Bruno Bettelheim, la fiaba e l'inconscio personale

 

La fiaba, come da nota interpretazione psicanalitica, “comunica” a due livelli: alla coscienza, secondo un messaggio distinto, che il bambino possa rielaborare, e all’inconscio, secondo una terminologia simbolico-emozionale che non capisce, ma che “sente” come sua, come indispensabile alla sua personalità.

Che le fiabe odierne fatichino a trattare con proprietà il problema del male, e, più in generale, ad affrontare la totalità psichica, è osservazione già avanzata da Bruno Bettelheim nel 1976, all’interno del suo noto saggio intitolato Il mondo incantato: uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe. Compito delle fiabe è creare un terreno armonico, coerente, completo, su cui l’adulto possa poi edificare la sua maestosa città, ricalcata da una brillante e articolata mappa entro cui i significati che individua come scopo della sua esistenza possano esprimersi a pieno titolo. La fiaba, come da nota interpretazione psicanalitica, “comunica” a due livelli: alla coscienza, secondo un messaggio distinto, che il bambino possa rielaborare, e all’inconscio, secondo una terminologia simbolico-emozionale che non capisce, ma che “sente” come sua, come indispensabile alla sua personalità. Che il bimbo chieda ripetutamente una fiaba che pur conosce a memoria ha questo fine preciso.

 

« In considerazione di ciò sono divenuto profondamente insoddisfatto di gran parte della letteratura intesa a sviluppare la mente e la personalità del bambino, perché essa manca di stimolare e di alimentare quelle risorse di cui ha maggiormente bisogno per affrontare i suoi difficili problemi interiori. […] La fiaba deve toccare contemporaneamente tutti gli aspetti della […] personalità, e questo senza mai sminuire la gravità delle difficoltà che affliggono il bambino, anzi prendendone pienamente atto, e nel contempo deve promuovere la sua fiducia in se stesso e nel suo futuro. »  

 

Una mancata “sintesi” dei fattori inconsci, come quelli consci, sempre presenti nell’essere umano, porta a uno squilibrio che investe bruscamente anche le intenzioni e la riuscita degli obiettivi che, da adulto, ciascuno di noi innalza a proprio senso di vita. Perciò le fiabe sono tanto importanti per la personalità, a tal punto che sminuire la loro valenza con espressioni del tipo: “sono solo fiabe” non fa che contribuire a ridicolizzare ciò che invece è indispensabile. 

 

Il problema del male è, appunto, uno dei grandi tabù della nostra epoca. Si pensa che il bimbo debba essere messo di fronte a un mondo fantastico, privo di contrasto, fingendo che «il lato oscuro dell’uomo non esista», patrocinando una melensa e irrisoria «filosofia del miglioramento». Senza tener conto del fatto per cui ogni agognato miglioramento si dia precisamente attraverso una personalità completa, che non nasconda a sé, né reprima, alcun fattore poco piacevole, per il solo fatto che che così vuole il costume. Sono numerose le indagini dei grandi psicologi e psicanalisti sulle conseguenze di simili mancanze. Si pensi, per esempio, alle ricerche di Le Bon sulla società di massa, implementate e arricchite delle scoperte di Jung, che nel suo saggio Passato e presente (1957), non facendo sconti all’epoca odierna, illumina l’aspro contrasto tra intenzione e “sottosuolo” inconscio abitato dall’uomo moderno; contrasto che, da ultimo, regala gli spettacoli grotteschi a cui il Novecento ha assistito. 

 

Insomma, nella fiaba c’è bisogno che il bambino affronti assieme al protagonista le dure prove che consegnano poi un esito felice. Esprimono, indicano, suggeriscono un’educazione emozionale che non è presente nella letteratura dell’infanzia che ha in vista l’obiettivo di “istruire” secondo i termini moralistici della società. Riconoscere alcune emozioni è «motivo di disagio per il genitore», il quale, sbagliando, tenta di rimuovere quello che non conosce e che tuttavia si rivela vitale per affrontare, sviluppare, “sistematizzare” sentimenti di fiducia, ansia, panico, amore che verranno esprimendosi in età più tarda. Tanto per dire, la conclusione «“E vissero felici e contenti per sempre” non fa credere per un solo istante al bambino che la vita eterna sia possibile» – questa lettura “intellettuale” non risponde al reale riverbero sentimentale che suscita. Sta piuttosto a indicare, secondo Bettelheim, «la formazione di un legame veramente soddisfacente con un’altra persona», ciò che contribuisce anzitutto alla «sicurezza emotiva» e che quindi rende superfluo «desiderare la vita eterna». Le fiabe aiutano altresì a “scavalcare” le fasi della vita, sollecitando notevolmente i distacchi che debbono essere compiuti e a trovare la propria via. 

 

Due episodi testimoniano quanto affermato. Una ragazza fu molto aiutata dalla lettura di Hänsel e Gretel, dal momento che «la storia diceva al suo subconscio che affidarsi alla guida di Hänsel la portava indietro, non avanti, ed era significativo anche il fatto che, benché Hänsel fosse il capo all’inizio della storia, alla fine fu Gretel a conquistare la libertà e l’indipendenza per entrambi. […] Da adulta, la donna comprese che la fiaba l’aveva aiutata molto a liberarsi dalla dipendenza da suo fratello». Un bambino di cinque anni, d’altro canto, fu, contro ogni aspettativa, estimatore appassionato di Rapunzel

 

« Quando seppe che sua nonna, che accudiva a lui per la maggior parte della giornata, avrebbe dovuto andare all’ospedale perché gravemente ammalata – sua madre lavorava tutto il giorno, e nella famiglia non c’era un padre – chiese che gli fosse letta la storia di Rapunzel. In quel momento critico della sua vita, due elementi della storia erano importanti per lui. In primo luogo, c’era la sicurezza da tutti i pericoli garantita alla bambina [Rapunzel] dal sostituto materno: un’idea che a quel tempo esercitava una forte attrazione sul piccolo. […]  E ancora più importante per il ragazzo era un altro motivo essenziale della storia: il fatto che Rapunzel trovò i mezzi per sfuggire alla propria difficile situazione nel proprio corpo, ovvero con le trecce che il principe usò per arrampicarsi fino alla sua stanza nella torre. Che il proprio corpo possa fornire a una persona il sistema di salvarsi lo rassicurò con l’idea che anche lui, in caso di necessità, avrebbe trovato nel suo corpo la fonte della sua sicurezza. »

 

Non c’è dunque alcun bisogno di forzare i bambini a specifici motivi moraleggianti, giacché se un individuo non si interessa a una fiaba ciò avviene perché essa non stimola le sue corde consce e inconsce, le emozioni che deve attraversare e riconoscere in quel frangente della sua esistenza. Nelle fiabe il bambino «si sente compreso e apprezzato fin nel profondo dei suoi sentimenti, speranze e ansie, senza che essi debbano essere trascinati alla superficie», e infatti «egli non sa come abbiano fatto queste storie a operare in lui la loro magia». Che simile “magia” avvenga, parimodo, anche in età adulta è quanto però appartiene... a un’altra storia

 

17 gennaio 2022

 








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