Cosa rimane dell'anima

 

Nel Fedone di Platone, tra i vari concetti presi in esame, c’è quello di anima. Per chi non si occupa di filosofia questo termine potrebbe risultare obsoleto o mistico, in quanto nella nostra società non viene più usato, se non in alcune religioni. Ma perché non si parla più di anima e da che altra idea è stata rimpiazzata?

 

di Antonio Martini

 

 

Socrate dialoga fino in punto di morte con i suoi amici, non astenendosi dal filosofare nemmeno di fronte all’estrema sentenza. Nelle ultime battute della sua vita, riportate nel Fedone, Socrate dialoga con Simmia e Cebète. Mentre questi ultimi si rammaricano della sua morte, il maestro di Atene non può che esserne contento. Socrate è convinto che con la morte l’anima si stacchi dal corpo ed essa si ricongiunga agli dei. Saranno questi gli argomenti del dialogo: l’immortalità dell’anima e il rapporto che essa ha con il corpo. Per prima cosa sostengono che l’anima è governata dall’intelligenza, che non si deve far influenzare dalla corporeità e dai sensi. «In generale dunque non pare a te, disse, che la occupazione di tale uomo [il filosofo] non sia rivolta al corpo, e anzi si tenga lontana da esso quanto è possibile, e sia invece rivolta all’anima?» (64 e) Il filosofo, ovvero colui che cerca la verità, deve essere il più possibile staccato dalla sensibilità, la quale limita l’uomo dall’ottenere la sapienza completa. L’anima, nella ricerca della verità, fugge dal corpo, possiamo dire che ne è contrapposta. Non solo, anche nella conoscenza l’anima è contrapposta al corpo e per capire che cos’è giusto, bene, bello ecc. è l’intelligenza che deve intervenire astraendo ciò che proviene dai sensi. Durante la vita è impossibile arrivare a cogliere in pieno la sapienza perché si sarà sempre sviati dai sensi. 

 

« Se mai vorremmo conoscere alcuna cosa nella sua nettezza, ci bisognerà spogliarci del corpo e guardare con sola la nostra anima pura la pura realtà delle cose. E solamente allora, come pare, riusciremo a possedere ciò che desideriamo e di cui siamo amanti, la sapienza. » (66 d-e)

 

Proprio per questo motivo, in punto di morte, Socrate non ha paura, né è addolorato: ciò che desiderava da sempre era di essere solo, in compagnia della sua anima, la pura sapienza, priva di qualsiasi legame corporeo.

 

Per conoscere è necessario aver già presente l’eguale in sé di quella cosa, il quale deve essere innato all’interno della propria anima. L’idea che ci facciamo di una determinata cosa partecipa della sua idea in sé e questa non può sorgere con la nostra nascita. L’idea in sé è qualcosa di già presente nell’anima e proprio per questo essa non può iniziare ad esistere con il venire alla vita dell’uomo, deve esserci da sempre. 

 

Per capire se l’anima sia o meno immortale, i tre si domandano che cosa non sia soggetto al deperimento. Ciò che non perisce rimane sempre costante e invariabile, è la realtà in sé delle cose, la quale è possibile raggiungerla solo attraverso il pensiero e la meditazione. 

 

Dalla concezione dell’anima di Platone emerge la sete di una ricerca, quella della verità, che spinge l’uomo a coltivare la sua anima per essere più sapiente possibile, per essere filosofo. Platone concepisce l’anima come ciò che perdura, che va oltre il dileguarsi del corpo, ciò che rimane dopo la morte e che ci accompagna per tutta la vita. L’anima è in contrapposizione con il corpo (lasciamo al lettore il riflettere se ciò sia possibile o meno), è l’unica fonte di conoscenza autentica, ciò che vale la pena curare e migliorare. 

 

Dopo questa breve disamina della concezione dell’anima nel Fedone, vorremmo ora rivolgerci a ciò che ne è rimasto di questa idea nella nostra società. 

 

Il termine anima è totalmente scomparso dal nostro linguaggio, non lo si sente usare, viene percepito come qualcosa di retrogrado o velleitario. C’è una sorta di diffidenza verso questo termine, come se avesse solo un significato sulla carta e non nella realtà dei fatti. Non si parla di anima perché questo aspetto della vita è relegato alla sfera personale, non c’è spazio per questo concetto nella vita pubblica. 

 

Gli ambiti più importanti del nostro vivere pubblico sono privi del concetto di anima: economia, politica e scienza pensano di poterne fare a meno. Non c’è spazio per il bene, il giusto, l’onesto, il bello nella nostra società e quindi non c’è spazio per l’anima. L’economia è puro interesse e legge del più forte, la politica è totalmente abbandonata alla chiacchera e all’opportunismo, la scienza è tecnica. 

 

Gli unici ambienti in cui si pensa alla cura delle anime sono la religione e la scuola, ma a mio parere è troppo poco. Non può lo Stato relegare una parte intrinseca del motivo per cui è costituito ad una realtà che gli è esterna (o che perlomeno dovrebbe esserlo), cioè la religione. Se lo Stato è quell’istituzione dove si cerca di promuovere il bene per una determinata comunità, allora questo dovrebbe effettivamente essere portato avanti. La scuola svolge solo in parte questo compito: per prima cosa è riservata ad una fascia d’età limitata e in secondo luogo l’edificazione dell’anima ha sempre meno importanza. A scanso di eccezioni, a scuola si va per formare delle competenze per un futuro lavorativo, non di certo per essere sapienti. 

 

L’elemento strutturale di promozione del bene e del giusto, che dovrebbe essere bagaglio di ogni istituzione e realtà statale, è rimpiazzato dall’utile e dall’assenza di ogni altro valore. Le nostre scelte non sono orientate dalla sapienza perché il bene non è ciò che ricerchiamo, al massimo si cerca di fare il proprio di bene e mai si concepisce che possa essere collegato con quello degli altri. Si sostituisce l’eternità con l’accidentalità e l’immediatezza del momento, con il pensare che ciò che facciamo non ha una ripercussione sul resto del mondo e della storia.

 

Per concludere vorrei proporvi ciò da cui è stata rimpiazzata l’anima, ossia la coscienza

 

Essa è la corte d’appello di ogni persona, l’ultimo baluardo prima di prendere qualsiasi decisione. Perfino quando si fa qualcosa di illegale e si sa che probabilmente non si verrà beccati, l’ultima cosa con cui ci si confronta è la propria coscienza. Si prendono o meno determinate scelte solo per non portare un certo "peso dentro" per tutta la vita.

 

La coscienza è il frutto del dispiegamento dell’etica all’interno di noi e il luogo in cui risiede la nostra morale. Molte volte l’unica cosa a cui si presta fede è la coscienza, forse perché questa è effettivamente l’ultimo appello a cui dobbiamo rifarci. Il problema sta, secondo me, in come questa coscienza viene edificata. Perché, se essa subisce una modificazione puramente accidentale, anche quello che delibererà sarà disordinato e scollegato dal resto della realtà; al contrario, se verrà educata a rifarsi alla totalità, quando dovrà decidere, forse correrà meno il rischio di compiere violenza. 

 

Ecco che appare importante distinguere tra due tipi di coscienza: la coscienza morale e la verace coscienza morale. La coscienza morale è la particolarità in genere, è soggettiva, «nella sua universalità riflessa entro di sé, [è] ciò che pone la particolarità, il determinante e decidente» (Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto) Invece «la verace coscienza morale è la disposizione d’animo di voler ciò che è buono in sé e per sé; essa ha perciò princìpi stabili; e questi sono invero per lei i doveri e le determinazioni per sé oggettivi.» (Ibidem)

 

Il surrogato dell’anima, ossia la coscienza morale, mi sembra essere sempre più simile ad un grillo parlante, qualcosa che centra solo con me, un dialogo meramente interiore, che non viene da un’esperienza di restituzione con l’altro. Faccio un piccolo inciso polemico: forse la religione cattolica ha aiutato molto in questa concezione della coscienza come ciò da cui mi devo guardare e mai come qualcosa con cui dialogare. Così intesa la coscienza  morale non può essere fonte di sapienza perché non è qualcosa che edifica, ma è totalmente accidentale. La sapienza vive della necessità che sta dietro alla costruzione di un concetto e questo non può essere confinato alla mia esperienza personale. La verace coscienza morale, a cui vorrebbe assurgere l’anima attraverso la sapienza, è qualcosa che deve essere fondato e rigorizzato attraverso il confronto. È una condizione propria dell’anima essere eterna, perché non si può confinarla nella vita di una singola persona: la sapienza si fonda nel confronto e nella condivisione. 

 

« Il bene è in genere l’essenza della volontà nella sua sostanzialità e universalità, – la volontà nella sua verità; – esso è perciò puramente e semplicemente soltanto nel pensare e in grazia del pensare. L’affermazione pertanto che l’uomo non possa conoscere il vero, bensì che abbia a che fare soltanto con fenomeni, – che il pensare nuoccia alla buona volontà, queste e simili concezioni portan via allo spirito ogni dignità e valore così etico, come intellettuale. » (Ivi)

 

In conclusione, mi sembra emergere che l’istituzione, luogo e prodotto del confronto e della mediazione, debba essere improntata alla cura dell’anima, per non far violenza a quelle stesse persone che ne fanno parte. Lo Stato, che si esprime nell’economia, nella politica, nella scuola, nella sanità, dovrebbe essere il luogo di produzione del bene della comunità, il luogo in cui si compie la libertà dell’individuo.

 

« Lo stato è la realtà dell’idea etica, – lo spirito etico, inteso come la volontà sostanziale, manifesta, evidente a se stessa, che pensa a sé e porta a compimento ciò che sa e in quanto lo sa. Nel costume lo stato ha la sua esistenza immediata, e nell’autocoscienza dell’individuo, nel sapere e nell’attività del medesimo, la sua esistenza mediata, così come l’autocoscienza attraverso la disposizione d’animo ha nello stato, come in sua essenza, in fine e prodotto della sua attività, la sua libertà sostanziale. » (Ivi)

 

Per poter essere liberi – usando le parole di Hegel – o per essere sapienti – usando quelle di Platone –, la propria coscienza morale non deve rappresentare l’unico spazio di valutazione del da farsi – il mio rapporto con il grillo parlante –, ma deve lasciare spazio alla costruzione dell’anima – alla costruzione della verace coscienza morale – che si nutre del confronto socratico con l’altro: so che mi manca sempre qualcosa per diventare più sapiente, so di non sapere, quindi necessariamente devo confrontarmi per poter dare un respiro eterno alla mia anima.

 

18 novembre 2020

 








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