Il concetto di "normalità" e le comunità LGBT+

 

Molto spesso si fa appello ad una presunta ‘normalità’ per opporsi a certi orientamenti sessuali. Ad essi non viene riconosciuto lo status di ‘umano’, ma le si considera come qualcosa da curare. Addirittura, si arriva a delineare una ‘teoria gender’ come corruzione dell’ordine naturale. Forse, però, le cose non sono davvero così, e servirebbe guardare più da vicino la questione per scardinare queste convinzioni.

 

di Tommaso Donati

 

 

“Uno spettro si aggira per il mondo: lo spettro della teoria gender”. Questa frase potrebbe accogliere molte orecchie di persone convinte dell’esistenza di un naturalismo dell’orientamento sessuale e del gender, contrarie ad una apertura verso coloro che non si riconoscono in un rigido binarismo eterosessuale. Eppure, si tratta di una caccia alle streghe: non esiste nulla che possa rientrare sotto il nome della fantomatica ‘teoria gender’. Serve fare un passo indietro prima di vedere perché essa non esiste. Serve definire che cosa mai si voglia intendere con ‘normalità’, considerato il cavallo di battaglia di chi si schiera contro questo spettro inesistente. Secondo questi, qualsiasi individuo che non si rispecchia nel binarismo, viene decretato come ‘anormale’.

 

Il concetto di normalità sembra così ricondurre ad una situazione entro cui il senso comune denota come le cose vadano e come debbano essere. Si tratta di poter incasellare con etichette qualsiasi cosa che ci circondi, affinché quelle abbiano un senso e un ruolo preciso. Da ciò, però, deriva una fissità generale: se qualcosa non quadra, se qualcosa straborda da quelle etichette, ecco che deve essere ‘corretta’. Questa concezione può essere applicata in tanti settori e capire come le cose vadano, e soprattutto come capire ciò che si ha davanti, ma applicata alla sfera dell’individualità può causare non pochi problemi: non accetta eccezioni.

 

Quando si cerca etichettare, ad esempio, gay, trans, lesbiche, si denota subito che sfuggono da questa visione. Questo accade perché da ogni singolo individuo ci si aspetta che aderisca a degli stabilizzatori della sua identità, fondati sopra la convinzione che il genere sia il riflesso del proprio sesso: se si possiedono certi tratti sessuali, bisogna riflettere nel proprio orientamento sessuali quelli, senza possibilità di cambio per non minare alla ‘tradizione’. Questa tradizione viene ritenuta la struttura portante di ogni cosa, il pilastro che garantisce ordine ed equilibrio. Ma, nonostante tutto, quegli individui continuano ad esistere e sentirsi in un certo modo, al di là di come venga incasellato il genere e di come ci si debba ‘sentire’ per essere ritenuto dagli altri un essere umano. Il problema ancora più grave sono le discriminazioni a cui si va incontro: si vuole impedire a una persona di essere quello che è solo perché non aderisce a quello che ci si aspetta. E se fosse quello che ci si aspetta, questa ‘normalità’, ad essere sbagliata?

 

In effetti, questa normalità tanto citata e rivendicata è frutto di una sfera sociale di cui noi stessi siamo autori. I nostri atti linguistici hanno una loro capacità performativa, una capacità di modellare il mondo circostante: questi, nella loro continua ripetizione di epoca in epoca, possono passare da atti in prima persona, ossia espressi da un soggetto, ad atti in terza persona, ottenendo il comando della sfera. Il passaggio a questa corrisponde anche all’avvento della impersonalità: si fa così perché è sempre stato così. Ed ecco allora che emerge come la tradizione, la normalità, sia prodotta da noi, e non abbia radici solide dettate da come le cose stiano davvero.

 

Le relazioni interne a questa sfera sociale toccano gli individui che vi appartengono: il discorso pretende di modellare i suoi partecipanti entro dei limiti. Nel caso che ci interessa, si mira ad una sessualizzazione del corpo: avendo determinati attributi si viene catalogati come maschio o femmina e, a fronte di ciò, una serie di aspetti eterogenei tra loro (desiderio, sensazioni, piaceri) vengono conformati ad esso secondo un ordine preciso che permetta di essere attratti solo dall’opposto, garantendo una complementarità. Il sesso viene fatto corrispondere come fondamento alla base dell’individuo ma in realtà è un effetto prodotto dalle regolamentazioni imposte:

 

« […] la nozione di ‘sesso’ ha permesso di raggruppare in un’unità artificiale elementi anatomici, funzioni biologiche, comportamenti, sensazioni, piaceri, ed ha permesso di far funzionare quest’unità fittizia come principio causale, senso onnipresente, segreto da scoprire dovunque: il sesso ha dunque potuto funzionare come significante unico e come significato universale. » (M. Foucault, Storia della sessualità).

 

Queste regolamentazioni agiscono però sulla superficie esterna del corpo: solo questa può essere manipolata dal discorso sociale. Il genere viene allora costruito solo intorno all'esteriorità dell’individuo, pretendendo così di aver raggiunto una stabilizzazione generale, anche nella sua interiorità. Quello che rimane fuori è però l’esistenza di un ‘interno’ del singolo, una volontà di costruire una propria identità che non conosce limitazioni di nessun tipo. Se dall’esterno i limiti risultano essere rigidi, è proprio questa volontà che può renderli permeabili per potersi esprimere liberamente. Da ciò risulta allora che quella ‘sostanza’ ritenuta propria di ogni individuo è solo una montatura, che non nasconde nulla se non pura performatività:

 

« […] atti e gesti, desideri articolati e desideri attuati creano l’illusione di un nucleo di genere interiore e organizzatore, un’illusione che viene mantenuta discorsivamente per la regolazione della sessualità nella cornice obbligatoria dell’eterosessualità riproduttiva. » (J. Butler, Questione di genere).

 

Judith Butler (1956)
Judith Butler (1956)

 

Questa performatività deve essere ricondotta in mano ad ogni individuo: il corpo diviene uno strumento tramite cui ci si confronta nel mondo esterno per poter diventare qualcosa. Serve dunque rivedere il concetto di normalità, evitando un'eccessiva rigidità che non ha fondamenti validi, per far sì che ognuno possa sentirsi parte del mondo per ciò che è.

 

La nuova definizione di normalità può ruotare intorno alla performance che si dà di sé: gli atti perpetuati da ciascun individuo servono per costruire non una identità eterna e solida, ma una illusione di identità, un io sempre pronto a mostrarsi in un certo modo agli altri e a rimettersi in gioco. Essere diventa questione di apparire e di diventare, non esiste nessuna sostanza come matrice di tutto, ma solo libertà di costruirsi:

 

« […] il genere è una identità costituita debolmente nel tempo, istituita in uno spazio esteriore attraverso una ripetizione stilizzata degli atti. L’effetto del genere viene prodotto attraverso la stilizzazione del corpo e, perciò, deve essere inteso come il modo più comune attraverso il quale gesti del corpo, movimenti e stili di vario tipo costituiscono l’illusione di un sé di genere costante. » (Ivi).

 

Questa performatività però non avrebbe senso se non inserita in un qualcosa di più grande: il contesto sociale. Stando a quello detto prima, risulterebbe proprio questo il nemico che ha lo scopo di conformare tutti in un certo modo. Ma, se lo si considera attentamente, le cose risultano assai diverse: il contesto sociale non è qualcosa di fisso, ma è in movimento, dinamico, in continuo subbuglio. In primis, bisogna considerare da cosa o, meglio, chi è composto il contesto sociale: individui singoli che si relazionano. Una relazione, per andare a buon fine, deve evitare di mettere a repentaglio l'incolumità altrui, e allora risulta importante il riconoscere dei diritti individuali di ciascuno che vi partecipa (diritto di pensiero, di parola, di azione) e non mettere a repentaglio la incolumità altrui.

 

La storia ci suggerisce anche un altro spunto: non tutti fin da subito hanno potuto farsi riconoscere come individui degni di rispetto e di umanità. Nel corso dei secoli, infatti, ci son sempre stati degli oppressori e degli oppressi (immigrati, lavoratori, donne) che hanno combattuto, e stanno tutt’oggi combattendo, per diventare parte attiva nella gestione del proprio contesto sociale. Se quest'ultimo fosse davvero fisso e immutabile, oggi non sarebbe quello che è e molti ancora non avrebbero diritto di parola e non riconosceremmo la sensatezza del denunciare i soprusi, ricevuti o altrui. In questo dinamismo, anche coloro che non si rispecchiano in un binarismo eterosessuale rigido possono far sentire la propria voce: lo scopo della comunità LGBT+ è la rivendicazione della propria libertà e uguaglianza. Non solo i membri di questa, ma tutti noi siamo chiamati a permettere loro una vita completa e umana: le battaglie di pochi sono battaglie di tutti.

 

Notizie di cronaca ancora oggi ci riportano soprusi e violenze contro essere umani solo perché sono quello che sono: finché queste non cesseranno, non si sarà mai fatto abbastanza. 

Simone de Beauvoir ne Il secondo sesso fa scrisse qualcosa che ancora oggi è attuale: «Donne non si nasce, lo si diventa».

Ovviamente la Beauvoir si riferiva alla categoria di donne, ma il discorso può essere ampliato ad ogni individuo: non esiste un genere predefinito fin dalla nascita, ma esso è una co-costruzione di individuo e società. Ecco perché non esiste nessuna ‘teoria gender’: quello che professa come una ‘corruzione della tradizione’ è la normalità vera, la libertà di performare sé stessi e di essere riconosciuti come quello che si è.

 

2 ottobre 2023

 









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