In un mio precedente articolo dedicato ad alcune questioni relative all’IA, criticai in modo provocatorio le affermazioni di Platone, contenute nel Fedro, relative alla scrittura. Mi sono tuttavia reso conto del fatto che la questione della scrittura in Platone non possa essere liquidata ad una “svista intellettuale”, vi sono invece degli aspetti – messi in risalto dalla scuola di Tubinga-Milano – che non possono essere trascurati quando si riflette circa le posizioni di Platone sulla scrittura. In queste righe intendo tracciare alcuni aspetti fondamentali del problema della scrittura in Platone, mettendo in luce come, la sua analisi, non possa essere risolta in un ‘errore tout court’ come sostenni (seppur in un contesto e in un senso ben preciso) nel mio articolo sull’IA.
Per comprendere correttamente le affermazioni di Platone sulla scrittura è indispensabile sapere che il suo pensiero non è riducibile al “contenuto immediato” delle sue opere, ma ne sono nuclei fondamentali anche le cosiddette "dottrine non scritte" (agrapha dogmata).
Le dottrine non scritte di Platone riguardano, essenzialmente, i principi primi e supremi della realtà e cioè: l’Uno e la Diade indefinita di grande-e-piccolo. Di queste dottrine abbiamo solamente testimonianze indirette poiché, come Platone afferma nella celebre VII Lettera: «Certamente non esiste un mio scritto sul tema né mai esisterà» (341c). In più, Platone afferma che considera, coloro che hanno scritto su queste questioni, persone che non hanno veramente acquisito i suoi insegnamenti: «Quanto ho da dire su tutti quelli che hanno scritto o scriveranno, quanti sostengono di conoscere l’oggetto delle mie indagini […], a mio parere, che costoro non abbiano capito niente dell’argomento» (341b-341c).
La testimonianza più famosa delle dottrine non scritte è quella contenuta nel Libro Alfa della Metafisica di Aristotele (torneremo in seguito sull’apparente violazione del “divieto” platonico di scrivere su questa materia), dove l’allievo del filosofo ateniese così scrive:
« Da quanto si è detto, risulta chiaro che egli (Platone) ha fatto uso di due cause: di quella formale e di quella materiale. Infatti le idee sono cause formali delle altre cose, e l’Uno è causa formale delle Idee. E alla domanda quale sia la materia avente funzione di sostrato, di cui si predicano le Idee – nell’ambito dei sensibili – e di cui si predica l’Uno delle Idee – egli risponde che è la diade, cioè il grande e il piccolo. » (988a)
Non si può approfondire nel dettaglio le dottrine non scritte di Platone e non è questo il diretto oggetto dell’articolo. Ci basti dire che l’Uno è la fonte prima dell’essere che, in quanto tale, è al di là dell’essere stesso (Epèkeina tes ousias), trascendenza, mentre la Diade è la causa materiale e la fonte da cui scaturisce il molteplice. Secondo Platone, l’Uno è la fonte del bene, mentre la diade è la fonte del male.
L’Uno è il principio trascendente ordinatore (Bene), che mette ordine nel disordine della Diade e che rende comprensibile la stessa. Una migliore chiarificazione delle dottrine non scritte ci è data dallo storico della filosofia Giovanni Reale, alla cui monografia su Platone mi appoggerò in queste righe: «L’Uno, agendo sul principio diadico illimitato, che è indeterminata molteplicità, lo de-termina, lo de-limita, lo ordina, lo unifica, producendo in tal modo l’essere a vari livelli» (Platone. Alla ricerca della sapienza segreta). Seppure l’Uno abbia un’indubbia priorità (tanto che le dottrine non scritte avrebbero dovuto prendere il nome di Intorno al Bene) rispetto alla diade, i principi rimangono in un rapporto bipolare non dualistico, espresso da Aristotele in un rapporto di causa formale e materiale, si dovrà aspettare il neoplatonismo per avere l’Uno come principio unico di tutto l’essere. Reale chiarisce ulteriormente tali concetti con queste parole: «Ogni forma di essere deriva da una mediazione sintetica dell’Uno, principio unificante, determinante e armonizzante, e della Diade, principio di molteplicità, di differenziazione, di gradazione» (Platone. Alla ricerca della sapienza segreta).
Questa è in sintesi la protologia di Platone, riflessioni sui principi: i principi sono in una relazione bipolare: l’Uno è la fonte dell’essere, trascendente, in quanto al di sopra di ogni essere. La Diade è invece il principio del molteplice, della divisione.
Bisogna ora chiedersi per quali ragioni Platone non abbia mai voluto parlare di queste questioni e quale sia dunque la funzione dei suoi scritti.
Per Platone, le cose più importanti e serie non possono essere scritte perché non possono essere comprese da tutti e, inoltre, certe cose richiedono un’indagine serrata e dialettica e questo non è possibile, secondo il filosofo ateniese, a partire dalla scrittura. Come si afferma nel Fedro:
« Poiché la scrittura, Fedro, ha questo di potente, e, per la verità, di simile alla pittura. Le creazioni della pittura, ti stanno di fronte come cose vive, ma se tu rivolgi loro qualche domanda, restano in venerando silenzio. La medesima cosa vale anche per i discorsi: tu potresti anche credere che parlino come se avessero qualche pensiero loro proprio, ma se domandi loro qualcosa di ciò che dicono coll’intenzione di apprenderla, questo qualcosa suona sempre e solo identico. » (275d).
Con lo scritto non è possibile instaurare quel processo dialettico che, per Platone, è il solo possibile per poter conoscere la verità. Solamente la ricerca dialogica può permettere di individuare gli interlocutori che, veramente, hanno la capacità di afferrare determinati pensieri e apprezzare determinati ragionamenti.
Platone afferma che, invece, lo scritto passa tra le mani di chiunque sia di coloro che ne sanno apprendere i contenuti, sia di coloro che non lo sanno fare:
« (T)utto quanto il discorso rotola per ogni dove, finendo tra le mani di chi è competente così come tra quelle di chi non ha niente da spartire con esso, e non sa a chi deve parlare e a chi no, se poi viene offeso e oltraggiato ingiustamente ha sempre bisogno dell’aiuto del padre (autore), poiché non è capace né di difendersi da sé né di venire in aiuto a se stesso. » (275e)
Come si può notare, tutte le obbiezioni che Platone muove alla scrittura sono obbiezioni di base con una radice dialettica. La conoscenza richiede una conversazione, richiede l’interlocuzione tra il maestro e l’allievo, porre domande e dare risposte in modo rigoroso. Un processo particolarmente lungo, che esige una certa predisposizione intellettuale a questo tipo di operazione. Un processo che la scrittura, afferma Platone, non può avere ed è perciò inabile a far passare i concetti più importanti e fondamentali.
Le osservazioni di Platone sulla scrittura hanno dunque una valenza in primo luogo teoretica, un’esigenza filosofica. Le dottrine legate alle cose più alte non sono fatte per essere messe per iscritto, non si tratta di un’incomunicabilità o di un’ineffabilità di queste cose più alte. Le cose più alte, dice Platone, possono essere eccome comunicate, ma solo oralmente attraverso un articolato processo dialettico.
Una volta chiariti i tratti salienti della posizione di Platone sulla scrittura, bisogna dar ragione dello scrivere di Platone. Sempre nel Fedro possiamo leggere: «Allora (le cose più alte il filosofo) non le scriverà nell’acqua nera, seminandole attraverso la canna assieme a discorsi incapaci di difendersi da sé con parola, e incapaci di insegnare in modo adeguato la verità» (276c) e in seguito: «Ma a quanto pare seminerà e scriverà i giardini di scrittura per gioco, quando li scriverà, serbando un tesoro da richiamare alla memoria per se stesso, nel caso giunga “alla vecchiaia dell’oblio”, e per chiunque segua la sua stessa ombra, e gioirà nel vederli crescere teneri» (276d). La scrittura, per Platone, è per prima cosa un gioco, ma è poi uno strumento per richiamare alla memoria ciò che già si è appreso, per riportare alla mente le cose più alte e vere. La scrittura ha dunque una funzione ausiliaria, a tal proposito, Reale osserva: «Chi ha composto opere scritte, conoscendo il vero sulle cose su cui ha scritto, deve essere in grado di portare ad esse soccorso, deve mostrare in che cosa consista la loro debolezza, ossia di che cosa avrebbero bisogno per essere compiute, e quindi deve difenderle, presentando ciò di cui esse mancano» (Platone. Alla ricerca della sapienza segreta). Lo scritto allora non basta a se stesso per essere compreso. Così si giunge al nucleo della scuola di Tubinga-Milano nell’interpretazione di Platone: reinterpretare i dialoghi platonici alla luce delle dottrine non scritte, per comprendere pienamente gli scritti platonici occorre allora una precomprensione ermeneutica (Vorverständnis cfr. Gadamer).
Da un lato, allora, gli scritti non contengono le cose più “serie” e “importanti”. Dall’altro, però, solo alla luce delle cose più serie gli scritti risultano veramente comprensibili. Gli scritti, attraverso allegorie, giochi di stile, miti, maschere drammaturgiche, celano quei contenuti fondamentali che non sono comunicati in maniera diretta. Reale da un esempio concreto di questa tesi nel suo libro Eros demone mediatore. Il gioco delle maschere nel Simposio di Platone, dove intraprende l’opera di reinterpretazione del Simposio (il dialogo di Platone sull’amore) alla luce delle dottrine non scritte, cercando di cogliere quei riferimenti che rimandano alle cose più alte.
Le dottrine non scritte sono allora le cose più serie e più importanti, quelle cose che non possono essere comunicate ai più mediante lo scritto. Non tanto perché non siano formulabili a parole e riprodotte poi su un papiro, ma perché i più non comprenderebbero queste questioni. Queste dottrine riguardano le cose di maggior valore da trattare con delicatezza e da comprendere con il dovuto rigore, scrive Reale: «Proprio nella Lettera VII Platone ci dice, sia pure di passaggio, che le dottrine non scritte riguarderebbero “l’intero”, ossia il tutto “le cose più grandi”, “il bene”, “il falso e il vero di tutto l’essere”, “le cose più serie”, e in particolare, nel penultimo passo […] “i principi primi e supremi della realtà”» (Platone. Alla ricerca della sapienza segreta).
Solamente gli allievi di Platone, che hanno praticato con lui la dialettica, sono giunti a conoscere le cose più alte. In tal senso, si dovrebbe escludere che gli allievi (come per l’appunto Aristotele) che hanno dato indicazioni circa i contenuti delle dottrine non scritte, non abbiano compreso gli insegnamenti. Platone esclude categoricamente ch’essi non lo abbiano compreso.
Giunti a questo punto, occorre anche domandarsi in che modo si estrinsechi la pregnanza ermeneutica dei dialoghi platonici, il loro contenuto allegorico. Occorre capire cos’è possibile trarre oggi da questi straordinarie opere che sono giunte fino a noi.
Reale, sempre nella sua monografia su Platone, ci dice:
«E, del resto, a queste “cose di maggior valore”, ossia a quelli che sono “i principi primi e supremi della realtà”, Platone fa continui richiami nei suoi dialoghi con precisi messaggi trasversali […]: si tratta di richiami ipomnematici utili per chi aveva seguito le sue lezioni, e che noi, oggi, fortunatamente possiamo comprendere, al di là del loro significato allusivo, come precisi rimandi alle “dottrine non scritte”». (Ivi.)
Le opere platoniche sono, in tal senso, dei tabernacoli di significati di alto rilievo metafisico, una sapienza ermeneuticamente cifrata attraverso diverse formule ed espedienti narrativi. I dialoghi sono allora a tutti gli effetti un gioco di stile, attraverso i quali si produce un circolo interpretativo inesauribile di cui possiamo dare anche un esempio, ossia, quello della seconda navigazione, di cui parla Platone nel Fedone, il dialogo che narra la conversazione tra Socrate e i suoi discepoli prima di bere la cicuta e morire a seguito della condanna. Platone, vestendo la maschera di Socrate, espone l’esistenza di una Prima e di una Seconda navigazione.
Tali navigazioni rappresentano la ricerca del filosofo. La Prima navigazione è quella che procede a partire dall’osservazione sensibile immediata. Questa ricerca, però, non conduce a risultati autentici (la critica di Platone è rivolta soprattutto ai filosofi naturalisti che cercavano la causa del tutto negli elementi naturali acqua, aria ecc.), la Seconda navigazione è invece quella che procede con maggior fatica, quando si fa la bonaccia e ci si deve spingere con la sola forza dei remi. Questa è però la ricerca fondamentale che conduce al vero sapere: «Ma poiché (dalla prima navigazione) rimasi privo e non più in grado di trovarla da solo né di impararla da un altro, vuoi tu, Cebete, che io ti illustri la seconda navigazione che intrapresi per andare alla ricerca della vera causa?» (Fedone, 99c-d).
L’espediente narrativo delle navigazioni è proprio quel gioco di stile, quella metafora, quel simbolo dietro al quale Platone cela il contenuto fondamentale della sua protologia.
Platone (parlando con la maschera drammaturgica di Socrate), attraverso la seconda navigazione, giunge alla conoscenza del mondo intelleggibile e delle Idee, le essenze delle cose, scrive Reale: «La “seconda navigazione porta Platone alla scoperta dell’esistenza di un piano dell’essere oltre quella dei fenomeni fisici che conosciamo mediante i sensi, ossia dell’essere metafenomenico, conoscibile mediante i puri “logoi”, vale a dire mediante l’Intelligenza, e quindi dell’essere puramente intelligibile» (Platone. Alla scoperta della sapienza segreta).
La vera conoscenza è allora la conoscenza dell’unità delle essenze intelligibile, di quelle Forme incorruttibili (il bello in sé e per sé, il giusto in sé e per sé e così via). Bisognerebbe poi parlare dell’influenza del pitagorismo in Platone e della relazione tra Idee e Numeri intelleggibili, ma non divaghiamo eccessivamente.
La dialettica è la riconduzione dal molteplice all’unità ed è qui che, attraverso la metafora, Platone apre a quei fondamenti di cui non ha scritto. Le Idee non sono i principi primi, i principi assolutamente primi sono quelli di cui Platone non parla ma solamente allude.
Alla luce di quanto detto sino a questo punto, che ruolo possono ricoprire ad oggi gli scritti platonici? I dialoghi platonici non sono mai conclusivi e risolutivi (autarchici) quando giungono a toccare le questioni fondamentali della filosofia, il senso di apertura che rimane al termine della lettura di questi testi è il contributo più importante che Platone consegna alla filosofia.
Una filosofia sempre aperta alla ricerca di un vero che sempre eccede, un pensiero non totalizzante, ma sempre rilanciato verso il nuovo e che mai si lascia totalmente inglobare dalla parola è l’eredità più grande lasciataci dal filosofo ateniese.
Forse è un bene che Platone sia stato allusivo e reticente a proposito delle dottrine non scritte, perché è proprio a partire da questi non detti che il pensiero può mettere le ali e volare verso gli spazi dell’inesauribilità.
27 settembre 2024