Inseguendo residui d'umanità. La Terra del rimorso di de Martino

 

De Martino ne La terra del rimorso porta a una sintesi la sua visione del mondo occidentale e della cultura contadina, piegando alle sue necessità da antropologo anche gli strumenti della psichiatria e dall’esistenzialismo a lui coevi.

 

di Ludovico Cantisani

 

 

Pochi libri, nella storia della saggistica italiana del Novecento, hanno condiviso lo stesso coraggio ermeneutico e la stessa disinibita trasversalità de La terra del rimorso, il volume con cui, nel 1961, Ernesto de Martino portava a termine la sua “trilogia meridionalista” – dopo altre due pietre miliari dell’antropologia italiana come Morte e pianto rituale nel mondo antico e Sud e magia. La Terra del rimorso del titolo è, come dichiarava de Martino stesso nelle prime righe del saggio, «la Puglia in quanto area elettiva del tarantismo, cioè di un fenomeno storico-religioso nato nel Medioevo e protrattosi sino al Settecento e oltre, sino agli attuali relitti ancora utilmente osservabili nella Penisola salentina». Libero dalle inquietudini metodologiche derivategli dal suo antico discepolato con Benedetto Croce, non oberato nemmeno dagli schematismi del pensiero marxista a cui pure si rifaceva, de Martino ne La terra del rimorso porta a una sintesi la sua visione del mondo occidentale e della cultura contadina, piegando alle sue necessità da antropologo anche gli strumenti della psichiatria e dall’esistenzialismo a lui coevi: con questo volume, di cui fanno parte integrante le appendici dello psichiatra Giovanni Jervis, dell’etnomusicologo Diego Carpitella e delle giovani “discepole” demartiniane Amalia Signorelli e Vittoria De Palma, de Martino tracciava il suo migliore affresco del Sud, tanto specificatamente legato a un luogo e a un rituale specifico quanto grandiosamente proteso a ripercorrere, in un ampio commentario storico, i prestiti e le contaminazioni culturali alla base del tarantismo pugliese e i paralleli etnologici e folklorici in giro per il tempo e lo spazio.

 

Dopo una nuova, complessa edizione de La fine del mondo datata 2019, e la ripubblicazione di Morte e pianto rituale nel 2022, Einaudi ha recentemente pubblicato una nuova edizione de La terra del rimorso, curata da Marcello Massenzio con il contributo di Fabio Dei. Del resto, la collaborazione di Ernesto de Martino con la casa editrice Einaudi, e il complesso dialogo che all’indomani della guerra intessé con Cesare Pavese a proposito de La collana viola, hanno influenzato in maniera indelebile lo studio dell’etnologia e dell’antropologia del nostro paese. Etnologia e antropologia che nella concezione e nel percorso di de Martino si pongono in una sorta di successione obbligata: ripercorrendo in ordine cronologico di uscita i suoi principali scritti, dall’accademico Il mondo magico fino al grandioso affresco incompiuto de La fine del mondo, si avverte come la teorizzazione etnologica, condotta prima sulla base di materiale e testimonianze altrui, poi con un’approfondita permanenza sul campo, diventi a poco a poco per de Martino la base e il viatico per arrivare a una generale concezione dell’uomo, del suo rapporto con la vita, con la morte, con l’elemento di krisis dell’esistenza. «L’etnologia demartiniana si propone come superamento della etnologia positivistica che […] fa astrazione dal soggetto indagante per concentrare tutta l’attenzione sull’oggetto indagato», scrive lo stesso Massenzi nell’introduzione alla nuova edizione del volume.

 

Da un certo punto di vista, La Terra del Rimorso è una brillante anticipazione di certe tecniche di autofiction alla base di tanti reportage narrativi contemporanei, in cui l’autore si pone come testimone che medita non solo sulla vicenda che racconta, ma anche sulle tecniche della sua stessa narrazione, situandosi in un inedito crocevia tra letteratura, antropologia e giornalismo: nel panorama letterario recente, per limitarci all’Italia, Nicola Lagioia ha toccato un apice insperato con il suo La città dei vivi, ma vale la pena ricordare, se non altro per i suoi espliciti legami con una certa cultura etnografica, anche Una storia vera di Nicola Feninno, edita lo scorso anno per Industria & Letteratura. Riletta oggi, La Terra del Rimorso pare un crocevia: non diversamente dal lavoro di documentaristi quali De Seta o Di Gianni, il saggio di de Martino è la consapevole testimonianza di un mondo popolare che già allora si trovava sull’orlo della scomparsa. Il boom economico, i cambiamenti sociali e legislativi, il Sessantotto, l’accelerarsi del processo di secolarizzazione avviato anche dal Concilio Vaticano II segnarono il colpo di grazia a tutta una serie di rituali popolari – e lo stesso de Martino era consapevole di assistere a versioni approssimative, degradate e in parte de-istituzionalizzate di un fenomeno con una storia millenaria, riconducibile fino alle antichità dionisiache.

 

Eppure, chiunque frequenti il Sud di oggi, e soprattutto la Lucania e la Puglia, non può non accorgersi di quanto l’immaginario rituale e musicale descritto da de Martino ne La Terra del Rimorso sia stato – forse pretestuosamente, certo scientemente – riportato in vita, a formare la base folkloristica delle estati salentine. Lo evidenzia anche Fabio Dei nel suo contributo quanto rapidamente La Terra del Rimorso si sia trasformata «da testo accademico e specialistico a vero e proprio manifesto di una politica della cultura popolare», fino a formare una sorta di movimento neo-tarantista di cui la famigerata Notte della Taranta è trasmessa in diretta ogni anno dalla RAI. Il libro di de Martino si è ritrovato alla base di una rivendicazione culturale, scenica e musicale da parte della comunità salentina – ma degli antichi rituali testimoniati al tramonto da de Martino tutto questo è solo un renactement che segna, a detta di Dei, «il passaggio da una concezione esorcistica a una adorcistica del complesso mitico-rituale». Non si parla più di espulsione, ma di invocazione – la possessione diventa segno di ebbrezza, non sintomo di malessere, tanto che alcuni esponenti del movimento neo-tarantista sono arrivati addirittura a criticare de Martino per la sua prospettiva cupa sul fenomeno.

 

E. de Martino, 11 agosto 1956, spedizione in Basilicata
E. de Martino, 11 agosto 1956, spedizione in Basilicata

 

Si tratta in fondo dell’antica ambiguità tra tradizione e folklore: se nella prosa de La Terra del Rimorso «la pietas conferisce ai singoli momenti della rammemorazione storica uno spessore inedito», e anche questo aspetto patetico ha contribuito al successo del libro, suggerisce Massenzio, queste contemporanee rivisitazioni del tarantismo sembrano scavalcarne tranquillamente le componenti sacrali, isolandone solo l’aspetto eversivo. In un certo senso, arrivano a carnevalizzare il carnevalesco, quel momento di sospensione istituzionalizzata delle regole che, come insegna proprio la cappella di Galatina visitata da de Martino, non sempre ha un aspetto immediatamente festoso e ludico, se mai si fa forte della sua componente catartica.

 

Ogni estate ormai la taranta pugliese va in onda in prima serata tv, ma non è il tarantismo conosciuto e studiato da de Martino: rito popolare e religioso che, peraltro, aveva spesso una reale efficacia terapeutica sulla salute psichica di chi si diceva affetto dal morso del ragno. Nel successivo La fine del mondo, pubblicato postumo e frammentario, de Martino raccontò l’aneddoto del campanile di Marcellinara, giustamente una delle sue pagine più celebri: per avere delle indicazioni stradali, de Martino aveva fatto salire in macchina un pastore, che però si dimostrava via via sempre più sconvolto e spaesato mano a mano che si allontanava verso l’orizzonte la vista del campanile di Marcellinara; «giunti al punto dell’incontro, si precipitò fuori dall’auto senza neppure attendere che fosse completamente ferma, e scomparendo selvaggiamente senza salutarci, ormai fuori della tragica avventura che lo aveva strappato allo spazio esistenziale del campanile di Marcellinara». Nel panorama degli studi italiani sull’etnografia e sulla storia delle religioni, raramente ci si è interrogati sulle conseguenze psichiche e sociali dell’abbandono degli antichi riti e miti, che invece è stato uno dei grandi cavalli di battaglia di tutta la scuola psicoanalitica junghiana ma anche delle ricerche cognitive di Julian Jaynes: dopo la morte di de Martino nel 1965 di significativo ci fu quasi solo il grido retorico ma sincero lanciato da Pier Paolo Pasolini di fronte alla “scomparsa delle lucciole”.

 

Il lamento che Pasolini lanciò negli ultimi anni della sua vita fu significativo ma forse non pienamente argomentato, se anche uno scrittore e intellettuale del calibro di Italo Calvino reagì accusando P.P.P. di rimpiangere un’«Italietta contadina e paleocapitalistica» ignorandone le criticità e i problemi. Di questa “Italietta”, a dire il vero, La terra del rimorso è il ritratto più completo, né nostalgico né umanitario, la dimostrazione di come, in condizioni sociali spesso durissime, si era spontaneamente venuta a creare un’organicità tra la vita dei campi, l’interiorità di ciascuno degli abitanti di quella zona e l’immaginario religioso popolare che assommava al cristianesimo tracce e scampoli di tradizioni antichissime. Quello che forse lo stesso Pasolini rimpiangeva era proprio il venir meno di questa organicità, in una società moderna che non ha più nessun mito come orizzonte di proiezione e di risoluzione catartica dei problemi, salvo il mito irrituale della società stessa. Da questo scenario moderno de Martino non fuggiva affatto, ma si protendeva a cercare altri mondi e sotto-mondi per comprendere le ambiguità del suo, in nome di quell’etnocentrismo critico che proprio nelle prime pagine de La terra del rimorso veniva formulato con somma chiarezza:

 

« Nel viaggio etnografico non si tratta di abbandonare il mondo dal quale ci sentiamo respinti e di riguadagnarlo attraverso la mediazione di una rigenerazione mitica variamente configurata, ma semplicemente si tratta di una presa di coscienza di certi limiti della propria civiltà. »

 

 

Scendendo in Puglia per le sue spedizioni etnografiche, Ernesto de Martino compì una catabasi nel senso più canonico del termine: venne in contatto, e senza essere propriamente “iniziato”, con gli ultimi residui di riti antichissimi, la cui cornice cristianizzata lasciava intravedere piuttosto nitidamente il retroterra pagano. Basta questa considerazione a rendere La terra del rimorso un testo liminare, sospeso tra fascinazione e sacrilegio, tra storia delle religioni ed etnopsichiatria, un libro che è incompleto senza il corredo fotografico di Franco Pinna, che ritrae senza orpelli il ciclo coreutico di vari tarantolati. E anche questo è indubbio: il rimorso di cui de Martino parla sin dal titolo del suo saggio non è solo il rimorso evocato sulle fasce povere dalle religiosità popolari, non è solo il morso del ragno, e non è neanche solo un’allusione al rimosso freudiano; come scrisse Lévi-Strauss in un passo di Tristi tropici citato da de Martino nelle prime pagine del suo libro, «se l’Occidente ha prodotto degli etnografi è perché un cocente rimorso doveva tormentarlo». Il tarantismo moribondo avvistato da de Martino agli ultimi sgoccioli della civiltà contadina può svelare in controluce qualcosa anche sul contemporaneo – e l’insistente bisogno di festa di cui trasudano le attuali rivisitazioni in chiave folkloristica della taranta non fa che acuire il significato pregresso del rito, il suo senso spettrale – un esorcismo.

 

3 luglio 2023

 








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