Le interpretazioni della verità

 

La filosofia, in tempi recenti, sembra aver abbandonato la ricerca della verità. Ciò è accaduto perché non pochi filosofi hanno incominciato a pensare che la verità non esista e, se anche volessimo ammetterne l’esistenza, non sarebbe accessibile all’essere umano. La corrente filosofica oggi di maggior successo è il postmodernismo, ossia, l’idea introdotta da filosofi come il francese Lyotard, secondo cui non vi sono verità, ma solo una vastità d’interpretazioni che vanno a costituire delle grandi metanarrazioni. Nonostante questa posizione filosofica, viene da domandarsi se l’interpretazione non sia proprio lo strumento con cui l’essere umano può accedere alla verità. Nel seguente articolo cercheremo di approfondire il rapporto tra la verità e l’interpretazione.

 

 

Nella sua opera più nota, Verità e metodo (1960), il filosofo tedesco Hans Georg Gadamer ha sostenuto che l’essere umano sia fondamentalmente un interprete della realtà. Ciò che l’uomo cerca di fare, per comprendere se stesso e il mondo che lo circonda, è interpretare. L’intuizione di Gadamer ha dato vita alla corrente filosofica nota con il nome di ermeneutica.

 

La filosofia, si potrebbe dire, è stata sin dai suoi albori un tentativo d’interpretare il mistero dell’essere. In un certo senso, anche la scienza è interpretazione della realtà. Tuttavia, essa è giunta a un punto di precisione e di rigore metodologico ed esplicativo tale da rendere le sue interpretazioni delle vere e proprie spiegazioni della realtà e le verità a cui essa riesce a giungere, grazie all’esperimento e alla dimostrazione, sono definibili come vere e proprie esattezze. Nonostante ciò, è evidente che l’essere umano non possa conoscere tutto. L’Universo è estremamente vasto e non è detto che tutto ciò che esiste sia compatibile con la nostra mente e con le nostre forme pure a priori di kantiana memoria. Ed è a questo punto che entra in gioco l’interpretazione e la filosofia, come afferma Nicola Cusano:

 

« La quiddità delle cose, che è la verità degli enti, è inattingibile nella sua purezza ed è cercata da tutti i filosofi, ma da nessuno trovata così com’è. E quanto più profondamente saremo dotti di questa ignoranza, tanto più ci avvicineremo alla verità » (La dotta ignoranza).

 

Ciò che non è conoscibile mediante l’esperienza empirica può diventare accessibile mediante l’interpretazione e la speculazione filosofica: “chi siamo?”, “da dove veniamo”, “dove andiamo?”, “perché l’essere e non piuttosto il nulla?”. Ecco dunque la filosofia, la quale, non rinuncia alla ragione ma, al contrario, utilizza un nuovo metodo, un metodo che non è scientifico ma ermeneutico. 

 

I postmoderni, in virtù della pluralità d’interpretazioni, sono stati portati a pensare che non esistesse nessuna verità e che vi fossero soltanto interpretazioni. Tuttavia, questa posizione presenta due punti deboli: innanzitutto, se non esiste alcuna verità, che cosa interpretano le interpretazioni? In secondo luogo, l’idea che esistano solo interpretazioni è un’idea che nega se stessa: se “esistono solo interpretazioni” è un assoluto, allora, esiste una verità che sfugge dalle interpretazioni. Se, invece, non è un assoluto, si cade in contraddizione

 

Nicola Cusano (1401-1464)
Nicola Cusano (1401-1464)

Una verità deve esistere per garantire la possibilità delle interpretazioni; se non c’è una verità o una realtà, allora, neppure le interpretazioni possono esservi, in quanto, non vi sarebbe nulla da interpretare. La verità, dunque, è accessibile attraverso l’ermeneutica; attraverso un’interpretazione; un tentativo di addentrarsi negli arcani inaccessibili della realtà e dell’essere e cercare di comprendere il mistero. 

 

Il filosofo che meglio ha sintetizzato il rapporto tra la verità e l’interpretazione è stato l’italiano Luigi Pareyson, il quale così afferma: 

 

« La verità risiede nella sua formulazione non come oggetto d’una sia pure ideale enunciazione completa, ma come stimolo di una rivelazione interminabile; e se è vero che non c’è interpretazione là dove non esiste un non detto, non è men vero che il non detto proprio nell’interpretazione non è un residuo sottinteso che si possa facilmente enunciare, bensì un implicito che alimenta un discorso continuo e senza fine » (Verità e interpretazione).

 

La filosofia non è mai giunta ad un punto conclusivo, proprio perché la verità è qualcosa d’inesauribile e vi sono sempre una molteplicità di significati da esplicitare e da ritrovare. Sempre Pareyson afferma:

 

« Non ha senso né l’unicità né la definitività dell’interpretazione: posta l’interpretabilità viene con ciò stesso posta la possibilità di infinite interpretazioni e d’un infinito processo d’interpretazione […]» (Estetica e metafisica). 

 

L’arte e la letteratura sono delle forme d’interpretazione del reale. Le opere d’arte e le opere dei grandi scrittori e poeti della storia sono costantemente interpretate e si ricerca in esse sempre una varietà di significati. Per questa ragione, ancora oggi continuiamo a leggere L’Iliade e L’Odissea di Omero, la Divina Commedia di Dante. Per questo, oggi continuiamo a emozionarci davanti alle grandi opere d’arte di Giotto e di Van Gogh. Tutti questi tesori non smettono mai di parlare direttamente alla nostra anima e continuano a mostrarci nuovi significati per il nostro tempo e così continueranno a fare nei secoli a venire. Noi siamo quindi sempre posti singolarmente davanti a un oggetto che esprime un’inesauribilità di significati e, in un circolo ermeneutico e dialettico senza fine, ne formuliamo – di volta in volta – significati sempre nuovi. 

 

Un’altra possibile forma d’interpretazione della verità sono le religioni. Le religioni, da sempre, sono state forme che l’essere umano ha adottato per interpretare la verità; verità, alla quale, esse si sono generalmente rivolte con il nome “Dio”; termine che rimanda etimologicamente alla luce e all’atto di risplendere. La verità che rischiara la mente e la illumina. 

 

Le varie religioni sono anch’esse modi d’interpretare la verità e d’essere posti in relazione con essa. Come afferma Simone Weil:

 

« Ogni pratica religiosa, ogni rito, ogni liturgia è una forma di recitazione del nome del Signore, e in linea di principio deve possedere realmente una virtù; quella di salvare chiunque vi si applichi con quel desiderio » (Attesa di Dio).

 

Ecco dunque come le varie forme religiose sono quindi modi d’interpretare la verità, esse cercano d’accedere all’inaccessibile e al mistero, riconducendo l’uomo e il mondo all’Originario. 

 

Le religioni, quando non vengono cristallizzate in visioni conservatrici e fondamentalistiche, sono strumenti di rivelazione di significato nel corso della storia, come afferma il teologo tedesco Hans Küng:

 

« (Le religioni sono) vitali atteggiamenti di fede che uomini reali rivivono in forme sempre nuove nel corso della storia. Le religioni vanno quindi interpretate con lo sguardo rivolto in avanti: aperte a nuove problematiche, non cessano di porre esse stesse problemi sempre nuovi » (Essere cristiani).

 

Non è possibile pensare a un depositario oggettivante della verità; una prospettiva che esprima nella forma completa ed esauriente la verità, di modo che non vi sia più null’altro da dire. La visione della verità, proposta dal venerabile Jorge ne Il nome della rosa di Umberto Eco, secondo cui non vi è innovazione, ma solo eterna e sublime ricapitolazione, risulta fasulla e drammaticamente semplificatoria. Una folle pretesa di elevarsi e contenere la verità nella quale l’uomo è totalmente immerso, un atteggiamento arrogante analogo a quello di Icaro che tenta di avvicinarsi al sole.

 

La verità nella sua interezza è inesauribile. Questo concetto era ben chiaro allo stesso Gesù, il quale, secondo il Quarto Vangelo, disse: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso» (Gv. 16, 12). Gesù, quindi, non pretese mai di oggettivare la verità ed era ben consapevole del fatto che la verità è qualcosa che si comprende progressivamente, attraverso la continua esplicitazione interpretante dei significati contenuti nelle varie formulazioni della verità. Una tale consapevolezza è reperibile anche in altri testi sacri, una delle più suggestive formulazioni ne viene fatta nel Corano, dov’è possibile leggere:

 

« Se Allah avesse voluto, avrebbe fatto di voi una sola comunità. Vi ha voluto però provare con quel che vi ha dato. Gareggiate in opere buone: tutti ritornerete ad Allah ed Egli vi informerà a proposito delle cose sulle quali siete discordi » (Sura V).

 

In tutto ciò, vi è una grande consapevolezza dell’inesauribilità del vero, della molteplicità di significati che si esplicano e accrescono nel corso del tempo, grazie al costante sforzo ermeneutico e dialettico di tutti quelli che vi si accostano. 

 

Lo sforzo interpretativo porta, tra le altre cose, a una rivalutazione del mito. Il mito, nel senso comune, rappresenta la massima forma di finzione; di vicenda che non corrisponde al vero e di artificio per i popoli arretrati. Il mito è però la massima forma di codice interpretativo, l’umanità ha da sempre attinto ai suoi archetipi junghiani dell’inconscio collettivo per codificare i suoi miti. I miti sono sì storie, ma sono anche portatori di contenuto di verità e significato inesauribile. Essi sono la forma di narrazione che meglio si presta all’ermeneutica. 

 

Il mito non è quindi fasullo e illusorio, ma un linguaggio codificato e rivelativo; attraverso una storia, più o meno verosimile, funge da porta d’accesso alla verità. La filosofia deve dunque dare grande valore anche al mito e senza deriderlo o considerandolo una forma imperfetta e preparatoria all’avvento della speculazione teoretica, così come afferma anche Pareyson:

 

« La riflessione filosofica deve rispettare il mito: lasciare che il mito dica ciò che solo col mito si può dire, e non aggiungervi altro, giacché interpretare significa lasciar parlare e saper ascoltare, non dare sulla voce né mituingen » (Ontologia della libertà).

 

Il mito fornisce un supporto laddove vi sono delle lande inesplorate della razionalità e apporta nuovo materiale al discorso ermeneutico. Così come afferma sempre Pareyson:

 

« Per questa via la riflessione filosofica può scoprire che rispettare e salvaguardare il mito come tale è un modo per dire cose alle quali il linguaggio razionale della filosofia è inadeguato e che pure è molto importante per la filosofia stessa che siano dette e anzi che siano dette simbolicamente » (Ontologia della libertà).

 

Il mito non deve essere inteso come qualcosa che elimina la razionalità, ma piuttosto come qualcosa che parla un linguaggio non immediato al discorso deduttivo e consente quindi un discorso interpretativo. Il mito serve dunque a formulare la verità laddove questa non potrà essere dedotta logicamente o attraverso la pura speculazione. 

 

Luigi Pareyson (1918-1991)
Luigi Pareyson (1918-1991)

La pluralità d’interpretazioni che possono esservi della verità non deve far pensare ad un’assenza dell’errore e della falsità. Come esiste una verità, esiste anche qualcosa che si distanzia dalla verità. Le interpretazioni hanno sempre un rapporto con l’oggetto che interpretano e possono avere un rapporto di maggiore o minore vicinanza a tale oggetto. 

 

L’interprete è fallibile, egli nel suo intento di comprendere la verità può cadere in errore. La dialettica è lo strumento che permette di correggere o evitare di cadere nell’errore d’interpretazione. L’interprete, infatti, è fallibile e credendo di poter cogliere da sé medesimo la verità precipita in una presunzione che lo conduce all’errore. La ricerca del vero è dunque costante e il soggetto cerca sempre una maggiore adeguazione, come afferma Pareyson:

 

« L’interpretante, mai contento dei suoi risultati, continuamente li riprende per raggiungere una maggiore adeguazione, li mette alla prova, li confronta, li paragona, li unifica; suol acuire lo sguardo, e quindi muta e altera e combina i punti di vista » (Estetica e metafisica).

 

La verità, come insegnò Socrate, può essere trovata solamente attraverso un reciproco sforzo e una ricerca condivisa. La scienza lo dimostra incontrovertibilmente, i suoi risultati li ottiene attraverso una ricerca collettiva, mai unicamente individuale. Così come afferma il biologo statunitense Edward O. Wilson:

 

« La conoscenza scientifica è di tipo cumulativo. È il prodotto di centinaia di migliaia di specialisti il cui unico legame è la condivisione del metodo scientifico » (La creazione-un appello per salvare la vita sulla Terra).

 

La ricerca filosofica non dovrebbe essere da meno nell’essere uno sforzo collettivo; una comune ricerca e interpretazione della verità. L’interpretazione, pur essendo fatta da un singolo soggetto che si relaziona con il vero, deve sempre mettersi in gioco in una dialettica e non pretendere di esaurire il discorso conoscitivo. La filosofia dovrebbe, quindi, rimarcare il bisogno di un’ermeneutica infinita e d’una pluralità di possibili accessi alla verità attraverso diverse discipline e approcci capaci di produrre visioni del mondo sempre nuove.

 

4 agosto 2023

 








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