Di che cosa stiamo parlando?

 

Abbiamo mai provato a soffermarci sul nostro linguaggio? È strabiliante scoprire quanto il modo di esprimerci che quotidianamente usiamo dica di noi e di come vediamo il mondo.

 

di Filippo Lusiani

 

La maggior parte dell’esistenza umana è caratterizzata e composta da ciò che si potrebbe definire normale o abituale. Senza nulla togliere alla bellezza delle novità, delle eccezioni o degli strappi alle regole, quello che ci rende ciò che siamo sono le nostre consuetudini e le nostre pratiche consolidate: si tratta di qualcosa di inevitabile, poiché sarebbe impossibile vivere una vita costellata da incessanti dubbi sopra qualsiasi nostra azione e decisione. Degli esempi – giusto per estremizzare e chiarificare il concetto – potrebbero essere i seguenti: quando un oggetto ci sta per cadere addosso noi ci scansiamo il più velocemente possibile, e non ci mettiamo a riflettere pensosamente sul da farsi; quando incrociamo un amico o un conoscente lo salutiamo al volo, in modo immediato; oppure, se siamo a tavola, prendiamo in mano le posate e mangiamo, di certo non le solleviamo dinanzi allo sguardo per porci quesiti su di esse. Tutti questi comportamenti, se pur immediati e privi di un’apparente ponderazione, non possono essere definiti irrazionali: la loro razionalità sta nell’essere delle azioni adeguate al loro contesto, che si sono ormai condensate in abitudini sensate e scontate praticamente per chiunque. La profonda logica di tutto ciò sta nel fatto che agire velocemente in una serie di situazioni già conosciute ci permette di dedicare tempo ed energie a quelle più complesse e decisive: che dire, sembriamo funzionare a meraviglia! Ma dove sta l’inganno?

 

Purtroppo, per sua natura, ciò che è normale lo è in virtù della sua diffusione tra la maggior parte delle persone, e questa sua peculiarità lo rende facilmente accettabile e difficilmente discutibile. Nasciamo in un mondo ricco di consuetudini, alla maggior parte delle quali veniamo iniziati fin da piccoli e in modo progressivo, cosa che spesso ci toglie la possibilità di interrogarci riguardo la loro bontà. Una di queste è il linguaggio, non solo inteso a livello grammaticale, ma soprattutto per quanto riguarda modi di dire ed espressioni comuni, che spesso nascondono significati dubbi o addirittura contradditori.

 

Si pensi, tanto per cominciare, alla tipica frase fatta da commedia romantica «non seguire la testa, ascolta il tuo cuore!», spesso usata come consiglio in campo sentimentale. Sotto a questa innocua esclamazione si cela un’implicita distinzione tra razionalità e sentimenti, concepiti quasi come due poli contrapposti e coinvolti in un’eterna battaglia, nella quale ognuno sembra chiamato a parteggiare per una delle due fazioni in conflitto. Si tratta però di una convinzione arbitraria e data per scontata: siamo davvero sicuri che la nostra vita sia gestita dallo scontro tra ragione ed emozioni? Davvero l’una esclude le altre? Ogni nostra scelta si gioca su di un confronto dialettico tra varie spinte ed intenzioni, ognuna delle quali è composta da motivazioni più o meno valide, da sensazioni, ricordi, ragionamenti  e tant’altro. Non esisteranno mai momenti in cui non si sarà accompagnati da determinati pensieri e stati d’animo! Provare un dolore non significa non pensare, così come ragionare logicamente non significa non provare nulla. Leggendo il saggio Sulla Violenza di Hannah Arendt  si può notare come l’autrice mostri efficacemente l’erroneità della sopra citata distinzione:

« L’assenza di emozioni non causa né promuove la razionalità. […] Per poter reagire in modo ragionevole si deve prima di tutto essere commossi, e l’opposto di emozionale non è il razionale, ma l’incapacità a lasciarsi commuovere, in genere un fenomeno patologico. »

 

Altro modo di dire assai frequente – e perciò spesso sottovalutato – è «vivi e lascia vivere!», un mantra che invoca il rispetto della vita altrui e della privacy come diritto assoluto. Fin qui tutto nella norma, ma proviamo a ragionare a fondo sul significato di queste parole. Si tratta di un invito a non curarsi dello stile di vita, dei valori, delle abitudini degli altri, almeno finché non ci toccano e danneggiano personalmente.

 

E. Munch, "Sera sul viale Karl Johan" (1892)
E. Munch, "Sera sul viale Karl Johan" (1892)

Qualcuno potrà chiamarla libertà, chi scrive lo chiama individualismo: se la mia libertà finisce dove inizia la tua mi sarà sufficiente far sì che la tua, e magari quella di molti altri, non inizi affatto, in modo da poter fare quello che voglio. La libertà non è privata, non è un affare personale, ma è il processo collettivo e sociale nel quale le persone si riconoscono simili e necessarie l’una alla felicità dell’altra, consapevoli che non esistono azioni prive di conseguenze su chi ci sta intorno, e consapevoli soprattutto che rinunciare all’individualismo non significa rinunciare all’individualità, intesa come la specificità e l’unicità di ognuno di noi.

 

L’ultima convenzione linguistica sospetta che analizzeremo – nonostante ve ne siano molte altre – è quella che si basa sulla consueta distinzione tra naturale e artificiale, inteso cioè come prodotto dell’uomo. Sicuramente a tutti appare scontato l’utilizzo di questi termini, ma si può davvero bollare ciò che è propriamente umano come non-naturale? Sulla scorta di Prima lezione di filosofia morale di Eugenio Lecaldano rispondiamo negativamente:

 

« Come già Mill argomentava chiaramente, la natura può essere intesa in due sensi: “o essa denota l’intero delle cose con l’aggregato di tutte le loro proprietà, oppure denota le cose come sarebbero rescindendo dall’intervento umano”. In entrambi i sensi è impossibile indicare nella natura un modello di ciò che è accettabile e che andrebbe contrapposto a ciò che è negativo in quanto artificiale. Infatti, nel secondo senso, la natura includerebbe condizioni per noi inaccettabili, come la diffusione, senza contrasto, di malattie, fame, povertà e altre calamità. Nel primo senso poi la natura non potrebbe che includere in sé le stesse pratiche artificiali che vengono in realtà rese possibili solo da condotte che applicano le leggi fisiche con le quali viviamo. Chi fa appello alla natura o a ciò che sarebbe naturale come criterio risolutivo, in realtà non dice niente e prende in giro l’uditorio perché – messo alle strette – non riuscirebbe a fornire nessuna regola precisa. »

 

Molto di ciò che diciamo quotidianamente nasconde contraddizioni, o almeno concetti poco chiarificati, e racconta – in ultima istanza – la nostra pigrizia nel mettere alla prova ciò in cui crediamo.

 

27 novembre 2017

 




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