Dio sulla base del cammino a ritroso dagli effetti alle loro cause, fino a pervenire alla supposta causa prima donde proverrebbe in ultima analisi l’intero movimento del mondo naturale. Quantunque nell’insegnamento del Buddha manchi – espressa in modo chiaro, consapevole, esteso ed esplicito – la concezione di spazio, tempo e causalità come forme a priori, vi si trova in compenso l’idea che queste tre dimensioni non appartengano alla realtà ultima, come abbiamo dimostrato in Meditazione metafisica sull’Assoluto nel buddhismo antico. 

Nella dottrina buddhista è presente l’idea che il mondo sia una costruzione cognitiva che si determina nell’incontro tra le cosiddette basi interne e quelle esterne; al loro arresto (saḷāyatananirodha), il mondo sparisce: sparisce quello che schopenhauerianamente potremmo chiamare il mondo come rappresentazione. Da qui, tuttavia, il pensiero sapienziale buddhista e quello filosofico di Schopenhauer divergono in maniera non trascurabile, giacché, se è vero che per entrambi a questo punto permane e si scopre la realtà ultima, è egualmente vero che essa non è la medesima quanto alle maniere della sua descrizione. A ogni modo, in un passo significativo del suo opus magnum, Schopenhauer scrive: «Dietro alla nostra esistenza, si nasconde qualcosa, che diventa per noi accessibile soltanto se ci scuotiamo di dosso il mondo». Questo consente un raffronto con la nozione buddhista di “fine del mondo” (lokanta), che finalmente lascia rilucere nella sua sublime purezza l’incondizionato, non più occultato dalla dimensione mondana, e con quella similare di “arresto dell’esistenza” (bhavanirodha), con il che si supera il dominio della sofferenza e, pur senza abbandonare immantinente il condizionato, non almeno fino al momento della morte, ci s’insedia al contempo nella realtà metafisica del nibbāna. La quale, però, come insegna l’Ajāta-sutta, è conosciuta a partire dalla realtà empirica di ciò che è nato, divenuto, fatto e condizionato. Il Buddha, di conseguenza, non si pronuncia sulla natura in sé e per sé del nibbāna, ma soltanto sulla sua relazione con il mondo di cui abbiamo esperienza – rispetto al quale presenta caratteristiche opposte, come documentato dal Paṭhamanibbānapaṭisaṃyutta-sutta – e su come sia possibile superarlo. Potremmo, quindi, a ragione riferire anche a lui le parole che Schopenhauer riferisce alla propria filosofia: essa «se ne sta ai dati di fatto dell’esperienza esteriore e interiore, così come sono accessibili a ciascuno». Si tratterebbe in entrambi i casi di una “metafisica immanente”, «giacché – dice Schopenhauer della sua – non si distacca mai del tutto dall’esperienza, ma resta invece la mera interpretazione e spiegazione di essa, dato che non parla della cosa in sé altrimenti che nel suo riferimento al fenomeno». 

 

 

Possiamo rilevare un’ulteriore convergenza nel fatto che il mondo – che sia definito in termini buddhisti o schopenhaueriani – costituisca una sorta di “copertura” della vera realtà, che sta al fondo del dominio fenomenico: il Kāmaguṇa-sutta dice che il saḷāyatananirodha avviene in una “base” (āyatana), che il commentario identifica col nibbāna; Schopenhauer articola una visione nettamente più complessa di quella buddhista, giacché per lui la volontà non è soltanto la realtà ultima, ma anche ciò che si oggettiva e si manifesta attraverso i fenomeni – organici e inorganici – e persino nelle leggi naturali, come – al livello più basso  quella di gravità. 

Come è ben saputo, Schopenhauer identifica nel corpo vissuto in prima persona, nell’autocoscienza, il mezzo attraverso cui compiere la decisiva scoperta della volontà come cosa in sé, realizzando così quel passaggio dal mondo come rappresentazione al mondo come volontà che altrimenti sarebbe assolutamente precluso. È degno di nota che qualcosa in certa misura analogo si trovi anche nella sapienza buddhista, in un passo di grande pregnanza del Rohitassa-sutta, ove il Buddha sostiene che è esattamente in questo corpo (kaḷevara), con la sua percezione (sasaññī) e mente (samanaka), che vengono descritti il mondo, la sua origine, la sua cessazione e la via che a ciò mena. Noi non siamo “teste alate d’angelo senza corpo”, come scrive Schopenhauer, ma abbiamo anche un corpo, il quale, se per un verso è dato anch’esso come rappresentazione allo sguardo del soggetto puramente conoscente, per altro verso è vissuto intimamente come volontà. Dal punto di vista buddhista, il corpo è parimenti sia oggetto contemplato, nelle modalità descritte ad esempio dal famoso Mahāsatipaṭṭhāna-sutta, sia il supporto del mondo come fenomeno e, dunque, ciò a partire da cui si può trascenderlo. In Schopenhauer, d’altra parte, nell’ascesi da lui prospettata come ultimo e definitivo modo d’affrancamento dalla volontà, il corpo è da far oggetto di dure privazioni e severa macerazione, fino ad arrivare, al limite, alla morte d’inedia (qualcosa che ricorda ciò che i jaina chiamano sallekhanā). Sebbene anche il buddhismo conosca pratiche ascetiche, esse non si spingono fino alla morte in tal guisa; anzi, proprio questo tipo di condotta, sperimentata per anni da Gotama prima del suo risveglio, è stata in seguito da lui respinta come inutilmente dolorosa e soteriologicamente infruttuosa. Non è vero, dal suo punto di vista, che la sofferenza scientemente ricercata e ottenuta, quand’anche fosse incanalata nella via della consapevole e risoluta ricerca della liberazione, possieda quella che Schopenhauer definiva una “forza santificatrice”. Senz’altro il dolore è lo sprone essenziale alla ricerca della liberazione, ciò che causa quello sgomento (saṃvega) donde deve prendere avvio ogni seria ricerca esistenziale, ma questa non si pratica tramite il tormento auto-inflitto al corpo, bensì sostenendolo nella misura sufficiente a farne un adeguato supporto per condurre la vita “spirituale” nel miglior modo possibile, in direzione dell’estinzione definitiva della sofferenza. 

 

È poi significativo il fatto che il nibbāna sia detto privo di oggetto (o, altrimenti, di “base”) (anārammaṇa), ovvero, come glossa il commentario, indipendente da ogni supporto. Si potrebbe istituire, al riguardo, un’analogia con quanto Schopenhauer dice nell’appendice al Mondo, e cioè nella Critica della filosofia kantiana, ove il filosofo di Danzica, correggendo Kant, sostiene che già l’essere oggetto rientra in ogni caso nella forma del fenomeno. Di conseguenza, la cosa in sé non può intendersi propriamente come alcunché di oggettivo, bensì come appartenente a un campo toto genere diverso dalla rappresentazione. Dunque, neppure la forma conoscitiva prima e più generale, quella cioè di essere oggetto per un soggetto, riguarda la volontà come cosa in sé. Analogamente, il nibbāna a rigore non è un oggetto che ricada nell’ambito dell’esperienza costituito – nella sua estensione e nei suoi limiti – dalla cooperazione dei cosiddetti aggregati (khandha), giacché in tal caso sarebbe un elemento condizionato, bensì per definizione ne rappresenta l’estinzione, definitiva al momento della morte: è precisamente per questa ragione che i commentari chiamano la liberazione finale khandha-parinibbāna; ma anche quando figura come anupādisesa, quel “resto” (sesa) al quale tale definizione allude è proprio quello rappresentato dai cinque khandha, che con le loro reciproche relazioni costituiscono la trama dell’esperienza. 

Col venir meno della mente, come per definizione avviene nel nirodha (acittaka è detto da Visuddhimagga XI, 124 e cittanirodha dall’Abhidhammatthavibhāvinīṭīkā), non può che venir meno anche la costellazione dei fattori concomitanti (cetasika) che l’accompagnano e, di conseguenza, verrebbe meno anche la percezione dello spazio, del tempo e dei rapporti causali tra i fenomeni. Scompare così il mondo – il mondo come rappresentazione, direbbe Schopenhauer – e rimane, non più velato, ciò che è toto genere diverso da esso: il nibbāna. A questo riguardo, si consideri quel brevissimo ma pregnante passo del Mahāniddesa in cui si afferma che con l’arresto della mente il mondo muoia (cittabhaṅgamato loko): il mondo fenomenico può cessare, come ammette anche Schopenhauer, nel suo caso come conseguenza della completa negazione della volontà; a questo punto, con la volontà rinnegata radicalmente e il mondo dissoltosi, non rimane che il nulla, cui peraltro s’accompagna un’ineffabile pace e serenità. Nulla che, tuttavia, è tale soltanto dalla prospettiva di chi sia ancora pieno di volontà; all’opposto, per chi se ne sia affrancato, è il nostro stesso mondo, così apparentemente reale, il nulla. 

Su quanto detto or ora si registrano sia convergenze che divergenze insanabili: il Buddha non ha insegnato a negare il mondo a partire dalla sua radice, ma a trascenderlo per scoprire quel dominio (tadāyatana) ove solo la sofferenza in ogni sua forma sparisce. Ma è pur vero che, d’accordo in linea generale con Schopenhauer, egli presenta questo stesso dominio in termini negativi che sembrano sottrargli progressivamente realtà, fino a farlo apparire come il nulla o quasi. Eppure, saremmo gravemente in errore se pensassimo che ciò che non può essere convenientemente descritto a parole sia per ciò stesso il nulla: così conosce il nibbāna soltanto chi sia ancora pieno di quella brama (taṇhā) cui si deve il doloroso reiterarsi dell’esistenza, di nascita in morte senza sosta. Ma, come giustamente osservava il grande buddhologo Edward Conze (1904-1979), «ciò non dimostra che il nibbāna sia assolutamente nulla, ma soltanto che non è nulla di ciò che è compreso nell’interesse e nell’esperienza della maggior parte delle persone». Per quei pochi che invece riescano a superare salvi il flusso spaventoso dei marosi del saṃsāra, il nibbāna si presenta come la suprema, nobile verità, di natura non ingannevole (paramaṃ ariyasaccaṃ yadidaṃ - amosadhammaṃ nibbānaṃ).

 

Si noti, infine, che, se la dimensione fenomenica può cessare – quella che il Buddha chiamerebbe saṃsāra e Schopenhauer Die Welt als Vorstellung –, allora essa si rivela contingente; e se a questo arresto “qualcosa” avanza, allora è questo qualcosa a dover essere inteso come realtà profonda soggiacente all’intera manifestazione, senza tuttavia esserne la causa, giacché – come si è detto addietro – la categoria di causalità non può applicarsi in Schopenhauer alla volontà, nel Buddha al nibbāna. 

Il metodo ottuplice buddhista e l’ascesi schopenhaueriana non “costruiscono” la liberazione, poiché ciò ne farebbe un che di “co-effettuato” (saṅkhata) – come si direbbe in termini buddhisti – e, come tale, inscritto nel regno dei fenomeni causalmente ordinati, senza poter andare oltre. Le pratiche indicate dal Buddha e da Schopenhauer non per questo sono inutili, in quanto – questa è la loro funzione – permettono di stabilire le “premesse” per il salto oltre la dimensione del condizionato, ma non sono all’origine né del nibbāna né della voluntas che in tal modo si disvelano. Questi, infatti, non “risultano”, ma sono eternamente, indipendentemente dal fatto che vi siano o non vi siano soggetti che li scoprano. Il Visuddhimagga (XVI, 71) è chiaro nell’affermare che il nibbāna non sia l’esito di un processo etico e contemplativo, pur naturalmente importante: esso è una realtà che non è effetto di una serie di cause, seppur virtuose. Allo stesso modo, in Schopenhauer la redenzione passa attraverso una serie di astensioni di crescente durezza che hanno a che fare coi fenomeni, ma il suo sbocco finale ne supera il dominio, anzi lo annulla alla base.

 

In conclusione, malgrado esistano tante e indubbie differenze tra il pensiero del Buddha e quello di Schopenhauer – non è questa la sede opportuna per affrontarle in tutta la loro complessità ed estensione , riteniamo che si possano trovare anche dei punti di contatto; i quali, se non consentono di creare una vera e propria sintesi, date certe irriducibili divergenze, sono quanto meno spunti per interessanti riflessioni comparative, tanto più considerando il fatto che Schopenhauer stesso inscrive deliberatamente nel suo pensiero filosofico elementi di origine buddhista, cogliendone perspicacemente la rilevanza nonostante le poche fonti che al suo tempo erano accessibili ai non specialisti. 

 

9 maggio 2025

 








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