La potenza del mito: la scienza si è infettata, ma cultura e critica possono ancora salvarla

 

I miti, inferociti, continuano a tormentare la nostra vita e l’uomo, sempre più indebolito da essi, è caduto nel silenzio perpetuo che dominerà la sua esistenza.

 

di Niccolò Magrin

 

 

Il concetto di razza si sviluppò nel XVIII secolo con lo scopo di classificare l’umanità in gruppi. Cosa si intende veramente per razza? Ogni raggruppamento d'individui costituito in modo empirico sulla base di caratteri somatici esteriori comuni, ma anche della cultura e della lingua. Il razzismo, che da questo deriva, è in realtà un’ideologia umana collettiva.

Secondo Umberto Galimberti il concetto di “ideologia collettiva” non differisce molto da quello di mito, termine con cui egli intende: «idee che, per ragioni biografiche, culturali, sentimentali o di propaganda, sono così radicate nella nostra mente da agire in noi come dettati ipnotici che non sopportano obiezioni» (I miti del nostro tempo). Stando a questa affermazione, quindi, l’uomo sceglie di credere nei miti perché trova sicurezza in essi e non ha bisogno di chiedersi se siano contraddittori o meno.

Quando più persone cominciano a credere nello stesso mito si crea un ordine collettivo immaginario che coinvolge chiunque, trasportandolo in un sistema di valori comune.

Questa cieca fiducia può sfociare in esiti tanto positivi quanto negativi, a seconda della correttezza dell’ideologia alla base del mito: prendendo in analisi la Dichiarazione d’Indipendenza americana, si può notare che ha portato ad una situazione di pace, tranquillità e stabilità. Questo è un esempio virtuoso di mito, il quale è riuscito a trasmettere dei valori positivi che hanno garantito un miglioramento della qualità di vita a tutti i cittadini.

Al contrario, di esempi opposti ce ne sono parecchi: basti pensare ai lager, alle leggi razziali e, infine, all’idea stessa di razza che, partendo da principi illogici, hanno portato a conseguenze molto negative nell’immediato; ma poi, una volta superata, a un miglioramento complessivo seppur dilatato nel tempo. Sbagliando si impara, si dice; ma l’errore è proprio necessario? Per poterlo prevenire bisognerebbe avere la capacità di essere a conoscenza di tutte le variabili in gioco nella realtà di una potenziale situazione negativa, prima che essa si verifichi. Si tratta di un’operazione che va oltre le capacità umane e che, quindi, risulta assai complessa; ma se l’uomo continuasse ad approfondire la natura del mondo la probabilità dell’errore, non attualmente eliminabile, verrebbe ridotta.

 

Trattandosi di miti collettivi, essi possono interessare una grande quantità di individui o, in alcuni casi, l’intera società. Un esempio significativo è il denaro: oggettivamente esso non è altro che un rettangolo di carta speciale decorata con numeri e simboli, eppure, nel pensiero soggettivo, acquista un valore completamente diverso, che lo rende essenziale per la vita. Proprio per questo, al giorno d’oggi, si parla di società di massa intesa come un gruppo di individui che sostengono una certa tesi e sono in grado di influenzare il singolo portandolo dalla loro parte. Costui, tuttavia, non è giustificato ad accettare acriticamente tali princìpi: dovrebbe sottoporli ad un’analisi dettagliata e decidere se condividerli o meno; in caso individuasse qualche contraddizione sarebbe opportuno che riportasse nella giusta via l’intera massa promuovendo il confronto.

Talvolta può accadere anche che un’ideologia riguardante pochi, i quali sono però figure di potere, appaia come comune semplicemente perché non contrastata dalla popolazione, seppur negativa; e poi si trasformi in universale nel momento in cui venga condivisa da tutti attivamente. Un caso esemplare è rappresentato dalla situazione americana che vedeva gli individui bianchi sovrastare gruppi etnici minori facendo uso di leggi appositamente create, leggi razziali.

Questa logica ha fatto sì che i discriminati si siano autoconvinti progressivamente della loro inferiorità sociale, politica ed economica, perdendo fiducia in loro stessi e diventando ciò che non li rappresentava: considerati ignoranti e con meno capacità, i neri erano indotti a preferire e frequentare scuole di grado più basso ricevendo una minore preparazione e non potendo, così, accedere a professioni più prestigiose come avvocato, medico o semplicemente impiegato.

 

Ma come nacque tutto ciò? Già a partire dalla pratica della tratta degli schiavi, per la quale i neri erano prediletti per ragioni economiche, i bianchi manifestarono la loro superiorità perché, a differenza degli africani, rimanevano persone e non merce di scambio. Secoli dopo la schiavitù è stata abolita, sono state emanate leggi a favore della reintegrazione, ma la diversità sociale è rimasta; quindi, qual è il criterio di questa classificazione?

 

 

« Le gerarchie sociopolitiche difettano quasi sempre di un fondamento logico o biologico – non sono altro che la perpetuazione di eventi casuali supportati da miti. » (Yuval Noah Harari, Sapiens. Da animali a dèi)  

 

Alcune correnti di pensiero sostengono modelli di società che tengono come struttura di base la biologia: è il caso del darwinismo sociale. Secondo il dizionario Treccani si tratta di: «applicazione allo studio delle società umane dei principi darwiniani della lotta per l’esistenza e della selezione naturale, diffuso nella seconda metà dell’Ottocento ad opera di pensatori positivisti». Darwin, il celebre naturalista del XIX secolo, ha elaborato una teoria evolutiva secondo cui a sopravvivere era il più il meglio adattato. Negli stessi anni il razzismo aveva raggiunto ampia espressione, tanto che cercava sostegno in diverse teorie scientifiche: ecco che la teoria darwiniana venne sfruttata per giustificare la supremazia di una specifica categoria, la più conforme al periodo storico.

Altra idea pseudo-scientifica a favore dell’ideologia razziale è l’eugenetica, letteralmente “buona razza”, che ha l’obiettivo di realizzare un miglioramento della specie umana, come si fa per animali e piante in laboratorio, selezionando solo i caratteri ereditari migliori. Da ciò si è arrivati ad affermare l’esistenza di un “superuomo”, ossia un individuo dotato di qualità perfette e che eccelle in qualsiasi cosa, cadendo nuovamente nella trappola della discriminazione e nell’idea di selezionare individui adatti alla riproduzione impedendola, così, ad altri.

La definizione di razza trovò sostegno anche biologicamente sulla base della differenza genetica e Luca Cavalli-Sforza, genetista italiano, ha elaborato uno studio per confutare questa teoria: prendendo a campione due soggetti europei e un europeo e un africano, egli ha notato che la differenza genetica è pressoché la stessa e ha concluso che la divisione in razze “genetiche” è totalmente arbitraria.

Da queste teorie possiamo dedurre che la scienza, in particolar modo la biologia, si trovava in uno stato confusionario: veniva sfruttata in maniera positiva o negativa a seconda delle circostanze, risultando a volte pure contraddittoria. La biologia, in quanto tale, deve avere come obiettivo quello di togliere contraddizioni e, di conseguenza, non può essa stessa cadere in contraddizione, altrimenti non si potrebbe neanche più parlare di scientificità, bensì di mito. Nonostante ciò, in questo periodo buio caratterizzato dall’assenza di valori, ossia il nichilismo, essa stessa è stata un po’ deviata dal suo scopo principale. Quanti esperimenti furono fatti in epoca nazista con lo scopo di sostenere le teorie razziali? Tanti. Quanti genetisti si sono impegnati a trovare dati a favore di queste teorie? Tanti. Ecco che il potente mito del razzismo, proprio come un virus, è riuscito ad infettare anche le scienze più immuni come la medicina stessa.

 

Tutto ciò è frutto delle circostanze in cui si trova l’uomo, le quali hanno senz’altro influenzato la sua mentalità e il suo modo di agire: il “superuomo”, per esempio, è stato definito dal letterato G. D’Annunzio come un “poeta Vate”, ossia come colui che è guida e profeta per il Paese, vivendo una vita piena di emozioni e passioni, in una dimensione estetica. Ecco che una figura di questo tipo si fa dux per le altre persone, riconoscendone comunque l’importanza e la dignità, a differenza del “superuomo” nazista il quale è modello per evidenziare l’uomo perfetto, unico essere degno di vita.

Anche lo storico israeliano Y.N. Harari ha riletto questo pensiero ampliandolo e definendolo come uno scontro tra biologia e cultura, idea nata dalla necessità di capire come distinguere ciò che la biologia determina da ciò che tendiamo a legittimare utilizzando miti biologici:

 

« La biologia consente, la cultura proibisce. La biologia è propensa a tollerare uno spettro di possibilità assai ampio. È la cultura che impone alla gente di attuare certe possibilità proibendone altre. » (Y.N. Harari, Sapiens. Da animali a dèi)

 

 

Dunque: da una parte la scienza biologica, dall’altra la dinamicità spazio-temporale della cultura. Spesso si dice che esiste l’innaturale, ma questo non è prodotto dell’interpretazione culturale della biologia? Esso è solamente uno dei tanti esempi di come l’uomo limiti la propria visione della natura: infatti, esiste veramente qualcosa di innaturale? La proibizione culturale, in questo senso, appare come infondata in quanto non può esistere qualcosa di innaturale perché, esistendo, appartiene alla natura. La cultura, quindi, non dovrebbe avere lo scopo di limitare, ma, al contrario, di ampliare gli orizzonti umani in modo tale da conoscere al meglio la realtà nella sua completezza.

Essendo la cultura il prodotto di una combinazione di molte variabili, come la religione, esperienze personali, Paese di provenienza e valori, questa è strettamente legata al singolo e quindi definibile soggettiva. Questo può portare a conseguenze positive o negative a seconda dei fattori che si presentano all’uomo e al peso che egli vi attribuisce: se un adolescente cresce in una famiglia dedita al furto, gli verrà insegnato che questo è il modo più vantaggioso per arricchirsi e condurre una buona vita. Nonostante ciò costui è inserito in una società civile che condivide l’idea del lavoro onesto: quindi dispone di entrambe le possibilità. Perché sceglie di optare per la prima e non per la seconda? L’essere umano agisce compiendo ciò che egli vede come più importante, che potenzialmente potrebbe essere contraddittorio, ma che, con le relazioni e le variabili di cui dispone in quelle circostanze spazio-temporali, gli appare come non contraddittorio e quindi come un valore positivo. È, perciò, una questione di importanza: dà più rilevanza alla filosofia familiare, non rendendosi conto della sua contraddittorietà, che dà negatività al valore.

Talvolta, la “soggettività” della realtà può costituire un punto di vantaggio: in una società in cui, ad esempio, l’ideologia dominante sia dannosa, se un individuo tra molti se ne rende conto, diventa fondamentale che costui dimostri la correttezza della sua visione e convinca, razionalmente, chi ha di fronte del rilievo che ha, uscendo dal buio della contraddizione.

 

Si trovano in gioco tre grandi colossi: il mito, la cultura e la scienza. Come possiamo combinarli? Esiste un modo? Tutto è possibile, anche se non nell’immediato. L’approccio scientifico è rigoroso, non contraddittorio, considerando le relazioni e le variabili di uno specifico momento; tuttavia questo non fornisce una connotazione di valore della teoria la quale, perciò, deve essere interpretata dalla soggettività umana che non è altro che la cultura, appunto. Quest’ultima, dunque, dovrebbe avere lo scopo di fornire dei valori comuni all’umanità con i quali orientare la scienza nel modo più corretto possibile. Da questa fusione tra scienza e cultura prendono forma delle teorie che, al momento della loro formulazione, appaiono logiche e che, quindi, rischiano di non venire più messe in discussione: che cosa sono se non miti?

La storia però è soggetta ad una costante evoluzione di circostanze, valori e relazioni e questo implica che sia necessaria una continua messa in discussione del contenuto del mito. Per questo è importante nel mondo la critica, termine che deriva dal greco krìno significante “giudico, valuto, interpreto”, con la quale è opportuno verificare la validità di ogni mito. Cosa succede se ciò non accade?

 

« Chi non ha il coraggio di aprirsi alla crisi, rinunciando a quelle idee-mito che finora hanno diretto la sua vita, non guadagna in tranquillità, ma si espone a quell’inquietudine propria di chi più non capisce, più non si orienta. » (U. Galimberti, I miti del nostro tempo)

 

Attualmente ciò è difficilmente realizzabile: in una società individualistica, consumistica e semplicistica l’uomo viene indotto a rimanere passivo sminuendo le sue potenzialità di contribuire all’aggiornamento del contenuto e della formulazione dei miti. Ecco che egli sarà destinato a soggiornare nelle tenebre della contraddizione. 

 

7 dicembre 2019

 









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