Un'oscurità trasparente. Seneca, Pessoa e il problema del taedium vitae

 

«La noia è l'uccello incantato che cova l'uovo dell'esperienza» scriveva Walter Benjamin nell’Angelus Novus. Mentre la noia ha spesso beneficiato di giudizi positivi nel corso dello sviluppo del pensiero, lo stesso trattamento non è stato riservato a quella condizione umana che cade sotto il nome di taedium vitae.

 

Ron Hicks, "Solace" (2018)
Ron Hicks, "Solace" (2018)

 

Il motivo risiede nella connotazione diversa, per certi aspetti molto più profonda, metafisica, rispetto a quella a cui la noia fa riferimento: il tedio intende infatti definire quella condizione umana caratterizzata dalla mancanza (o perdita) di valori, di fondamenti che diano senso e direzione all’esistenza, che infine preservino l’uomo dalla noia esistenziale del sempre uguale. Questa condizione affonda le sue radici in un fenomeno sociale: è infatti dal momento in cui l’essere umano è stato in grado di avere scholé, tempo libero, che lo spettro del tedio ha iniziato ad aleggiare sopra di lui. Sono stati perciò filosofi, artisti, poeti, più in generale le classi agiate nel corso dei secoli a doverci fare i conti, dalle più svariate prospettive. Tuttavia, in modo suggestivo, a volte le osservazioni condotte da angolature totalmente differenti ne condividono alcuni scorci.

 

Un caso interessante, per la distanza non solo temporale ma anche intellettuale, è rappresentato da Lucio Anneo Seneca e Fernando Pessoa: stoico, uomo politico (per una lunga fase della sua vita), filosofo e terapeuta dell’anima il primo; giornalista, poeta, vissuto nascosto per tutta la vita il secondo. Nonostante la loro riflessione si svolga a distanza di secoli, anzi millenni, e per questo avvenga in contesti intellettuali per larghi tratti antitetici, è interessante riflettere sulla vicinanza dei loro schemi teorici nell’analisi di questo mostro esistenziale rappresentato dal taedium vitae.

 

Prima di entrare nel vivo, una considerazione introduttiva di metodo: la scelta di adottare, come secondo termine di confronto in questo articolo, il Libro dell’inquietudine è puramente soggettiva: alcuni degli eteronimi di Pessoa (primo su tutti Ricardo Reis) sono cultori delle filosofie ellenistiche, stoicismo ed epicureismo, e potrebbero sicuramente essere soggetti privilegiati in un confronto di questo tipo. Concentrarsi su una singola figura, in questo caso Bernardo Soares (eteronimo del Libro dell'inquietudine) risponde, oltre che ad una scelta personale, all’esigenza di conservare la voluta frammentarietà dell’autore, senza voler forzare connessioni di alcun tipo tra i vari eteronimi.

 

Esplicitata questa premessa, si può in prima battuta notare come gli artifici letterari che i Nostri hanno scelto di utilizzare (Seneca nei Dialoghi, Pessoa nel Libro dell’inquietudine) convergono in un punto: entrambi rappresentano un colloquio dell’autore con se stesso, in cui il movimento dell’io è messo totalmente a nudo nei suoi dubbi e nelle sue esitazioni. La differenza sta nel fatto che, mentre la scrittura di Pessoa si articola in un racconto puramente autobiografico (seppur nella persona di Bernardo Soares), quella di Seneca è una scrittura dialogica, nella misura in cui nei suoi scritti sono sempre presenti degli interlocutori, ad esempio Sereno nel De tranquillitate animi (ma i turbamenti dell’animo protagonisti dei Dialoghi sono spesso quelli di Seneca, più che quelli dell’interlocutore).

 

Il De tranquillitate animi, dialogo di Seneca scritto nell’ultima fase della sua vita, è un testo che mira ad indicare la via da percorrere in vista del raggiungimento e della conservazione della stabilità d’animo, della tranquillitas, intesa come disposizione psichica regolare capace di tenere una rotta buona e sicura nella vita, senza abbattimenti o esaltazioni. Non si tratta, è importante sottolinearlo, di raggiungere una situazione di inerzia, statica, un semplice stare appartati, bensì un equilibrio dinamico nel mare dell’esistenza (l’analogia marina utilizzata da Seneca, in una lettera a Lucilio, per descrivere quella concezione superficiale della tranquillitas è invece il mare mortuum, il mare piatto, senza un alito di vento, senza onde).

 

Busto di Lucio Anneo Seneca (4 a.C. - 65 d.C.)
Busto di Lucio Anneo Seneca (4 a.C. - 65 d.C.)

 

Il De tranquillitate, oltre ad essere tutto questo, per necessaria conseguenza è però anche un testo che si occupa dell’inquietudine, della noia, della instabilità d’animo, del tedio. Ed è su questo versante che Seneca, oltre ad essere filosofo, si dimostra maestro di vita, accompagnando Sereno (secondo protagonista del dialogo, oltre a Seneca) in un’analisi della sua inquietudine lungo il cammino verso la virtù, foriera di tranquillitas. Seneca prescrive una cura che appare tanto facile da enunciare quanto difficile nella sua applicazione: avere fiducia in se stessi, nei propri mezzi, soprattutto nel proprio progresso morale così arduamente conquistato, bussola che consente di navigare a debita distanza dall’instabilità d’animo che avvelena le proprie passioni e i propri progetti; causa, tale instabilità, dei due comportamenti opposti ma complementari nella loro opposizione alla virtù: la levitas, la malattia di coloro che mutano continuamente i propri propositi, e l’inertia, malattia di coloro che «vivono non come vogliono, ma come hanno cominciato». In altre parole, per Seneca instabilità d’animo vuol dire non riuscire ad approcciarsi a passioni e progetti in maniera corretta, cioè attraverso la valutazione razionale: valuta te stesso, i tuoi compiti e gli uomini attorno a te. Questa mancata operazione conduce ad una eccessiva mutevolezza o ad una debolezza eccessiva del volere.

 

Nel De tranquillitate animi Seneca descrive dunque la parabola di questi uomini d’animo instabile: essi cercano di realizzare quanto desiderano con ogni mezzo, senza riuscirci. Davanti al fallimento, si pentono delle bassezze compiute, e hanno paura di tentare nuovamente, ritrovandosi così in una morsa fatale tra i propri incontrollabili desideri, incapaci di abbandonarli, e l’inefficacia delle proprie azioni. I due fuochi di questa spirale sono dunque così tratteggiati da Seneca: la levitas indica una sorta di disordine del proponimento, un continuo contraddirsi e pentirsi. Il mutamento di proposito non si esplica nel mutamento di obiettivo in sé, semmai nella mutabilità della condizione del soggetto nei confronti dell’oggetto del desiderio; dall’altro lato, l’inertia, un blocco della volontà, che prima era tutta protesa in avanti e adesso si ritrova compressa nel soggetto, incapace di dominare le proprie passioni. Per usare le sue parole, gli uomini «non possono né dominare i loro desideri né assecondarli, l’irresolutezza di una vita che non riesce a realizzarsi e l’inerzia dell’animo che s’intorpidisce tra desideri frustrati.»

 

L’esito finale, l’effectus, di questo percorso a cascata tra i due estremi è il disprezzo di sé, il conflitto con se stessi, l’incapacità di creare un rapporto sano con il mondo: in una parola, il taedium. Seneca lo tratteggia in vari modi, come «la triste e penosa sopportazione del proprio ozio», l’irrequietudine, la noia esistenziale del sempre-uguale. Lo schema delineato da Seneca è perciò chiaro: l’instabilità dell’animo conduce l’uomo a girare a vuoto tra la voglia incontrollabile di assecondare i propri desideri e l’impossibilità di realizzarli. L’inevitabile sbocco di questa spirale è il taedium vitae.

 

Due millenni dopo, in una piccola via di Lisbona, Fernando Pessoa descriverà con dei tratti molto simili a quelli senecani la stessa patologia dell’animo, in quella mole di manoscritti che andranno a comporre Il libro dell’inquietudine: «il tedio non è la malattia della noia di non aver nulla da fare, ma una malattia maggiore: sentire che non vale la pena di fare alcunché. E poiché è così, quanto più c’è da fare, tanto più tedio bisogna sentire» (fr. 92 dell’edizione di Antonio Tabucchi); una gabbia metafisica dalla quale «la mia impazienza vorrebbe sempre strapparmi [...] e la mia inerzia costantemente mi ci trattiene». Infine, nell’immagine forse più vicina alla visione senecana, il tedio «consiste in una sensazione diretta, come se sopra il fossato del castello dell’anima si alzasse il ponte levatoio e fra il castello e le terre circostanti restasse il poterle guardare senza poterle percorrere» (fr. 118).

 

Le due fenomenologie patologiche hanno dunque molti tratti comuni. Ciò che cambia in Soares/Pessoa è semmai la causa generale, che diventa «la perdita, dentro l’anima, della capacità di illusione, la mancanza, nel pensiero, delle scale inesistenti grazie alle quali il pensiero ascende fiducioso alla verità»; lo stesso pensiero ascensionale che conduce secondo Seneca, e più in generale secondo lo stoicismo, a comprendere la razionalità del reale, la sua necessità, e di qui all’atteggiamento virtuoso. Senza questa fiducia non solo nell’esistenza di un logos razionale, ma nella capacità dell’uomo di giungere alla sua comprensione, viene meno la base metafisica su cui si poggia, in Seneca, la conquista della tranquillitas; tanto è vero che, anche se per ragioni di spazio non potrà essere un concetto sviluppato in questo articolo, Soares fa raramente riferimento ad una condizione di tranquillitas, e quando lo fa sembra caratterizzarlo spesso come una sorta di fenomeno transitorio inter-onirico, un dimenticamento dell’anima, un non avvertirla, l’ubriachezza di non essere nulla che non è né tedio né pena (fr. 35, 199). Nulla di più lontano dalla stabile conquista senecana della stabilità d’animo.

 

Fernando Pessoa
Fernando Pessoa

 

Dunque, il quadro teorico in Soares si rovescia, pur conservando gli stessi elementi: mentre il sapiente stoico, sapendo prevedere i colpi della sorte, ha fatto cadere ogni illusione (ad esempio, l’illusione che la sorte possa non colpirlo, o di poter raggiungere qualcosa al di là delle proprie forze e possibilità), la perdita di queste ultime è invece per Soares il punto d’inizio della sua ricerca etica e filosofica. Naturalmente, le illusioni di Soares sono di segno opposto rispetto a quelle senecane: perderle significa comprendere che la vita è insensata, tutto è nulla e non esiste alcuna razionalità del mondo.

 

Lo svestirsi dalle illusioni, ciò che per Seneca è il punto di arrivo, diventa in Soares la miccia che innesca lo stesso movimento a spirale di cui è vittima l’uomo instabile nel De tranquillitate animi; anziché, tuttavia, barcamenarsi tra inertia e levitas, l’uomo pessoano vaga tra vita e sogno, che dei primi due termini conservano rispettivamente alcuni caratteri. Da un lato infatti, con la perdita (o meglio, la frustrazione) di ogni illusione, diventa per Soares impossibile agire nel mondo, in virtù della paradossale "importanza metafisica” di ogni gesto compiuto. La consapevolezza della nullità del mondo fa da contraltare alla elevazione dell’azione umana, potenzialmente in grado di sconvolgere ogni cosa (fr 192); di fronte al surplus metafisico dell’azione, Soares sprofonda in una sorta di inertia: non sa volere. Sono solo le illusioni che permettono all’uomo il movimento, l’azione, anche soltanto la capacità di produrre un pensiero reattivo nei confronti del reale. La vita è sopportabile solo quando la si vive senza prenderne coscienza (fr. 100, 211), e vedere con chiarezza al contrario può significare solo non agire (fr. 202).

 

L’uomo si rifugia allora nel sogno. È solo attraverso quest’ultimo che la spinta propulsiva umana riesce ad esprimersi. Ma lo scacco dell’inquietudine giunge anche lì, perché i Cesari e gli Orazi che Soares è stato in sogno non sono reali. In prima battuta sembra che nel sogno tutto ciò che vogliamo si possa ottenere e soprattutto conservare intatto. Tuttavia, tristemente Soares annota nel diario: “qualunque cosa sogni, rimango dove sono”. È questa sollecitazione verso il desiderio il carattere principale che il sogno pessoano conserva della levitas senecana: con la particolarità che nel rovesciamento del quadro teorico la spinta propulsiva umana, che in Seneca viene frustrata all’esterno per poi ripiegarsi all’interno dell’uomo, in Soares trova espressione e frustrazione proprio nell’interiorità umana, nelle possibilità senza limiti del sogno. È paradossalmente nel contatto con il mondo che la volontà si sente ingabbiata. Vale riportare per intero un suggestivo passaggio di Soares:

 

« Poveri semidei, apprendisti, commessi che conquistano imperi con parole e nobili bisogni, e sono a corto di quattrini per l’affitto e per la spesa! Sembrano le truppe di un esercito disfatto i cui condottieri nutrirono un sogno di gloria del quale ai reduci perduti fra le canne delle paludi rimane soltanto la nozione di grandezza » (fr. 108).

 

Jacques-Louis David, "Morte di Seneca" (1773)
Jacques-Louis David, "Morte di Seneca" (1773)

 

La vita è morta, il sogno non è mai esistito. L’impossibile ricerca della tranquillitas si infrange contro l’insensatezza del mondo e l’inconsistenza del sogno: non c’è nostalgia più dolorosa di quella delle cose che non sono mai state (fr. 200). Vale sicuramente la pena ricordare come, forse, proprio per questa impossibilità, quella di Soares non sia mai una vera e propria ricerca, quanto piuttosto una attestazione di alcuni momenti di quiete dell’anima. Lo schema di Soares, in conclusione, è nella forma, nel movimento, vicinissimo a quello senecano: la frustrazione delle illusioni (corrispettivo dell’instabilità d’animo) conduce l’uomo a girare a vuoto tra l’impossibilità di agire in un mondo insensato e il perpetuo sgretolamento della realtà fittizia del sogno. L’inevitabile sbocco di questa spirale è il taedium vitae.

 

In Soares, così come in Seneca, il tedio presuppone sempre un rapporto malato, conflittuale tra il mondo e quanto di umano vi entra in relazione, siano esse illusioni in Soares o passioni e progetti in Seneca. Si può azzardare e dire che sono modi diversi di indicare la stessa cosa: i progetti diventano illusioni perché cambia la metafisica alla base, con un forte rovesciamento di prospettiva, ma le reazioni umane di fronte alla frustrazione scavalcano i secoli, perché permane questo stato di movimento negato, di tedio appunto. Per una strana ironia del destino, una delle più grandi frustrazioni per Soares/Pessoa sarà proprio l’illusione della scrittura:

 

« Mi dispiace che non sia valsa la pena scrivere, e che il tempo perso in ciò che ho scritto l’ho guadagnato soltanto nell’illusione, ora perduta, di aver creduto che valesse la pena scriverlo » (fr. 184)

 

27 luglio 2022






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