La felicità negata

 

È possibile coniugare lavoro e felicità, vivere, cioè, in una società con equa distribuzione della ricchezza, del lavoro, del potere? Una riflessione a partire dal libro La felicità negata di Domenico De Masi.

 

di Giuseppe Gallelli

 

G. Courbet, "Gli spaccapietre" (1849)
G. Courbet, "Gli spaccapietre" (1849)

 

Il sociologo Domenico De Masi nell’opera La felicità negata ha la convinzione che il mondo occidentale «non è certamente il migliore dei mondi possibili ma è certamente il migliore dei mondi esistiti finora», ma a suo parere:

 

 « non c’è progresso senza felicità e non si può essere felici in un mondo segnato dalla distribuzione iniqua della ricchezza, del lavoro, del potere, del sapere, delle opportunità e delle tutele. »

 

Ed è altresì convinto che «Questa inumana disuguaglianza non avviene a caso ma è lo scopo intenzionale e l’esito raggiunto di una politica economica che ha come base l’egoismo, come metodo la concorrenza e come obbiettivo l’infelicità». 

 

L’idea di progresso è stata un caposaldo culturale che ha portato avanti, nel bene e nel male, la storia umana, ma l’epoca postindustriale, in cui viviamo, è costituita, a parere dell’autore, da uno stretto legame di progresso e di complessità.

 

 « L’attuale società postindustriale si distingue per un progresso più rapido, radicale e pervasivo e per una maggiore complessità del sistema socioeconomico e politico. Perciò progresso e complessità, di cui siamo artefici, beneficiari e vittime, rappresentano due grandi sfide del nostro tempo. »

 

Per analizzare queste problematiche della nostra epoca, dominata da una cultura alienante a livello di vita lavorativa e consumistica nell’utilizzo del tempo libero, tra i gruppi di studiosi che hanno influenzato in modo determinante la storia economica e sociale dell’Occidente, si sofferma su due importanti scuole di pensiero del Novecento: la Scuola sociologica e marxista di Francoforte e la Scuola economica e neoliberista di Vienna:

 

« L’una interessata a una distribuzione della ricchezza e del potere più giusta nei confronti della massa subalterna, facendo appello alla collettività e confidando nell’intervento pubblico; l’altra interessata a concentrare più risorse e potere nelle mani della élite dominante, facendo appello all’individuo e riducendo al minimo il ruolo dello Stato. »

 

Nella prima parte dell’opera l’autore mette a confronto la scuola, l’economia, il pensiero della scuola sociologica e marxista di Francoforte con la storia, il pensiero, il metodo della società neoliberista di Vienna. 

 

Questi due gruppi di studiosi hanno avuto una visione opposta nell’organizzazione della vita attiva, cioè nella pratica del lavoro e del tempo libero e ne descrive le teorie socioeconomiche e culturali prevalenti per farci comprendere i motivi profondi che hanno portato alle problematiche economiche e socioculturali attuali.

 

L’autore si sofferma sulla critica al capitalismo da parte della scuola di Francoforte e sui concetti e sulle parole chiave del neoliberismo della scuola di Vienna.

 

« I temi prediletti della Scuola (di Francoforte), studiati con l’apporto della sociologia e della psicanalisi freudiana, sono stati la critica radicale allo sviluppo della società capitalistica borghese; la sua possibile crisi; il rapporto tra capitalismo, Stato e politica; l’avvento dell’autoritarismo al potere; la sorte delle interazioni umane nel passaggio al capitalismo monopolistico e al collettivismo socialista; l’individuo come prodotto delle forze oggettive che governano la società di massa; gli effetti socioeconomici dell’automazione; la disumanizzazione e la mercificazione dei rapporti sociali; la sfera individuale nel suo restringersi all’ambito effimero del consumo; l’accecamento sociale come risultato dell’alienazione; la scienza che, asservita al profitto, diventa strumento di dominio sulle cose e sugli uomini; la critica al neopositivismo come assoggettamento della filosofia alla tecnica. »

 

Per questo gruppo di studiosi:

 

« La potenza del recente capitalismo appariva affidata non tanto all’apparato produttivo quanto alla sua sovrastruttura culturale.  In sintesi, la Teoria critica ha rappresentato il tentativo più compiuto di riscrivere il marxismo alla luce dei grandi mutamenti del XX secolo, come scienza socioeconomica centrata sull’analisi non più della struttura ma della sovrastruttura. Perciò ha denunziato la famiglia in quanto sistema che educa alla rassegnazione e all’obbedienza, entrambe indispensabili al capitalismo per inculcare il carattere masochistico nella personalità borghese; ha messo sotto accusa l’arte, la cultura di massa e l’industria culturale; ha esplorato i meccanismi con cui lo Stato autoritario gestisce le contraddizioni che esplodono nella società mettendole sotto il controllo di una burocrazia che agisce in combutta con i partiti e le industrie, sicché il mondo e la vita ne risultano totalmente amministrati e la civiltà si traduce in repressione. »

 

L’autore descrive la prima e la seconda generazione della scuola di Vienna e la nascita del pensiero neoliberista, elaborato nei centri culturali che lo adottano, soprattutto, la scuola di Chicago, la Mont-Pèlerin Society e il Peterson Institute di Washington.

 

« Ciò che queste Scuole hanno collocato al centro dei loro studi, scrive, è l’interesse della borghesia e la necessità di difenderla dagli attacchi del proletariato fornendole una teoria economica capace di battere, nella pratica, quella elaborata da Marx. Le parole chiave del loro paradigma sono: individuo, soggettivismo, società aperta, capitalismo, libero mercato, flessibilità dei regimi di cambio, deregulation, privatizzazione, divisione del lavoro, spirito imprenditoriale, internazionalismo, globalizzazione, conservazione, innovazione, scetticismo nei confronti della previsione. La loro forza sta nel fatto che gli economisti di Vienna, a differenza dei sociologi francofortesi, non si sono limitati a studiare e a scrivere ma hanno sfoderato una sorprendente “imprenditorialità intellettuale” costituita da contatti strettissimi con le élite accademiche, editoriali, politiche bancarie e aziendali […] sono stati grandi tessitori di lobby potenti e di reti estese a tutti i livelli. »

 

Dopo aver descritto la cultura della prima e della seconda generazione della Scuola di Vienna, la nascita del neoliberismo e della Scuola di Chicago, nell’epoca tra le due guerre, dedica a J. M. Keynes, innovatore delle politiche economico-sociali di quel periodo, pagine centrali dell’opera, nel capitolo I trenta gloriosi anni keynesiani.  

 

« Il motore primo dell’impetuoso sviluppo, di quell’epoca fu alimentato dalle politiche keynesiane secondo cui uno Stato moderno deve puntare sull’equa distribuzione del benessere garantendola con politiche ridistributive e interventi statali (a cominciare dal welfare) in favore della crescita. »

 

In tutto l’Occidente più ricco, infatti, per effetto del pensiero keynesiano, assieme al miglioramento dell’economia, ci furono riforme sociali e i 32 Paesi che non avevano subito gravi danni dalla guerra, sovvenzionarono la ricostruzione di quelli che avevano subito distruzioni belliche. L’autore ricorda, in particolare, il piano Marshall che elargì all’Europa 12.731 milioni di dollari.

 

In Italia per rilanciare l’economia fu creato l’Eni, fu potenziato Iri e Efim, fu introdotta la riforma agraria, fu creata la Cassa per il Mezzogiorno, l’Ina-casa per la costruzione di case popolari, nel 1962 l’Enel per nazionalizzare l’industria elettrica.

 

Descrive poi la strutturazione culturale e la proliferazione della scuola di Vienna e di quella di Chicago anche in Gran Bretagna.

 

« Così, il neoliberismo dispiegò la sua potenza ideologica e politica su tutto l’Occidente, imponendo un pensiero unico nelle facoltà di economia, nei ministeri economici e finanziari, nelle politiche economiche di tutti i governi. »

 

Anche i Paesi in via di sviluppo, in crisi economica, possono chiedere prestiti alle organizzazioni internazionali con sede a Washington, sede del Fondo  monetario internazionale, della Banca  mondiale, del Dipartimento del Tesoro,  a patto che rispettino il Washington consensus, cioè i 10 impegni che vanno dalla  tutela della proprietà privata, alla privatizzazione delle aziende statali, alla politica fiscale, al riaggiustamento della spesa pubblica, alla  riforma del sistema tributario, dei tassi d’interesse e di cambio, alla liberalizzazione del commercio e delle importazioni, all’apertura a investimenti esteri, alla deregulation, infine, all’abolizione di tutte le regole che limitano la competitività.

 

Ma: 

 

« Mentre il liberismo ha condotto con intelligenza e tenacia i sui sforzi  teorici e pratici, per trasformarsi in neoliberismo e battere, in quanto tale, il marxismo, il socialismo e la socialdemocrazia, queste forze di sinistra non hanno compiuto una revisione altrettanto completa e, a un certo punto, si sono trovate a corto di idee per cui, quasi senza accorgersene, hanno fatto proprie quelle del neoliberismo. Così i neoliberisti hanno potuto estendere una politica economica di destra servendosi come vettori degli economisti e dei politici di sinistra, i quali si sono reintestate, con spregiudicatezza suicida, le teorie, le strategie e le pratiche dell’avversario. »

      

Ricorda, in particolare, il trattato neoliberista di Maastricht del febbraio 1992 e il discorso, del giugno 1992, sullo yacht Britannia della famiglia reale inglese.

 

A suo parere, in quegli anni, anche le forze di sinistra  hanno assimilato il neoliberismo  e  riporta, come esempio, l’ episodio che ha segnato la politica economica e sociale del nostro Paese, dagli anni Novanta ad oggi: il discorso tenuto  sul “Britannia” che, il 2 giugno 1992, attraccò al porto di  Civitavecchia e costeggiò l’Argentario, ospitando politici, finanzieri e imprenditori d’alto bordo e ben cinque ex presidenti del consiglio e  Mario Draghi, allora direttore generale del Tesoro e il Gotha della sinistra italiana: Prodi, D’Alema, Amato.

 

Erano «gli anni della scure liberista» e tema dell’incontro erano le linee strategiche della politica economica, con un piano di privatizzazioni e di vendita al privato delle maggiori aziende pubbliche per la riduzione del debito del nostro paese. Iri, Eni, Enel e Ferrovie dello Stato trasformate in società per azioni, spezzettate e vendute ai privati. Nel 1999 furono privatizzate anche alcune importanti istituzioni culturali.

 

 

L’autore esamina l’economia del nostro Paese, dal 1992 al 2010 fino agli anni successivi.

 

Descrive il vasto piano di privatizzazioni, la corsa frenetica al guadagno, il decollo del mercato borsistico, di economia finanziaria e dei suoi prodotti, prodotti finanziari non collaudati, le concentrazioni nel settore bancario, la  piena deregulation, fino agli effetti della crisi determinata in Italia dal fallimento della Lehman Brothers, e di conseguenza l’aumento della disoccupazione e della povertà, mentre in Italia il patrimonio dei cittadini ricchi aumentava, e  nello stesso periodo aumentava notevolmente il numero dei poveri.

 

La coalizione ulivista, l’alleanza elettorale del centrosinistra italiano, una volta al governo, «convertita al dogma neoliberista», svende ai privati le quote azionarie delle aziende di Stato  che  «fu deprivato dei settori nevralgici e delle leve più efficaci per regolare la politica economica nazionale. Le privatizzazioni furono effettuate autonomamente dal direttore generale del Tesoro (Mario Draghi) e dalla sua struttura, senza che la politica mettesse bocca, anzi con la connivenza della sinistra»

 

Nel 2001 un collaboratore della struttura di Draghi riconobbe la necessità della «ridefinizione del ruolo dello Stato» e della «riforma in senso maggiormente concorrenziale dei mercati […] per procedere con decisione nel processo di risanamento della finanza pubblica e di riqualificazione del rapporto tra Stato e mercato».

 

Ma, successivamente, Il 10 febbraio 2010, scrive, la Corte dei conti pubblicò uno studio retrospettivo sull’efficacia di tutti questi provvedimenti di marca neoliberista, accertando che «le tariffe dell’energia, delle autostrade, delle banche erano aumentate molto di più che negli altri paesi europei […] il risultato complessivo è stato l’aumento del divario tra ricchi e poveri».

 

Nella seconda parte del libro, l’autore tratta delle principali concezioni del lavoro nel Novecento e dopo aver descritto la condizione umana d’infelicità nella società industriale e in quella postindustriale, conclude l’opera proponendo un modello sociale e lavorativo più umano seguendo i suggerimenti di Keynes e indica proposte alternative al modello lavorativo dominante e soluzioni per vivere una buona qualità della vita sia nel lavoro che nel tempo libero.

 

Esamina, in particolare, la connessione tra liberalismo, condizione umana e lavoro nel saggio L’etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber e riporta la sua critica al diritto alla felicità sancita nella Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America: «Credo che dobbiamo rinunciare, scriveva, infatti, Weber, a porre la felicità umana come meta della legislazione sociale».

 

Per il nostro autore è forse qui, «in questo centrare la storia tutta sul singolo individuo, dimenticando la sua società, la profonda ragione dell’infelicità che ci ha accompagnato durante i due secoli della società industriale e che ancora ci perseguita»

 

Max Weber, a parere di De Masi, «deduce dall’Illuminismo la sua propria predilezione per la razionalità, ma a differenza dei lumi e in nome dell’oggettività, rifiuta ogni pur minima incursione dell’atteggiamento visionario, della sfera emotiva e dei giudizi di valore nel comportamento razionale»

 

Mentre Weber focalizzava la sua analisi sulla figura dell’imprenditore, infatti, dall’altra parte dell’Atlantico Frederick W. Taylor esponeva a Saratoga il suo metodo scientifico per la parcellizzazione del lavoro e Henry Ford apriva a Detroit la sua prima fabbrica automobilistica in cui sarebbe nata la catena di montaggio.

 

L’autore si dilunga a descrivere il mondo capitalistico prospettato da Weber e il processo di «educazione economica» coadiuvata dallo stimolo religioso, con cui inculcare nel lavoratore «quella concezione del lavoro come scopo a se stesso, come vocazione, quale la richiede il capitalismo».

 

Weber viaggiò in America ed ebbe la sensazione, come risulta dalla sua opera L’Etica protestante e lo spirito del capitalismo, che «l’attività economica, spogliata dal suo senso etico-religioso, tende ad associarsi a passioni puramente agonali, che non di rado le imprimono precisamente il carattere di uno sport» e concluse il suo saggio con una visione  pessimistica.

 

Il sociologo De Masi è convinto, invece, che il progresso scientifico e tecnologico dovrebbe migliorare la qualità della nostra vita e s’interroga:

 

« L’uomo, razionalizzando l’organizzazione della propria vita e del proprio lavoro, accrescendone efficienza e produttività, ha compiuto un passo avanti sulla via del progresso, ha raffinato il suo modo di vivere e ha allargato l’area del suo dominio sulla natura. Ciò significa che è più felice? » 

 

Descrive la profonda trasformazione del modello di vita che si è attuato nel passaggio dalla società industriale a quella postindustriale:

 

« Sono emersi dalla società valori nuovi, come l’intellettualizzazione di ogni attività umana, la creatività, l’etica, l’estetica, la soggettività, l’affettività, la destrutturazione del tempo e dello spazio, il cosmopolitismo, la qualità della vita. »

 

In un mondo globalizzato in cui il trasferimento di persone e merci è accelerato dai mezzi di trasporto, mai così veloci, in cui la diffusione delle informazioni avviene in tempo reale, avvengono trasformazioni a tutti i livelli che interagiscono sulla cultura e sulla rappresentazione del proprio mondo e del proprio destino.

 

L’autore analizza il disorientamento generale, la crisi e la difficoltà a progettare il proprio futuro, dato che l’organizzazione ideata per l’era industriale sopravvive intatta nell'era postindustriale, non solo  per gli executives, adagiati nei centri direzionali, ma soprattutto per i sottoproletari, a causa di «insicurezza occupazionale, dequalificazione, riduzione del lavoro salariato, salari sempre più bassi, obsolescenza sempre più rapida delle conoscenze professionali e dell’esperienza, rischi sempre maggiori e sempre di più scaricati dai datori di lavoro sui lavoratori»,  mentre lo Stato riduce sempre di più il welfare, la quantità e la qualità delle prestazioni e i global players accumulano ricchezze, l’economia finanziaria è fluidissima e soppianta quella reale.

 

In questa situazione di crisi profonda nella qualità della vita, a parere dell’autore, emerge «il pensiero meridiano», il pensiero teorizzato dal sociologo Franco Cassano.

 

Emerge, cioè, la ricerca di un modo di stare nella modernità evidenziandone gli aspetti negativi e prestando attenzione ai mondi di umanità che ci perdiamo in nome del progresso; l’attenzione, quindi, ad una economia che non ci faccia rinunciare ai legami sociali e che dia senso al desiderio di libertà e d’incontro con gli altri.

 

Emerge, quindi, la ricerca di lavori meno alienanti, si preferisce una riduzione dell’orario di lavoro rispetto a un aumento salariale, aumentano le richieste di part time e di smart working, ecc.

 

« I valori della vecchia cultura tradizionale e cattolica (meglio minor guadagno che maggior lavoro; meglio vivere che ammazzarsi di fatica), scrive, rivisti in chiave postindustriale, appaiono più postmoderni e calzanti dei vetero valori calvinisti. »

 

Ritorna, quindi, alla soluzione keynesiana del problema economico, riportando i concetti espressi tra il 1928 e il 1930 da J. M. Keynes, in particolare, nella conferenza sul tema Prospettive economiche per i nostri nipoti.

 

Prospetta una società in cui, con la riduzione dell’orario di lavoro, aumenta il lavoro per tutti, una società in cui il tempo libero è più centrale del tempo di lavoro e il desiderio di qualità della vita prevale sul bisogno di consumismo. 

 

Keynes, infatti, a suo parere, comprende con notevole anticipo, in tutta la sua portata, la disoccupazione in arrivo, dovuta al progresso tecnologico, allo sviluppo economico e alla crescita della popolazione, cioè ha ben chiaro come la crescita non è motore di sviluppo ma causa di ulteriore disoccupazione.

 

« Keynes definisce con decenni di anticipo, scrive, ciò che più tardi sarebbe stato chiamato Jobless growth, sviluppo senza lavoro. Egli prevede che ben presto saremo ampiamente in grado di soddisfare tutti i bisogni assoluti (quelli che emergono in ogni situazione), finirà la lotta per la sopravvivenza e, quindi, potremo finalmente dedicare le nostre energie a scopi che non hanno nulla a vedere con l’economia. »

 

Riporta una proposta di Keynes, per dare lavoro a tutti, una società in cui, con la riduzione dell’orario di lavoro, aumenta il lavoro per tutti, una società in cui il tempo libero è più centrale del tempo di lavoro e il desiderio di qualità della vita prevale sul bisogno di consumismo:

 

 « fin quando il lavoro non scomparirà del tutto, quello che ne resta si distribuisca equamente. »

 

Liberati dal problema del lavoro, nasce quello dell’utilizzo del tempo libero. Scrive De Masi:

 

« Soccorre la certezza che, con il procedere dell’assetto postindustriale, si va verso una società senza operai, senza contadini, senza analfabeti; in cui uomini e cose sono interconnessi; in cui il tempo libero è più centrale del tempo di lavoro; in cui il desiderio di qualità della vita prevale sul bisogno compulsivo di consumismo; in cui la posta in gioco della competizione globale è la progettazione del futuro; in cui i movimenti e i nuovi soggetti saranno sempre più determinanti nella dinamica sociale; in cui la creatività, l’estetica e la conoscenza rappresentano la massima potenza produttiva e il maggiore capitale fisso. I tempi di questi itinerari saranno più o meno lunghi e più o meno sincronici, ma ciò non toglie che essi agiscano in misura determinante sulla rappresentazione simbolica che un numero crescente di lavoratori va facendosi del proprio mondo, del proprio destino e, quindi, dei propri modelli di comportamento conflittuale: per che cosa, come, con chi e contro chi combattere. »

 

L’autore conclude la sua opera soffermandosi su studi e ricerche sociologiche relativi alla tematica lavoro, disoccupazione e tempo libero, prodotti nell’ultimo trentennio del secolo scorso e nei primi anni 2000 e apre il cuore alla speranza: 

 

« Quanto alla felicità, è molto probabile che, per coloro che avranno il privilegio di svolgere attività creative, le qualità espressive del loro lavoro basteranno di per sé a gratificarli abbastanza da renderli felici. Per tutti gli altri la felicità potrà derivare solo da fortunato mix composto da lavoro strumentale non eccessivamente alienante e, comunque, a orario minimo, di un reddito universale, di tutte quelle attività personali, familiari e amicali che ora consideriamo “tempo libero”. Del resto, già oggi basterebbe che tutti i cittadini in grado di lavorare dedicassero al lavoro un ventesimo del loro tempo di vita per soddisfare i bisogni materiali dell’intera umanità. Il lavoro risulterà tanto più fonte di felicità o di alienazione, quanto più o quanto meno somiglierà a ciò che io chiamo ozio creativo […] la soave capacità di coniugare il lavoro per produrre ricchezza con lo studio per produrre conoscenza e con il gioco per produrre allegria. Ma la felicità non è una marcia solitaria: per essere piena, ha bisogno di empatia. » 

 

Il testo offre una accurata e ricca bibliografia, in nota a piè pagina, per approfondire.

 

18 marzo 2024

 








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