Le etichette ci fanno male

 

Le schematizzazioni sono un’esigenza pratica imprescindibile per la vita pratica di ogni giorno. Ma cosa succede quando vengono applicate anche alle persone?

 

È abbastanza semplice, osservando se stessi e coloro che si hanno attorno, rendersi conto di quanto l’uomo sia un essere abitudinario. Scandire la propria quotidianità con riferimenti stabili ed azioni ripetute, quasi rituali, aiuta a programmare tempi e spazi, a non dimenticarsi nulla e soprattutto ad essere efficienti, esigenza non trascurabile in un tipo di società come quella attuale. Sebbene sia sempre dannoso raggiungere un’eccessiva rigidità , non si possono negare i benefici derivanti da una tale impostazione; basti pensare a quanto sono impregnate di consuetudini  le principali situazioni sociali in cui tutti noi ci troviamo a trascorrere buona parte del nostro tempo. Mezzi pubblici, luoghi di istruzione e lavoro, supermercati, palestre, ristoranti, locali e così via. Ogni ambiente ha un suo codice ed una sua struttura comportamentale e addirittura linguistica. Agli occhi di un neofita della nostra civiltà parrebbe ridicolo vedere persone in fila ad una cassa o in attesa al semaforo, e lo stesso varrebbe per le più banali delle nostre abitudini; comprendendone il senso tuttavia, ne capirebbe l’utilità.

Si potrebbe dire che tutte le consuetudini che generalmente adottiamo tentano in qualche modo di arrestare ed agguantare la realtà: è come se con questi stratagemmi riuscissimo a suddividere la vita, a raggrupparla in certi momenti, a renderla simile a se stessa giorno dopo giorno. D’altronde è molto più facile avere a che fare con ciò che si conosce e si può prevedere. Fa sentire a proprio agio sapere come comportarsi, essere a conoscenza di quello che avverrà, avere delle aspettative e delle sicurezze che rimangono sempre le stesse. Ma è davvero così?

 

Gli schemi, per definizione, sono delle semplificazioni, delle riduzioni che – inevitabilmente – rendono statico ciò che è in continuo movimento, trasformando la molteplicità di forme in una serie di tratti salienti. Spesso questa consapevolezza viene meno, causando in noi un modo artificioso di rapportarci al mondo, in particolare quando si tratta di avere a che fare con altre persone. Sorgono così le etichette, le categorizzazioni sociali, gli schieramenti, i bipolarismi e le suddivisioni tra uomini che ricordano tanto la classica diatriba da film tra “buoni e cattivi”. Non si sta parlando solo di gruppi, ma anche di singoli individui. Nel primo caso infatti, certe distinzioni – come le classi sociali, le appartenenze politiche, le fasce d’età o le preferenze musicali – se pur motivo di stereotipi e facili pregiudizi, rivelano comunque un certo grado di oggettività. Nel secondo caso, invece, l’applicazione di rapide schematizzazioni può essere davvero nociva. Sarà capitato a tutti di essere stati presi in giro o soprannominati in qualche strano modo da adolescenti, o di averlo fatto o visto fare da altri. Purtroppo questo fenomeno non è legato solo ad una certa fase della nostra vita, ma comprende la sua intera estensione: essere etichettati è un’esperienza quotidiana che limita e riduce le persone a qualcosa di molto più semplice e circoscritto: un’idea, o – ancora peggio – un’immagine.

 

In una società fortemente esteriore come la nostra, l’apparenza risulta fondamentale. Il modo in cui ci presentiamo e ci facciamo riconoscere porta gli altri a valutarci di conseguenza, come dei prodotti che devono essere appetibili sul mercato: procedura rapida, comoda, ma totalmente disumana. Non è un caso che categorie sociali e ormai culturali come quella di popolarità e successo siano diventate imprescindibili nel nostro linguaggio. Una persona famosa o influente colpisce molto più di una persona saggia e ricca di umanità, per il semplice motivo che la prima valutazione richiede pochi secondi passati a controllare il numero di followers, mentre la seconda necessita di tempo, conoscenza e relazione concreta.
Oltre a tutta questa superficialità, tale modo di giudicarci provoca in noi forti aspettative, arrivando addirittura a imprigionarci: dover corrispondere ad una certa immagine ci limita, ci priva della nostra spontanea capacità di innovarci e approfondirci, ci crea attorno un alone di commenti, approvazioni e insulti, ci mette di fronte ad un vero e proprio pubblico che virtualmente ci siamo creati. E se i social media vivono di questa struttura, anche la quotidianità sta lentamente iniziando ad appropriarsene, producendo disagio e modi fasulli di valutare sé e gli altri. Per rendersene conto basterebbe osservare come ci comportiamo nei confronti di coloro che conosciamo bene, che amiamo e desideriamo nella nostra vita: queste persone sono per noi impossibili da descrivere con una parola o da ridurre a un’immagine, perché le vediamo cambiare e non abbiamo la violenta pretesa di appiccicar loro un’etichetta.
Ebbene anche tutti gli altri meritano, se non lo stesso tempo, almeno il medesimo rispetto.

 

 9 gennaio 2019

 








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