Dell'umiltà di essere

 

Anche chi ha votato la sua esistenza alla conoscenza, facendo di sé un ricercatore appassionato, dovrebbe ritornare a riflettere sul senso della sua stessa volontà di sapere. Perché si è scelto di conoscere, e quali sono le reali ragioni per cui ogni giorno mi siedo difronte alla scrivania? Ripensare al motivo per cui si desidera conoscere permette di intervenire qualora la propria fonte di motivazione fosse diventata quella falsa e pericolosa credenza di cui, talvolta, si fanno suoi adepti gli accademici e che consiste nel convincersi di appartenere ad una casta superiore. La cultura, per poter produrre frutti saporiti e dai colori invitanti, ha bisogno dell’umiltà, del rifiuto di ogni infondata convinzione che ci vuole intrinsecamente diversi e, per questo, migliori degli altri.

 

 Antonello da Messina, "San Girolamo nello studio" (1475)
Antonello da Messina, "San Girolamo nello studio" (1475)

 

Antonio Gramsci scrive nei Quaderni del carcere (1929-1935): «Cultura non è possedere un magazzino ben fornito di notizie, ma è la capacità che la nostra mente ha di comprendere la vita, il posto che vi teniamo, i nostri rapporti con gli altri uomini. Ha cultura chi ha coscienza di sé e del tutto, chi sente la relazione con tutti gli altri esseri [...] Cosicché essere colto, essere filosofo lo può chiunque voglia». Da queste parole emerge qualcosa di fondamentale che, però, a causa della sua attitudine alla competizione, l’essere umano dimentica con molta facilità, trovandosi invischiato in una sterile contesa con l’altro perché convinto che "vincendo" potrà dimostrare di essere il migliore. Ed in questo preciso caso, la cultura viene utilizzata come mero strumento al fine che chiunque lo usi possa avvolgersi in un inconsistente strato di altera soddisfazione e potersi, poi, ergere al di sopra del resto, il quale resta nell’anonimato. Cosa, infatti, potrebbe mettere in discussione la stabilità della torre d’avorio che si è costruita più della consapevolezza che il ‘’resto’’ è fatto, a ben guardare, da tante e irriducibili particolarità, le cui doti potenziali potrebbero essere attualizzate con un’adeguata educazione e pratica? Ed è per questo che si evita di dare un nome a quell’amalgama che, agli occhi dell’uno, appare indistinguibile, in netto contrasto con la sua sgargiante definizione, quella completezza soltanto immaginata in vista della continua trasformazione a cui ciascuno è irrimediabilmente sottoposto. Un sé completo non può esistere ed è una grande fortuna perché in tal modo, tutti, ma proprio tutti, possono dare a loro stessi l’opportunità di migliorare le proprie facoltà di sentire il mondo, di leggere gli eventi che riguardano noi e gli altri e anche di produrre.

 

Ostentare le proprie conoscenze con il solo obiettivo di costruire podi alti e bassi, spesso, è una modalità per nascondere le proprie insicurezze, che potrebbero ricominciare a sanguinare una volta esposte alla luce del sole. Per evitare di patire quell’inguaribile incertezza, quel tremore che l’esistenza con le sue zone d’ombra ci provoca, ci si potrebbe ingozzare, infatti, di false rassicurazioni, come quella di essere più importanti degli altri, di essere per natura diversi e, dunque, migliori qualitativamente. Quest’assurdità può lenire le sofferenze ontologiche di ogni vita – ogni essere vivente per il fatto di essere imperfetto patisce dal momento che la propria esistenza si colorerebbe di una lucentezza diversa dalle altre, con la fantasia di essere stati ‘’prescelti’’ per una nuova scoperta che non tanto ha il compito di migliorare le condizioni di vita dell’umanità, ma da tutti verrà ammirata da lontano, come l’opera di un essere superiore che non pare appartenere al genere umano, terreno di mediocrità. Non è un caso che per definire queste persone si utilizzi, a volte impropriamente, il termine ’narcisista’, appartenente alla letteratura psicologica e con cui si vuole indicare un determinato tipo di personalità esuberante, incapace di ascoltare o di immedesimarsi nell’altro, sempre indaffarato nella costante ricerca di ammirazione. Ed una continua esposizione del sé come quella che avviene sui social, non fa che aumentare questo modo di concepire l’io e poi gli altri. L’io si gonfia e senza un reale confronto che la virtualità dei socialnetwork implica, sente che per poter stare bene necessita di una costante approvazione, di essere visto e definito in base alle chiavi di lettura che lui stesso decide e consegna. Il nostro profilo diviene, così, il palcoscenico di un teatro su cui decidiamo noi stessi quando comparire, in che modo, con quali costumi e quali messaggi lasciare. Siamo gli attori, ma anche i drammaturghi dell’opera in atto. Tutto questo alimenta quel desiderio di affermazione e di livellamento, una sfrenata ostentazione che vuole creare gerarchie. Anche lo status sociale, infatti, è una componente determinante sui social, in quanto la messa a nudo di una vita agiata e di una conseguente felicità innaturale generano confronti e insoddisfazione in chi quella vita non se la può permettere.

 

Le diseguaglianze sociali alimentano questo atteggiamento volto all’esibizione del sé in chi, per pura casualità, è nato in una famiglia benestante, colta e disposta a consegnare il proprio sapere, oltre che il denaro, al nuovo arrivato. «Lo studentucolo che sa un po' di latino e di storia, l'avvocatuzzo che è riuscito a strappare uno straccetto di laurea alla svogliatezza e al lasciar passare dei professori crederanno di essere diversi e superiori anche al miglior operaio» scrive sempre Gramsci in Socialismo e cultura, apparso su “Il grido del popolo” il 29 gennaio 1916. Dunque, è frutto di una disparità sociale se il figlio di un avvocato può parlare di trigonometria a differenza del figlio dell’operaio che se ne andrà bazzicando le strade notturne della città, alla ricerca d’incontri per sentire meno il peso del tempo. Ed è da un errore logico comune che impropriamente emerge la convinzione che esistano differenze naturali, per cui il ragazzo borghese è più capace rispetto al proletario per innate facoltà cognitive. Proprio come per secoli si è concepita ‘’naturale’’ la differenza cognitiva fra uomo e donna, tanto da aver perpetuato stupidamente – ‘’dimostrata’’ soltanto con teorie pseudo-scientifiche come quelle espletate durante il regime fascista italiano – una concezione antica, qui espressa da Aristotele nella Politica, per cui si crede che: «Nella relazione del maschio verso la femmina l’uno è per natura superiore, l’altra (inferiore) è comandata, ed è necessario che fra tutti gli uomini sia proprio in questo modo». Qui vale lo stesso discorso del borghese e dell’operaio, per cui se per secoli – e ancora oggi in alcuni Paesi, come l’Afghanistan – è stata vietata alle donne la possibilità di istruirsi, è una conseguenza che le loro capacità cognitive siano meno sviluppate rispetto a quelle degli uomini, e non una condizione di partenza, in modo tale che un’eventuale istruzione si rivelerebbe infruttuosa per il fatto che non attecchirebbe. L’errore, dunque, è da individuare nel modo stesso di ragionare, in quanto la sperequazione sociale e un tradizionale modo di concepire i ruoli sociali sono stati scambiati per caratteristiche naturali. Se, invece, si ragionasse sulle reali cause di un’eventuale differenza culturale fra ricco e povero o uomo e donna (adesso, per fortuna, sempre di meno in Occidente) si capirebbe che quella presunta superiorità con cui si è rivestito il proprio essere è falsa, ed è frutto di una serie di coincidenze e agevolazioni. E se si verificasse il contrario, per cui sarebbe il proletario ad aver avuto la possibilità di conoscere la Critica della ragion pura di Kant e non l’imprenditore, così da ergersi a persona migliore, allora, egli dovrà prendere in considerazione quali elementi hanno potuto indirizzarlo verso la via della ricerca e del miglioramento individuale e quali potrebbero essere i contributi che sarebbe in grado di dare per far sì che anche gli altri, più sfortunati, possano goderne.

 

Nulla di tutto questo è scritto per sottovalutare l’autodeterminazione, quella scelta di alcuni di smussare la loro ignoranza con uno sforzo squisitamente individuale e con il determinato desiderio di conoscere il mondo in cui sono e quello più giusto nel quale potrebbero abitare. Al contrario, questa scelta tutta personale è da me considerata un modello da tramandare ed imitare, ma col solo fine di rendere più bella e più viva la propria anima e quella della comunità. La salute della propria anima è interdipendente da quella degli altri, dalla società in cui siamo e di cui abbeveriamo senza accorgercene i nostri principi valoriali. Per questo la cultura più che uno strumento per differenziare il proprio sé da quello altrui, è un modo per rendere la convivenza più sana, in lotta costante con le differenze sociali e con quei pregiudizi che rendono impossibile uno sguardo amorevole, capace di imbattersi nel nuovo e di maturare una diffidenza nel sempre Uguale. L’Uguale immunizza il nostro essere dal diverso, da chi, per svariate ragioni, non può essere come noi, non può avere le nostre stesse concezioni, idee e credenze.  Anche il ‘’noi’’ da me ora utilizzato appare infondato sotto questa prospettiva di liberalità radicata. Chi è ‘’noi’’, e chi si potrebbe identificare sotto questo pronome personale per distinguersi dal ‘’voi’’, o peggio, dall’’’essi’’? Peggio perché dell’’’essi’’ si può parlare senza alcun confronto diretto, per cui si dice che essi "non sono capaci di…" mentre noi ne siamo capaci.

 

Barthélemy d’Eyck, "Natura morta con libri in una nicchia" (1442-1445)
Barthélemy d’Eyck, "Natura morta con libri in una nicchia" (1442-1445)

 

«Quando ero una bambina, quando ero un’adolescente, i libri mi hanno salvato dalla disperazione: ciò mi ha convinto che la cultura è il più alto dei valori» affermava Simone de Beauvoir in un'intervista, e pare quasi stia proseguendo lo stesso filo del discorso che Pier Paolo Pasolini fa nei Dialoghi con Pasolini su ‘’Vie Nuove’’ (1965), quando scrive: «Puoi leggere, leggere, leggere, che è la cosa più bella che si possa fare in gioventù: e piano piano ti sentirai arricchire dentro, sentirai formarsi dentro di te quell’esperienza speciale che è la cultura». La lettura salva dall’ignoranza che rende l’esistenza un’occasione incolta, un fiore mai spuntato dal terreno perché su di esso non è stata mai versata dell’acqua. L’occasione qui citata è quella di conoscere il più possibile la realtà in cui siamo e quella che abbiamo costruito e poi accettato. E soltanto a questo punto si potrà essere in grado di cercare alternative o di indossare nuove lenti per guardare le cose, un modo diverso da come si è sempre fatto. La cultura, riprendendo Gramsci, ci permette di concepire la relazione con gli altri, la nostra comune interdipendenza che può rivelarsi sempre più fruttuosa per mezzo della con-divisione e non attraverso l’ostentazione. Quest’ultima presumerebbe l’esistenza di un Essere superiore che non ha affatto bisogno di aiuto dal momento che è autosufficiente e onniscente, l’unico in grado di detenere tutto il sapere. Per il solo fatto di non poter sapere tutto dovremmo imparare a tacere quando l’altro, al nostro fianco, decide di pronunciare delle parole che potrebbero arricchirci.

 

 

5 Agosto 2024

 








  • Canale Telegram: t.me/gazzettafilosofica