La bugia dell'antropo-cene. Parte II

 

La prima parte si è aperta con la domanda sulla correttezza o meno della parola “antropocene”, evidenziando il fatto che non tutti gli esseri umani siano responsabili dell’attuale disastro climatico; si è conclusa, quindi, con una critica molto forte all’attuale concezione della natura come un qualcosa da possedere, come un qualcosa da sfruttare; questa seconda parte mette in luce una soluzione pratica, un modo per cambiare l’attuale stato delle cose attraverso uno sguardo diverso e un sistema produttivo in armonia con la natura. 

 

di Nadia De Sario

 

 

4. Sguardi diversi

 

La critica di Merchant è a come l’uomo ha guardato la natura e a come l’ha utilizzata senza preoccuparsi di un domani in cui questa natura potrebbe ribellarsi e smettere di produrre. La critica è ad una filosofia meccanicistica che, da sola, ha preteso di spiegare il funzionamento di tutta la natura, fino al comportamento umano. Il punto non è tornare in un mondo magico, con gli sciamani, con le erbe e le pietre/cristalli per curarci: Merchant non ha mai rinnegato il potere e le cose positive che la scienza ha portato nel mondo, ma ha sempre sottolineato che non è mai tutto rosa e fiori, che qualcuno ne ha pagato delle conseguenze molto forti. Vedere la natura come un qualcosa di morto, a disposizione dell’essere umano, su cui l’essere umano era autorizzato a fare qualsiasi cosa, ha portato oggi al disastro ambientale in cui siamo immersi: perdita di biodiversità, temperature più alte nelle zone temperate, ghiacciai che si sciolgono, neve nera in Siberia (Andrea Centini, Neve nera in Siberia, l’inquietante fenomeno preoccupa gli scienziati: cosa sta succedendo) e fiori che sbocciano in Antartide (Andrea Centini, Fiori e piante si diffondono in Antartide a causa della crisi climatica: +20% in dieci anni). 

 

Il problema è che l’uomo è convinto di avere il potere su tutto: sulle donne, sugli indigeni, sugli animali e sulla natura. Ricordiamo che le terre delle popolazioni indigene sono state conquistate (dopo vari spargimenti di sangue) poiché, secondo i coloni europei, le terre erano di nessuno, dato che in Europa vigeva la proprietà privata, nelle terre oltreoceano no. Usando le parole di Capo Seattle

 

« Come potete acquistare o vendere il cielo, il calore della terra? L'idea ci sembra strana. Se noi non possediamo la freschezza dell'aria, lo scintillio dell’acqua sotto il sole come è che voi potete acquistarli? Ogni parco di questa terra è sacro per il mio popolo. Ogni lucente ago di pino, ogni riva sabbiosa, ogni lembo di bruma dei boschi ombrosi, ogni radura ogni ronzio di insetti è sacro nel ricordo e nell'esperienza del mio popolo. La linfa che cola negli alberi porta con sé il ricordo dell'uomo rosso […] Sappiamo che l’uomo bianco non comprende i nostri costumi. Per lui una parte di terra è uguale all'altra, perché è come uno straniero che arriva di notte e alloggia nel posto che più gli conviene. La terra non e' suo fratello, anzi è suo nemico e quando l’ha conquistata va oltre, più lontano. Tratta sua madre, la terra, e suo fratello, il cielo, come se fossero semplicemente delle cose da acquistare, prendere e vendere come si fa con i montoni o con le pietre preziose ». 

 

I nativi americani e in generale tutti i popoli che non hanno vissuto l’industrializzazione del mondo europeo avevano/hanno un legame con la terra che noi possiamo solo immaginare: la Terra è la Casa di tutti noi, dobbiamo rispettarla, proteggerla, usarla il giusto; questo però è possibile se prima di tutto entriamo in una relazione profonda con la natura stessa; sempre Capo Seattle ha scritto: 

 

«Noi siamo una parte della terra, e la terra fa parte di noi. I fiori profumati sono i nostri fratelli, il cavallo, la grande aquila sono i nostri fratelli, la cresta rocciosa, il verde dei prati, il calore dei pony e l'uomo appartengono tutti alla stessa famiglia. Quest'acqua scintillante che scorre nei torrenti e nei fiumi non e' solamente acqua, per noi e' qualcosa di immensamente significativo: e' il sangue dei nostri padri. I fiumi sono nostri fratelli, ci dissetano quando abbiamo sete. I fiumi sostengono le nostre canoe, sfamano i nostri figli. Se vi vendiamo le nostre terre, voi dovrete ricordarvi, e insegnarlo ai vostri figli, che i fiumi sono i nostri e i vostri fratelli e dovrete dimostrare per i fiumi lo stesso affetto che dimostrerete ad un fratello». (Capo Seattle, Lettera del capo indiano al presidente Usa Franklin Pierce)

 

Ricominciare ad appellarsi alla natura come se fosse una sorella, una parente, un’amica, è il modo per recuperare quella relazione originaria di interdipendenza e rispetto che Merchant descrive prima della Rivoluzione Scientifica, prima del meccanicismo, prima che un sistema economico basato sulla crescita sconsiderata e sul profitto venisse anteposto agli interessi non solo della natura, ma di intere persone: c’è un motivo, infatti, per cui il movimento ecofemminista è vicino alle popolazioni indigene e cioè che non ci si interessa solo delle ingiustizie sociali che il sistema patriarcale commette sulle donne, ma ci si preoccupa anche delle ingiustizie globali che il sistema economico in cui viviamo ha commesso in giro per il mondo, rubando la terra, penetrandola per trovarci l’oro nero, scaricando gli scarti nei fiumi e nei mari, elementi naturali che per i popoli indigeni in realtà sono parenti

 

5. Parentele postumane

 

Pensare di essere imparentati con la natura è per noi esseri umani postmoderni molto difficile. Viviamo in un mondo dominato da antropocentrismo e specismo, per cui ci consideriamo comunque i migliori sul pianeta. Le filosofe Haraway e Braidotti hanno spesso evidenziato che esistono tipi di parentela non umane o, meglio, postumane. 

 

Braidotti in particolare dedica un capitolo intero al “divenire animale” e “divenire terra” nel suo primo volume dedicato al postumano. In una cornice filosofica che si occupa di andare oltre il modo di pensiero umanista, basato sull’Uomo vitruviano al centro dell’universo superiore a tutto il resto, Braidotti si occupa della battaglia animalista e ambientalista, recuperando un principio fondamentale del cyberfemminismo, cioè l’ibridazione: noi non siamo esseri completi in noi stessi, autonomi e perfetti, bensì siamo esseri spezzati, scomponibili e ibridabili con altri esseri, sia che questi appartengano alla nostra specie sia che si tratti di animali non umani e natura: «il punto sulle relazioni postumane, tuttavia, è quello di comprendere l’interrelazione tra umano e animale come costitutiva dell’identità di ciascuno. È un rapporto di trasformazione o di simbiosi che si ibrida e altera la “natura” di ciascuno per porre in primo piano i motivi centrali della loro interazione» (Rosi Braidotti, Il postumano Vol. 1 – La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte)

 

Per entrare in questa relazione di interdipendenza ed empatia dobbiamo prima rimuovere tutto il carico di specismo che proviamo. Cosa supporta l’idea che siamo i migliori al mondo? Lo stiamo letteralmente distruggendo, nulla ci autorizza a considerarci superiori. La questione ambientale sta aprendo nuove strade alla vulnerabilità: ci rendiamo conto che siamo tutti strettamente interconnessi e che, se una parte dell’ecosistema cambia o sparisce, tutti ne subiamo le conseguenze; questa interdipendenza reciproca, per Braidotti, non può essere compresa fino in fondo nel pensiero umanista, che è un pensiero dualistico e uomo-centrato. La filosofia postumana e monista invece ci aiuta a capire che siamo tutti parte di un tutto, che dobbiamo imparare a divenire aperti verso altre specie, verso altre forme di relazione tramite «l’interazione con i molteplici altri». (Rosi Braidotti, Il postumano Vol. 1 – La vita oltre l’individuo, oltre la specie, oltre la morte). 

 

Haraway apre il suo libro sull’ambiente con questo esergo: «a tutti coloro che generano parentele nell’imprevedibilità della parentela» (Donna J. Haraway, Chtuluchene – Sopravvivere su un pianeta infetto). Nel mondo infetto e problematico in cui viviamo, l’obiettivo è generare parentele – kin – per rispondere a quelle persone che, imbevute di antropocentrismo, si credono più forti. Queste parentele al di fuori del genere umano generano, perché essendo parentele fuori dalla famiglia pongono le domande di “verso chi siamo responsabili?”, “Come si nasce e si muore in queste parentele?”. Lo scopo di Haraway penso sia proprio questo: fare parentele distruggendo parentele. Il kin è qualcosa di radicalmente diverso dalla parentela genealogica: «generare parentele significa generare persone, non necessariamente intese come individui o esseri umani» (Donna J. Haraway, Chtuluchene – Sopravvivere su un pianeta infetto). Haraway, seguendo le femministe, sostiene che sia nettamente meglio generare parentele anziché bambini: parentele con le creature della terra, poiché abbiamo tutti la stessa carne, siamo tutti fatti dello stesso materiale e la kin è un modo per unirci. Haraway propone una decrescita totale della popolazione umana, ma il non fare più bambini è proprio il modo per generare a sua volta nuove parentele. Come ho detto prima: costruire parentele interrompendo parentele. 

 

D.J. Haraway
D.J. Haraway

 

Se si pensa che tutte queste teorie ambientaliste abbiano influito solo su filosofe ed ecofemministe stiamo sbagliando di grosso. Un gruppo di scienziati, un giorno, fa uscire un libro: Limits to growth (Dennis L. Meadows, Donella H. Meadows & Jørgen Randers, The limits to growth - a report for the club of rome's project on the predicament of mankind), un rapporto del 1972 che parla del problema della crescita economica e demografica. La teoria economica della descrescita cerca altri indicatori di benessere di una nazione al di fuori del prodotto interno lordo. Altri indicatori possono essere, infatti, parità di genere, benessere psicologico, manutenzione di scuole ed edifici e benessere ambientale. Rappresenta, dunque, un’alternativa molto forte alla mentalità del progresso postfordista che viviamo oggi. In termini pratici vuol dire riformare il mercato in modo da integrare al suo interno gli aspetti di giustizia sociale ed ecologismo, il che vuol dire rispettare i cicli naturali, produrre secondo necessità, non secondo profitto, preferire la qualità alla quantità e cambiare la mentalità delle persone, insegnando e promuovendo l’idea che ben-essere non significa ben-avere

 

Decrescere non significa per niente regredire o entrare in recessione: si tratta, al contrario, di interrompere una crescita per crescere meglio. Decrescere vuol dire smettere di considerare il profitto come unico obiettivo da raggiungere, di vedere il PIL come indicatore di benessere di uno stato e di cominciare a prendere in considerazione, più da vicino, le persone, l’ambiente e le relazioni. Latouche scrive: 

 

«Decrescita è semplicemente uno slogan che raccoglie gruppi e individui che hanno formulato una critica radicale dello sviluppo e sono interessati a individuare gli elementi di un progetto alternativo per una politica del “doposviluppo”. È dunque una proposta per riaprire lo spazio dell’inventiva e della creatività dell’immaginario, bloccato dal “totalitarismo” economicista, sviluppista e progressista». (Serge Latouche, La scommessa della decrescita)

 

L’obiettivo non è solo “meno”, ma “meno perché è meglio”: è una rivoluzione economica ma prima di tutto culturale, è imparare a vedere le potenzialità del luogo in cui abitiamo, imparare a rigodere di ciò che la nostra piccola località ci offre. È un modello di economia basato sulla produzione di ciò che è necessario, sulla produzione il più possibile locale, in completa armonia con i cicli naturali.

 

S. Latouche
S. Latouche

 

Porciello scrive: 

 

« Se il mercato anziché essere “libero” (dove libero significa, come ho già sottolineato precedentemente, dominato dagli investitori più ricchi e spregiudicati) fosse vincolato al soddisfacimento prioritario di alcuni bisogni fondamentali, come l’accesso al cibo, l’inclusione sociale, la tutela delle minoranze, la vita dignitosa per tutti ecc., ciò darebbe voce e spazio anche a investitori, certamente più piccoli, ma realmente attenti alle questioni umanitarie e sopratutto capaci di sviluppare strategie funzionali al soddisfacimento di quei bisogni ». (Andrea Porciello, Filosofia dell’ambiente – Ontologia, etica, diritto)

 

Riporta anche che in alcuni Paesi del Sudamerica la tutela della natura è inserita nella costituzione: in questo modo, si auspica che ogni intervento che si vuole fare debba passare per forza un “test ambientale”, cioè capire se rispetta o meno la natura. 

 

Carolyn Merchant alla fine non ha detto nulla di diverso: nel suo manifesto propone infatti non di regredire ad un mondo senza tecnologia o ad un’utopia in cui non c’è scienza ma magia, bensì di fare in modo che la tecnologia si adatti ai ritmi della natura, cosa che implica coltivare e mangiare solo frutta di stagione, rispettare i periodi di accoppiamento degli animali, non ingravidare mucche o capre solo per averne il latte e non usare pesticidi distruttivi. La decrescita è una proposta economica radicale che si adatta bene ad una mentalità ambientalista, sostenibile e relazionale.

 

Conclusioni

 

La teoria della decrescita economica, come teoria radicale che si oppone alla logica del profitto e del capitalismo, non può avvenire senza un cambiamento culturale. Per questo è necessario rivedere prima di tutto le immagini con cui ci approcciamo alla natura (come sostiene Merchant), rivedere la struttura gerarchica che noi abbiamo costruito mettendoci in cima alla piramide (come suggerisce Braidotti) e capire che siamo esseri incompleti, vulnerabili, finiti, e che proprio in virtù di questo possiamo sviluppare relazioni alternative con gli altri abitanti della Terra, relazioni che prendono il nome di kin (come spera Haraway).

 

La prima cosa da fare, dunque, è individuare correttamente il responsabile. Se ci ostiniamo a chiamare quest’era come antropocene, guardiamo dalla parte sbagliata: non è colpa dell’anthropos, è colpa di un sistema razzista e capitalista se oggi siamo come siamo, se oggi cerchiamo fondi per risolvere “emergenze” climatiche anziché prevenirle cambiando modo di produzione e se oggi rischiamo una catastrofe umanitaria senza precedenti. Non c’è bisogno di cercare altre Terre abitabili, di andare su Marte o in altre galassie: se non cambiamo il modo di approcciarci al mondo in cui abitiamo, si ripresenterà lo stesso problema

 

Chiamiamo questa era geologica come deve essere chiamata, cioè con il nome del responsabile in prima vista: Capitalocene e/o Arguriocene. Si è voluto sempre usare l’universale maschile per indicare tutta l’umanità ma con la catastrofe climatica si è scelta una parola che indicasse davvero l’umanità. Tutti gli anthropoi che hanno sempre e solo subìto non meritano di essere inseriti, linguisticamente, in una catena di responsabilità che sta comportando un cambiamento drastico del Pianeta.

 

02 aprile 2024

 








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