Ernesto de Martino: depotenziamento e rifondazione del mito

 

I riti ci sono eccome: non sono morti! Tuttavia, e qui forse sta la drammaticità, ancor maggiore, della nostra epoca, sono stati irreparabilmente depotenziati, e conservano solo sbiaditamente la forza di opporsi allo scatenarsi di crisi e furori sociali.

 

 

Qualche giorno fa mi è capitato di leggere l’appassionante articolo di Ludovico Cantisani, Alla fine del rito. Tra de Martino e Byung-Chul Han, pubblicato su questa stessa rivista. Il percorso teorico intessuto dall’autore, il quale, muovendosi disinibito tra autori importanti e pertinenti, si è sviluppato in modo tutt’altro che banale, accompagnandomi alla riflessione di una connessione tra prospettive che certamente già conoscevo ma che mai avevo fatto dialogare insieme. La riflessione, nata dalla lettura del contributo, mi ha condotto alla valutazione di alcune affermazioni che, a mio parere, dimostrano la loro imprecisione, incamminando le conclusioni del discorso ad orizzonti che difficilmente de Martino avrebbe elaborato. Di fatti, in accordo con l’idea che qui mi preme sottolineare, la posizione demartiniana nei riguardi del rito non è, come si è voluto dimostrare nell’articolo menzionato, analoga o comunque adiacente alle prospettive di Girard e Han, poiché in de Martino l’ipotesi di una fine radicale del ritualismo non è nemmeno ipotizzata.

 

Innanzitutto, rito e mito non sono elementi separati o separabili: menzionando il primo, si dice qualcosa, inevitabilmente, anche del secondo. Il rituale ha come fondamento teorico l’a-storicità del mito, mentre ogni mito, da parte sua, ha una qualche concretizzazione in forme rituali. Comunque, parlare di una “fine del rito” (e dunque, parallelamente, di una “fine del mito”), in senso generale, è senza dubbio problematico. Questa, in estrema sintesi, era l’ambizione dell’illuminismo: liberare la Ragione dai fantasmi della superstizione, rappresentando il reale attraverso concetti logico-matematici, dedotti dallo «strumento degli strumenti» (citando, impropriamente, Aristotele), la razionalità. A questo proposito, l’illuminismo è spesso erroneamente definito come il “Secolo della Ragione”, sebbene, invero, sarebbe più corretto definirlo come il “Secolo della Natura”; ad uno sguardo più attento, infatti, la Ragione illuministica non è altro che un mero strumento nelle mani dell’uomo, un mezzo per il raggiungimento di un fine che, d’altra parte, si presenta come la rappresentazione del reale, ossia l’addomesticamento della Natura attraverso concetti empirici. Ebbene, domandiamoci: l’illuminismo è riuscito nello scopo di rimuovere ogni residuo superstizioso e mitico per fare spazio al dominio della Ragione, considerata strumento oggettivo e scevro da ideologie, scomodata per il solo obiettivo di rappresentare la Natura? Capitale, a tal punto, è il testo Dialettica dell’illuminismo, il quale senza mezzi termini dimostra come la stessa Aufklärung, nella speranza di eliminare il mito, ne ha creato uno nuovo: il “Mito della Ragione”, ricadendo, dunque, nel medesimo tranello che si era proposto di abrogare.

 

Max Horkheimer e Theodor Adorno, autori della "Dialettica dell'illuminismo" (1947)
Max Horkheimer e Theodor Adorno, autori della "Dialettica dell'illuminismo" (1947)

Tutto questo discorso per sottolineare un punto: possiamo girarci intorno, ma la rimozione del mito-rito non è affare di poco conto. Su questa linea, a mio avviso, muoveva il ragionamento di Ernesto de Martino. Egli rimase fedele per tutta la vita al nucleo teorico elaborato alla fine degli anni Quaranta, esposto nel suo testo più denso e affascinante, Il mondo magico. Veniva qui presentata, per la prima volta, la nozione di “crisi della presenza”, ossia una crisi esistenziale che trovava la propria insorgenza nel momento dello scatenarsi di un trauma emotivo, di uno squilibrio psichico. Senza entrare nel complesso rapporto tra malattia mentale e crisi della presenza che, seppur interessante, non importa in questa sede, il succo del discorso demartiniano è che accade, alle volte, che possa sopraggiungere una fortissima crisi (individuale, ma anche collettiva) per cui il mondo frana sotto i piedi: il disequilibrio psichico ed emotivo è talmente dirompente che viene meno la stessa capacità di restare presenti a noi stessi. Tuttavia, non dobbiamo temere, poiché, come ricorda il poeta Hölderlin, «lì dove cresce il pericolo cresce anche ciò che salva»; di fatti, la salvezza non è lontana, neppure nel caso prima dispiegato: quello che de Martino nomina “impianto mitico-rituale" funge, invero, da risolutore della crisi in atto. Attraverso un rituale culturale, sulla base della mitologia di fondazione della comunità all’interno della quale la crisi ha luogo, il disequilibrio psichico viene pacificato, poiché la ripetizione astorica (ma che ha luogo nel tempo storico) del rituale ricolloca l’individuo in crisi al centro di una dimensione di esistenza protetta. Avviene quindi che il rito risolve una situazione di caos e confusione, in senso esistenziale, scatenata da qualche evento tragico e inaspettato.

 

È all’interno di questa discussione che è necessario leggere il giudizio che de Martino dà del rituale e della sua presunta scomparsa. Demartinianamente, di contro, pensare la fine della ritualità è un controsenso: dal momento che essa è l’unica forma di risoluzione della crisi, la sua scomparsa significherebbe che non ha più luogo alcuna pacificazione, alcuna dimensione di esistenza protetta; continuando il ragionamento, dunque, se nessuna necessità di ristabilire un equilibrio esistenziale all’interno della comunità è vissuta come una hot issue, come direbbero gli anglosassoni, ciò varrebbe a dire che la confusione e il caos esistenziale non sono che sbiaditi ricordi. 

Sappiamo che non è così. La recente storia del nostro Occidente è gravida di tragici eventi, cominciando dal Terzo Reich, i totalitarismi, le persecuzioni raziali, gli stermini di massa, le lotte e i massacri di piazza. Dunque, direbbe de Martino, l’insorgenza di momenti critici è lampante. Di fatti, sono gli eventi tragici e violenti della comunità che manifestano l’intensificarsi o il sopraggiungere di un momento di mancata pacificazione esistenziale: in periodi di quiete emotiva e storica, al contrario, non si hanno fenomeni distruttivi. Questo concetto è ben esemplificato dal nostro in un articolo pubblicato agli inizi degli anni Sessanta, con il persuasivo titolo Furore simbolo valore. Ebbene, la tesi nucleare è che, in Occidente, gli episodi di “furore” si moltiplicano da decenni. Lasciamo raccontare a de Martino un esaustivo fatto di cronaca:

 

« La sera di capodanno del 1956 il Kungsgatan, l’arteria principale di Stoccolma, fu invaso da una turba di circa cinquemila adolescenti in furore. Indossavano pesanti giubbe di cuoio sulle quali figuravano emblemi di teschi e misteriose iscrizioni cabalistiche. Per tre giorni i giovani tennero la strada, molestando i passanti, rovesciando automobili, frantumando le vetrine dei negozi, erigendo barricate con inferriate e montanti divelti dalla più vicina piazza del mercato. [...] [I giovani] sono mossi da un impulso di annientamento delle persone e delle cose, vogliono ridurre in cenere il mondo, far sfoggio della loro potenza di evasione. »

 

Più avanti:

 

« Il Capodanno Di Stoccolma accenna a un fenomeno molto più vasto e profondo. È da tempo che una cupa invidia del nulla, una sinistra tentazione da crepuscolo degli dèi dilaga nel mondo moderno come una forza che non trova adeguati modelli di risoluzione culturale, e che non si disciplina in un alveo di deflusso e di arginamento socialmente accettabile e moralmente conciliabile con la coscienza dei valori umani faticosamente conquistata nel corso della millenaria storia d'Occidente. »

 

Concludiamo:

 

« A questo punto si pone assillante la domanda: “Che senso ha tutto questo?”. [...] La vita religiosa tradizionale, con i suoi riti oltremondani, ha perso autorità nel mondo moderno, mentre la democrazia laica, con i suoi ideali mondani, non riesce a colmare il vuoto lasciato dalla religione e a sostituirsi a essa con forme istituzionali di efficacia sociale e psicologica equivalente. [...] Il mondo è incamminato verso la democrazia laica e verso il riconoscimento di ideali integralmente mondani: ma per una crisi di crescenza il nuovo umanesimo non ha ancora trovato il suo giusto equilibrio. Si è verificata una crisi delle credenze tradizionali, ma gli individui non trovano ancora nella società i modi adatti per partecipare attivamente dell'esperienza morale che alimenta la democrazia laica, e per sentirsi protagonisti del suo destino. A una falsa libertà fondata sulla miseria si è creduto troppo spesso contrapporre una democrazia fondata esclusivamente sul benessere, mentre il problema centrale resta la partecipazione a un certo ordine di valori morali, un piano di controllo e di risoluzione culturale della vita istintiva. »

 

Il Kungsgatan, Stoccolma
Il Kungsgatan, Stoccolma

In sostanza: le crisi esistono, anche in Occidente – il Capodanno di Stoccolma lo testimonia. Il centro del discorso, tuttavia, riguarda le conseguenze: perché questi fenomeni, al posto che trovare una progressiva pacificazione, dilagano? Una prima, intuitiva risposta, seguendo lo schema argomentativo demartiniano, potrebbe essere: poiché in Occidente abbiamo voluto, dall’illuminismo in avanti, ricacciare il mito (e dunque il rito) ai margini del nostro orizzonte culturale, in conseguenza, si è persa quell’unica forma di resistenza all’insorgenza dei furori distruttivi. Ma, come prima si andava argomentando, l’illuminismo non ha fatto altro che sostituire un impianto mitico-rituale ad un altro: invero, dalla mitologia classica si è passati a quella illuministica, al Mito della Ragione. Dunque, il nuovo mito laico, in cosa si è concretizzato, in quali forme prende vita il rituale da esso scaturito? In tutte le forme di ritualità laica che il de Martino temerariamente accennava: la Democrazia, lo Stato, le Istituzioni.

 

Tuttavia, per far sì che la risoluzione della crisi abbia luogo, è necessario che gli strumenti pacificatori siano qualitativamente adatti a contrapporsi al fenomeno dissolutore insorgente, ovvero abbiano ugual forza per poterlo addomesticare. Ebbene, possiedono le nostre istituzioni una tal potenza? L'Occidente, che ha inventato forme di vivere sociale all’avanguardia come la democrazia, non ha saputo alimentarle a tal punto da renderle forti e adatte per la risoluzione. I riti, quindi, ci sono eccome: non sono morti! Tuttavia, e qui forse sta la drammaticità, ancor maggiore, della nostra epoca, sono stati irreparabilmente depotenziati, e, come conseguenza, conservano solo sbiaditamente la forza di opporsi allo scatenarsi di crisi e furori sociali.

 

 

Il contributo teorico che possiamo portarci appresso dalla seguente trattazione non è, come sottolineato altrove, la “fine del rito”, bensì, invece, un suo depotenziamento. Ciò che de Martino esorta a compiere è una rifondazione laica dell’impianto mitico-rituale, ma che sia vera e non solo accennata e incompiuta come oggi si presenta. Innanzitutto, è necessario delineare e scovare quei concetti ed elementi che stanno a fondamento della nostra società occidentale, ormai immersa nel pieno del XXI secolo. A una prima analisi, potrebbe essere possibile imbastire un discorso sulla base dell’antifascismo e dell’antinazismo: concetti che stanno alla base delle nostre società, nate (o ri-nate) dopo il 1945. Fondanti per la nostra cultura sono l’attenzione ai diritti umani, l’europeismo, la cooperazione tra Stati, l’inclusione, l’accoglienza dei profughi del Terzo mondo. Questi concetti laici, esorterebbe de Martino, devono elevarsi a strumenti mitico-rituali, farli diventare elementi ideologici – ideologici, precisamente, nel suo senso più positivo possibile: concetti che fungono da idee fondanti della società che ci proponiamo di essere – e fare di questi strumenti le nostre nuove divinità laiche, comunitariamente accettate e venerate. Incamminandoci così, finalmente, sul sentiero che porterà la nostra civiltà ad appianare le crisi dissolutrici che tanto ci procurano danno ed angoscia. 

 

marzo 2022

 








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