Il rischio di non rischiare

 

Rischiare è rischioso. Non farlo, forse, lo è ancora di più.

 

di Nicolò Gasparetto

 

 

Stati Uniti, prime torride serate di giugno. NBA finals. Gara 7.

 

Manca solo una manciata di secondi alla sirena del quarto periodo, la quale sancirà il vincitore del campionato più atteso dell’anno. Il coach ha appena utilizzato l’ultimo time-out tecnico per far rifiatare i rimbalzisti e, soprattutto, per gestire la tensione. La franchigia si trova in svantaggio di due punti: si opta, ovviamente, per una soluzione dal perimetro.

 

Tu sei il playmaker: riceverai inevitabilmente quel pallone dalla rimessa. Dopo una prestazione di assoluto livello, sei in perfetta condizione fisica e psicologica ma, allo stesso tempo, sei al corrente della delicatissima situazione. Hai due possibilità: aspettare l’uscita dai blocchi della guardia tiratrice e affidare il destino ai tuoi compagni – schema analizzato nei minimi dettagli in settimana  oppure tentare una soluzione individuale, magari un cross-over con annessa preghiera, consapevole di ciò che potrebbe accadere (o non accadere) alla tua carriera. Il cronometro scorre, non curante dei tuoi sacrifici per vivere momenti come questo, senza lasciarti nemmeno un secondo in più per incrociare con lo sguardo chi si trova negli spalti e ti ha sempre sostenuto.

 

SI TRATTA SOLO DI SCEGLIERE

 

Nessuna delle due strade percorribili è sicura. Possono essere efficienti entrambe, ma solo l’effetto ricevuto dal rilascio del pallone potrà giustificarne i mezzi. Ci troviamo davanti, come in molte altre situazioni, due piste ben diverse: la prima, (almeno apparentemente), più razionale (da intendere come quella più “studiata” e, in altri casi, anche più “conservativa”); l’altra, invece, più originale, letteralmente fuori dagli schemi, sregolata perché evidentemente priva di garanzie, molto più brillante ma non per questo più efficiente. Va evidenziato, comunque, che nemmeno la prima soluzione, più canonica, la quale mette da parte le sensazioni positive del match per seguire le istruzioni accettate consensualmente dai commissari tecnici in precedenza è obbligatoria, ma contiene, nella sua modalità, una responsabilità collettiva: è stata scelta dal coach insieme allo staff tecnico ed eseguita da più giocatori nello stesso momento. Tuttavia, optare per la “responsabilità collettiva”, non ti solleva da qualsiasi colpa in caso di insuccesso. Dagli spalti e davanti ai maxischermi televisivi delle grandi piazze statunitensi sono molti coloro che si aspettano una giocata da fuoriclasse, e avrebbero da ridire se non avessi il coraggio di concludere con una prodezza quello che finora è stato un evidente one man show. Sono gli stessi, appunto, che criticherebbero il tuo perfido e folle egoismo se gettassi via, con un tiro sbagliato, mesi e mesi di preparazione per momenti come questi. Non si tratta di coraggio o ignavia, non ci si può astenere dalla scelta: decidere è rischiare, in un modo o nell’altro. A questo punto, una domanda sorge spontanea: «Perché continuare ad analizzare il caso? Perché porsi il problema?», si potrebbe banalmente ed erroneamente aggiungere: «Una persona emotiva ed “irrazionale” tenterebbe la giocata epica (opzione 2), un soggetto più coscienzioso rispetterebbe lo schema».

Queste riflessioni apparentemente contraddittorie dimostrano che non sempre la scelta considerata dall’esterno come la più inaspettata è sinonimo di un tasso di rischio superiore. La decisione, dunque, dipende dal modo in cui si analizzano le sensazioni precedenti: è necessario essersi svegliati il mattino stesso con la “mano calda” per rompere gli accordi fra te e i rimbalzisti?

 

Il rischio, in realtà, è un comportamento naturale che accettiamo implicitamente nel momento in cui nasciamo, viste le condizioni inospitali del nostro pianeta. Anche le più semplici decisioni e le azioni apparentemente meno complesse, in realtà, riservano al loro interno una certa dose di incertezza, più o meno grande. Nonostante sia naturale, appunto, l’incertezza rappresenta per l’uomo un ostacolo nel raggiungimento di un qualsiasi obiettivo: proprio per questo dedichiamo molto tempo a tentare di annientare o quantomeno diminuire il pericolo (spesso inutilmente). Ed è proprio questo continuo tentativo di eliminare il rischio dalla nostra vita quotidiana che spesso ci rende più inclini a soluzioni apparentemente meno azzardate, mantenendo noi stessi all’interno della nostra ignava zona di comfort, soluzione che ci impedisce di allargare i nostri orizzonti verso l’ignoto che, vista la costante ricerca della via più accessibile (coincidente, a volte, anche con quella più acclamata dalle masse) rimane nel nostro immaginario una barriera invalicabile, come se tutto ciò che a noi è sconosciuto non rappresenti semplicemente un pericolo, ma una vera e propria sconfitta. Preferiamo soccombere per i postumi tormenti piuttosto che azzardare una decisione e proseguire privi del rimorso di non aver creduto in noi stessi. Ci svalutiamo ancor prima di trovarci davanti al bivio della verità, il quale dimostra quanto in realtà siamo pronti ad azzardare una giocata piuttosto di accomodarci su una pista già sondata altre migliaia di volte. Ci risulta più facile fare finta di non possedere certe qualità in modo da non aver dubbi nel momento in cui la vita ci impone inevitabilmente di fare una scelta. Non cogliamo l’attimo col giusto piglio, consci del fatto che spesso il treno passa una sola volta, soprattutto per scelte di un certo calibro.

 

Ma, in realtà, quella che potrebbe essere considerata la via più facile da percorrere, risulta spesso più insidiosa del previsto. In questo caso non si tratta del timore di aver speso così tanto per un obiettivo altrettanto difficile da raggiungere, ma di rimorso e frustrazione per non aver avuto il coraggio di tentare, rimproverando noi stessi o chi per noi abbia preferito sviare il tutto con un’ignava decisione. Sono state maggiori le energie spese per svalutare le nostre potenzialità che quelle per mettersi in gioco, forse intimoriti dal giudizio della massa, anch’essa coi suoi elementi pronti a giustificare la propria misera condizione sociale piuttosto che rischiare di venirne sopraffatti, nel tentativo di affermarsi e di realizzare un obiettivo. Non si tratta solo di aver coraggio di uscire dall’ordinario, ma anche di essere consapevoli dei propri mezzi, anche se spesso, appunto, queste due parti di noi stessi sono strettamente collegate. La consapevolezza delle proprie abilità, quando non vengono messe da parte per timore che non siano utili od efficaci, ci aiuta a scrollare di dosso tensioni e soprattutto insicurezze.

 

Nella nostra storia sono stati molti coloro che non hanno preferito la strada conservativa, mettendo spesso a repentaglio la loro vita, a volte in nome della giustizia, altre per salvare quella altrui. Alcune storie ci dimostrano, inoltre, che non sempre esiste un preciso confine con il quale terminano le proprie responsabilità ed iniziano quelle altrui, ma se mettiamo da parte l’insicurezza e cerchiamo di abbattere gli ostacoli imposti dall’ignoto, con intraprendenza, ognuno potrebbe fare molto di più di quello che “gli spetta”.

 

Continui a ripetere dentro te stesso che sei arrivato fin qui proprio per vivere momenti come questi. Sai di non dover temere di prendere una decisione azzardata, perché il vero azzardo è non azzardare, e qui nessuno può farlo se non tu stesso. Il coach ha speso poche parole, solo qualche frase di circostanza, quasi a voler dire che rimarrà con voi fino alla fine, nel bene e nel male. I compagni incrociano il tuo sguardo perso tra le linee del parquet, mentre da casa nessuno stacca gli occhi dal televisore, tutti convinti che nessuno attorno a loro vorrebbe essere al posto tuo, se non qualche finto coraggioso non al corrente della posta in palio. Il coach ricorda, per l’ennesima volta, a bloccanti e guardia tiratrice la disposizione nel caso in cui tu voglia procedere col passaggio immediato.

 

Allo scadere del time-out, l’urlo tra compagni ed il richiamo dell’arbitro. Lo vivi come le ultime campane per un condannato a morte, consapevole di essere arrivato alla resa dei conti. Qualcuno dagli spalti chiama la grande prodezza. Ti allacci entrambe le scarpe per la seconda volta, nello stesso giro di orologio, per altro già ben legate. Quasi a tentare di guadagnare tempo su un destino che è giunto agli sgoccioli. Ti alzi per ultimo dalla panchina, ma questa volta non lo fai per prenderti una standing ovation dai tifosi: non ci sarebbe cosa più inutile. L’allenatore, che fino a questo momento non ti aveva interpellato, non ha gli stessi occhi che aveva ieri sera durante la rifinitura, ma nemmeno quelli che aveva durante la cerimonia per la consegna del tuo primo MVP qualche mese fa. Sa tutto quanto, per questo non ti dice nulla. Da una parte ti guarda come un padre, dall’altra vorrebbe entrare in campo al posto tuo. Si concede una calorosa pacca sulla spalla, ti guarda mentre ti dirigi verso la metà campo avversaria, quasi a dirti: «Se te la senti, fallo». Non ci sarebbe frase più inutile. Sono i secondi più lunghi della tua carriera mentre ripensi alla prodezza di Damian Lillard della scorsa stagione, per non evocare ricordi ancora più belli, magari visti col papà in diretta alla televisione. L’arbitro fischia ed il tempo inizia a decimare secondi, te ne rimangono solo nove quando inizi a palleggiare solo davanti al difensore. Finti un’entrata che non hai il coraggio di fare, il tuo avversario sa che non potresti permetterti di lasciare qualche spiraglio di speranza dopo il tiro: per questo ti aspetta al varco. Nessun segnale al pivot, che va quindi a posizionarsi in attesa del tiro per prendere, se ce necessario, un disperato rimbalzo. Non chiami lo schema, 4 secondi. Ora l’entrata però la finti per davvero, il tuo difensore non chiede il raddoppio e quindi ancora un cambio di direzione, 2 secondi. Il difensore perde il passo mentre interrompi l’entrata proprio sul perimetro: era ciò che volevi. Ora, invece, c’è la parte più facile: segnare dai 7 metri. La palla potrà entrare od uscire, forse verrai pesantemente criticato, ma non subentrerà mai il rimorso di non aver creduto in te stesso.

 

19 ottobre 2020

 







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