Il sogno di Marcuse e l'ombra di Huxley

 

Il filosofo berlinese è tra i pensatori che più di tutti hanno riflettuto sulla possibilità di un mondo libero dal lavoro. Possibilità che, però, non tutti hanno considerato utopica.

 

di Pasquale Noschese

 

Pieter Bruegel, "Il paese della Cuccagna", 1587
Pieter Bruegel, "Il paese della Cuccagna", 1587

 

La nascita dell’età industriale ha dato un significato del tutto nuovo all’immaginazione umana. Quando il pensiero dell’uomo contemporaneo si rivolge alle fantasie più particolari, quando modella i più diversi e suggestivi mondi possibili, nel qui ed ora della chiacchiera o nell’impresa della produzione letteraria, egli si pone, quasi inconsciamente, la domanda “sarebbe possibile?”. Inutile ricordare come la storia ci ha dimostrato che ciò che inizialmente sembra solo il frutto della penna di qualche scrittore particolarmente inventivo può trasformarsi in profezia nel giro di pochi decenni (si pensi, tra tutti, a Verne). Immaginando però i cambiamenti della tecnica o della politica, la narrativa si è spesso rivelata incapace ad immaginare i cambiamenti dell’uomo. In un intervento al festival della comunicazione del 2018, lo storico Alessandro Barbero riportò il racconto di un “parto nel 2000” scritto nel 1948 da Ray Bradbury. Il grande autore americano aveva dimostrato grande fiducia in un cambiamento radicale della gestione tecnica di un momento così importante: così, a portare la donna incinta in ospedale è un elicottero personale, ed in sala parti c’è una macchina che si occupa di tutto. Tuttavia, fa notare Barbero, Bradbury non riesce ad immaginare che il padre possa essere presente in sala parto, né che possa essere proibito fumare nei luoghi pubblici. I mutamenti antropologici sono ben difficili da prevedere, anche perché, a loro volta, non possono essere scissi dai mutamenti tecnici. È proprio la tecnica a determinare molti dei mutamenti antropologici, in una misura difficilmente immaginabile per i nostri antenati, anche prossimi, e difficilmente stimabili da noi stessi. 

 

Una prospettiva immaginaria classica che ha assunto un significato del tutto nuovo nell’età industriale è quella di una società libera dal lavoro. Per quanto è facile che una tale prospettiva evochi nella mente dell’uomo contemporaneo idee relativamente recenti, o comunque moderne, non dobbiamo dimenticare che questa prospettiva appartiene all’immaginario collettivo del genere umano sin dall’alba dei tempi. Nelle Opere e i Giorni, Esiodo racconta di un tempo in cui gli uomini vivevano liberi da ogni angoscia, tanto che il poeta paragona la loro vita a quella delle divinità. Nella Bibbia, il lavoro non è condizione originaria dell’uomo, ma nasce come punizione per il peccato originale. Non si tratta nemmeno, tuttavia, di un mito necessariamente legato a quello di un’età dell’oro ineluttabilmente perduta, collocata in un passato mitico e remoto. Ritroviamo il mito della società libera dal lavoro in leggende moderne come quella del Paese di Cuccagna, “immortalato” da un dipinto di Bruegel il Vecchio, o nelle speculazioni filosofiche di Tommaso Moro, il quale, seppur non eliminando il lavoro, ne prospetta, nella sua Utopia, una gestione razionale finalizzata a concedere agli uomini il tempo di dedicarsi ad altro. Si tratta, d’altronde, di un mito abbastanza intuitivo, ricorrente perché essenziale all’uomo nella misura in cui questi esperisce sempre il piacere e la sua negazione, o quantomeno la sua posticipazione.        

 

Rappresentazione della "Nuova Atlantide" immaginata da Bacone
Rappresentazione della "Nuova Atlantide" immaginata da Bacone

 

Come detto, l’immaginazione e i suoi prodotti hanno assunto un significato completamente diverso con il sorgere dell’età industriale, ed il mito cui facciamo riferimento non fa eccezione. Il progresso tecnico e scientifico viene interpretato già da Bacone (Nuova Atlantide) e Cartesio (Discorso sul Metodo) come strumento e avanguardia della realizzazione del pieno dominio dell’Uomo sul Mondo, e dunque per la nascita di un’età dell’oro. Si tratta, in questa declinazione, di fornire, per mezzo del mito, una nuova interpretazione del progresso tecnico, non più lasciato alla propria riproduzione nichilistica, priva di scopo e indifferente al valore, ma proiettato finalisticamente verso un mutamento epocale, che non può che essere anche un cambiamento antropologico universale. È un’interpretazione nota e diffusa lungo tutta la tarda modernità, tanto da essere individuabile, seppur in termini differenti, in autori molto diversi come Marx e Keynes. A questo punto è già possibile notare, non senza un certo rammarico, che questa prospettiva, questa fonte di senso per uno dei più grandi fenomeni della storia, è andata ormai quasi completamente dissolta, lasciando una larva di se stessa, al punto che immagini di liberazione dal bisogno destano più timori per eventuali risvolti occupazionali che entusiasmi per ciò che l’umanità sarebbe in grado di realizzare. Non che gli effetti collaterali indicati non siano importanti, però è difficile non sospettare che il timore che suscitano nelle classi dirigenti sia alimentato, almeno in egual misura, dalla volontà di rimanere attaccati ai modelli tradizionali di prestazione sociale. 

 

Tuttavia, al netto di divagazioni, vi sono stati pensatori che si sono interrogati sulle possibilità antropologiche che un mondo libero (o quasi) dal lavoro apre. Uno di questi, e probabilmente uno dei più acuti, è Herbert Marcuse. Nel suo testo Eros e Civiltà, il filosofo tedesco si confronta con il pensiero di Sigmund Freud. Ne Il disagio della civiltà, Freud argomentava che gli istinti umani, lasciati a se stessi, renderebbero impossibile l’edificazione della società. Perché vi sia una società, è necessario che l’individuo rinunci alla soddisfazione integrale dei propri istinti. Questa incompatibilità di fondo è il tema che sottende la repressione, sempre in qualche misura traumatica, del “principio di piacere” a favore del “principio di realtà”. La repressione riguarda, certo, alcuni aspetti “di maniera”, relativi al modo in cui il soggetto soddisfa i propri istinti (ad esempio posponendone la soddisfazione), ma anche sostanziali: l’energia istintuale è sublimata, direzionata verso attività socialmente utili (il lavoro). In questo modo l’istinto, che sembrerebbe essere la cifra irriducibile dell’individualità, viene riorganizzato socialmente. È un processo efficace, che non solo difende la civiltà ma le permette di prosperare, e tuttavia non risolve tutte le contraddizioni. Il “ritorno del represso” resta un fantasma ineliminabile, che perturba l’animo dell’uomo civilizzato e che è il fondamento psicoanalitico di quello che Freud chiama “il disagio della civiltà”.            La riflessione freudiana è un lascito importante, con cui è necessario confrontarsi. Da un certo punto di vista, Freud ha il coraggio di agire da vero maestro del sospetto, cercando e trovando, in un’Europa ancora largamente ottimista e comunitarista, i germi della repressione e del disagio. Dall’altro lato, Freud finisce col naturalizzare il disagio, col renderlo un insopprimibile effetto di un processo inarrestabile e inalterabile. Come “primo motore immobile” dell’intero fenomeno, come postulato ovvio e tuttavia irrinunciabile per il sistema freudiano, il padre della psicanalisi aveva posto la penuria, ossia il dato, posto come perenne e immodificabile, della scarsità di risorse a disposizione. 

 

Herbert Marcuse
Herbert Marcuse

 

Marcuse si innesta, tutto sommato, sul medesimo piano della speculazione di Freud. Tuttavia, da grande filosofo, ne mette in discussione alcuni principi cardine, giungendo a risultati molto diversi. Innanzitutto, Marcuse non accetta l’inconfessato presupposto che la società sia un insieme indifferenziato, un gruppo omogeneo che si sviluppa seguendo soltanto delle leggi “naturali” della società. Il filosofo berlinese ricorda e mette in chiaro come la società sia sempre determinata da forme di dominio, che si esprimono innanzitutto e soprattutto nell’organizzazione dell’attività della massa dei subalterni. L’attività, il lavoro che abbiamo visto nascere, con Freud, dalla sublimazione, quel lavoro che ha la stessa radice psichica del piacere, non è mera attività neutra, tecnica, vuota: essa è necessaria al sostentamento e alla riproduzione della società con le sue strutture di dominio. Così come non tutta l’attività è “naturale”, ossia legata solo alle necessità del singolo, non tutta la repressione è naturale. Marcuse introduce quindi il concetto di “repressione addizionale” ossia quella quantità di rinuncia ai propri desideri che l’uomo deve accettare e che tuttavia non è strettamente legata alla pura sopravvivenza della società. Parallelamente e tuttavia non disgiuntamente, Marcuse critica il precetto freudiano della penuria, non solo notando come il rapporto tradizionale tra l’uomo e la disponibilità di risorse sia diverso in un’era tecnica, per cui è storicamente necessario superare i precetti freudiani, ma anche evidenziando come la distribuzione delle risorse disponibili non è mai “naturale”, ma è sempre inquinata dagli squilibri e dalle disuguaglianze interne alla società. Rideterminando i presupposti del discorso, Marcuse giunge alla conclusione che, grazie allo sviluppo tecnico, la repressione naturale ha finito col rappresentare una parte minima della repressione se comparata con quella addizionale, la quale aumenta insieme con le effettive capacità liberative generate dalla tecnica. In soldoni, le capacità produttive rendono il mito della penuria sempre meno credibile, svelando come gran parte della repressione, della rinuncia, è necessaria solo per gli scopi di chi ha interesse affinché la civiltà continui a riprodursi sempre uguale a se stessa, senza mai toccare i propri schemi. Marcuse non si limita a mostrare la non-naturalità e la non-ineluttabilità della repressione, ma evidenzia come le nuove capacità della tecnica, messe ad eguale disposizione di tutti (e dunque superando la distribuzione ineguale della penuria) siano potenzialmente in grado, eliminando progressivamente il bisogno e il lavoro, di risolvere il disagio della civiltà.

 

Il discorso di Marcuse resta, al contrario dell’esempio di Bradbury, un discorso antropologico, che ruota intorno agli effetti che la fine del principio di prestazione potrebbe determinare. Il principio di prestazione è la forma attuale del principio di realtà, fondato sull’idea di prestazione economica, quantificabile e utilitaristica, come base di qualsiasi rapporto sociale; denunciando la sua non-naturalità, Marcuse indica come non-naturale il principio di tutti i rapporti sociali, e dunque ne può immaginare la sostituzione. Ebbene, per Marcuse il cambiamento consiste nella riappropriazione dell’Eros, del principio di piacere, che è diretta conseguenza della fine della repressione addizionale, ormai sproporzionatamente grande. La fine del disagio della civiltà conduce alla fine della conflittualità che mina i rapporti tra gli uomini: non più convogliata in attività impersonali, l’energia istintuale non è più obbligata ad incanalarsi in tipologie di rapporti che generano conflitto e insoddisfazione, proprio perché tale insoddisfazione, tale conflitto non sono naturali e inevitabili. Sarebbe troppo lungo e complesso addentrarsi nelle argomentazioni, legate perlopiù alla psicanalisi, che Marcuse riporta nel suo testo. Basti ricordare che il nocciolo del discorso è che la questione della libertà dal lavoro non è una questione tra le altre, ma è la questione in grado di risolvere alla radice il disagio che tormenta la civiltà e che va oltre le contraddizioni da cui è generato, pervadendo l’intera esistenza umana. 

 

Ray Bradbury (a sinistra) col produttore cinematografico Ray Harryhausen
Ray Bradbury (a sinistra) col produttore cinematografico Ray Harryhausen

 

Non lasceremo però il lettore con una certezza, bensì con una domanda. A porla è lo scrittore britannico Aldous Huxley, autore del romanzo distopico Brave new world. Nel romanzo, Huxley immagina una società contraddistinta da uno sviluppo tecnico inimmaginabile, con il mondo diviso in macro-stati governati in armonia da dieci Governatori mondiali. In questa sede non è importante spiegare la complicata trama del libro, quanto piuttosto raccontarne un episodio interessante. Uno dei personaggi principali è un “selvaggio”, un individuo esterno alla civiltà avanzata, che ha vissuto tutta la vita in una riserva naturale pensata appositamente per comunità tribali. Una volta a contatto con la progredita civiltà immaginata da Huxley, rimane stupito dalle sue potenzialità tecniche; avendo l’occasione di parlare con un governatore, esprime la propria perplessità a proposito della permanenza del lavoro, a volte anche in forme apparentemente alienanti, in una società così progredita. Interessantissima è la risposta del governatore: «naturalmente noi potremmo concedere loro qualche ora in meno. […] Ma sarebbero più felici per questo? No, non lo sarebbero. L’esperimento è stato tentato più di centocinquant’anni fa. Tutta l’Irlanda fu messa alla giornata di quattro ore. Quale fu il risultato? Agitazione e un largo incremento del consumo di soma [una droga immaginata da Huxley]: ecco tutto. […] L’Ufficio invenzioni è pieno di progetti per risparmiare la mano d’opera. Ce n’è migliaia. […] E perché non li mettiamo in esecuzione? Per il bene dei lavoratori; sarebbe pura crudeltà infliggere loro un riposo eccessivo». E ancora «La felicità è un padrone esigente, specialmente la felicità degli altri […] Io m’interesso alla verità, io amo la scienza. Ma la verità è una minaccia, la scienza è un pericolo pubblico».                     

 

Huxley è uno scrittore, non un filosofo. Eppure qui, con una rapidità e in una forma che forse solo la letteratura può offrire, instilla un ulteriore dubbio in merito al mito della libertà dal lavoro. Non se è o meno possibile: è desiderabile? Gli uomini sarebbero in grado di vivere felicemente senza quell’incanalamento, senza quella costrizione di energie istintuali che Marcuse denuncia come innaturale? Anche e soprattutto tenendo in considerazione la cultura consumistica propria dell’uomo della tecnica, questo stesso uomo non vivrebbe forse la libertà dal lavoro, garantita dalla stessa tecnica, come una condanna, come la causa di ulteriori mali? Possiamo essere sicuri che all’ordine, per quanto repressivo, della civiltà, si contrapponga un ordine differente (Marcuse), o invece all’altra estremità troviamo solo il disordine, il caos? È nella libertà dal lavoro che si nasconde la chiave per dissolvere il disagio della civiltà, o tale libertà genererebbe un enorme disagio? Ad ognuno l’ardua sentenza.

 

 

15 dicembre 2020

 




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