«Come alberi abbattuti a terra»: la scomparsa di un piccolo paese è sintomo e conseguenza del cambiamento climatico

 

Mi crederesti se ti dicessi che l’improvvisa e calamitosa scomparsa di una piccola comunità calabro-albanese di circa trecento abitanti è molto strettamente collegata alla crisi climatica e ambientale che travolge sempre più velocemente il globo? Ne parla Vito Teti in Il Risveglio del drago. Cavallerizzo, un paese mondo, tra abbandono e ricostruzione, pubblicato quest'anno da Donzelli Editore.

 

di Sara Ricci

 

 

Di crisi climatica si è sempre parlato. Soprattutto negli ultimi anni, il dibattito pubblico sull'esistenza del cambiamento climatico si è infuocato e diffuso a macchia d'olio, diventando non solo un tasto dolente nel dialogo delle collettività, ma anche – in modo particolare in maniera negazionista – un trampolino di lancio conveniente per numerosi politici e figure di rilievo, utile ad accalappiare voti e consensi. Così, mentre punti di vista di negazionisti, difensori dell'ambiente, indifferenti e competenti si intrecciano in discussioni sempre più stratificate e talvolta decisamente sterili, il mondo continua, dal suo canto, a darci segnali forti, che a loro volta si evolvono in veri e propri cataclismi solo apparentemente imprevedibili, su cui però si potrebbe previdentemente intervenire molto prima.

 

Gli esempi più recenti di queste catastrofi naturali li abbiamo avuti negli ultimi due anni: soprattutto in Emilia-Romagna e in Toscana, ma in generale in tutta Italia, le numerose alluvioni hanno devastato copiosamente diversi territori, causando danni irreparabili alle popolazioni, che davanti alla costante intermittenza delle istituzioni non possono che adattarsi a ciò che accade, tappando i buchi di una distruzione che pare essere senza fine. L'Organizzazione Meterologica Mondiale ha recentemente constatato che nei prossimi cinque anni la Terra si surriscalderà ulteriormente, superando la temperatura di 1,5°C rispetto ai livelli preindustriali. Questo recherà senza ombra di dubbio danni potenzialmente irreversibili alla salute, e creerà ulteriori intoppi per la gestione dell'acqua, dell'ambiente e della sicurezza alimentare. Il paradosso sta nel fatto che, nonostante queste certezze sia teoriche che pratiche, quasi impossibili da contestare viste le circostanze ambientali di cui siamo ormai vittime e carnefici, il dibattito sull'esistenza del riscaldamento globale persiste.

 

In questo senso, si può ormai attestare anche l'esistenza – precedentemente contestata da diversi esperti –dell'Antropocene. Per definizione, l'Antropocene è un periodo geologico caratterizzato dalla funzione centrale dell'essere umano nella modificazione dell'ambiente terrestre. In alcuni studi recenti, come ripreso anche da Arianna Ciccone nell'articolo Lotta alla crisi climatica tra l’attivismo dei giovani, il negazionismo politico-mediatico e gli indifferenti pubblicato su Valigia Blu, il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite (IPCC) ha confermato che «le attività umane, principalmente attraverso le emissioni di gas serra [causate dai combustibili fossili], hanno inequivocabilmente causato un riscaldamento globale e un aumento della temperatura superficiale globale di 1.1°C».

 

L'argomento è affrontato accuratamente anche da Vito Teti nel suo nuovo libro, intitolato Il Risveglio del drago. Cavallerizzo, un paese mondo, tra abbandono e ricostruzione, pubblicato da Donzelli Editore: l’autore parte dal racconto della frana che ha cambiato per sempre il destino della piccola comunità arbëresh nella notte tra il 6 e il 7 Marzo del 2005 a Cavallerizzo, in Calabria. Teti non si limita a un racconto scarno e distaccato delle vicende: sin dall’inizio, con un approccio tutto etnologico, instaura con gli abitanti di Cavallerizzo (fortunatamente tutti sopravvissuti) un rapporto intimo, di fiducia e scambio reciproco, comprensione e dialogo, che dura vent’anni. E' proprio a partire da questa catastrofica vicenda che Teti ha modo di tenere fisso lo sguardo sulla progressione repentina del cambiamento climatico, sostenendo che «un paese che muore abbia qualcosa da dirci anche sull'Antropocene, sullo spopolamento, sulla possibile fine di luoghi» e può sicuramente farci capire come «affrontare il rischio, anche sul piano emotivo, cognitivo, pratico della "morte" del nostro mondo».

 

L'eccezionale intensità degli eventi accaduti a Cavallerizzo vent'anni fa, che ricordano quelli più recenti accaduti nei comuni romagnoli e toscani, dimostra non solo che se si continua ad ignorare il problema la storia purtroppo continuerà a ripetersi, ma anche che «raccontare la storia di un paese di appena trecento abitanti, sconosciuto, di origine albanese,» come scrive giustamente Teti, «ha un senso anche per le persone che vivono lontano da quel piccolo mondo che, nel tempo, ha dovuto affrontare fughe, lacerazioni, conflitti, fatiche, speranze per la ricostruzione».

 

Così Vito Teti si muove tra passato e presente, tra tradizione e necessità di sostegno per un vero e stabile cambiamento, riportando le testimonianze delle vittime della frana, alcune colme di speranza e nostalgia, altre intrise di paura e rassegnazione. Racconta dei difficili giorni dopo la frana, degli occhi spaesati di donne, bambini, uomini, anziani che da un giorno all’altro hanno dovuto avere a che fare con la lacerazione delle loro vite, costruite con cura e dedizione, con fatica, sacrificio e impegno. Teti non lascia dubbi: la tragedia – viste le circostanze, la scelta collettiva e soprattutto istituzionale di ignorare la pericolosità del territorio, le antiche storie di folklore che anticipavano di secoli la grande frana – poteva essere evitata, o di sicuro se ne potevano contenere di parecchio i danni.

 

Secondo la tesi dell'etnologo, «ancora prima del futuro, ci [è] stato scippato il passato che, forse, era l'unico tempo che potevamo riorganizzare e riscrivere». Quello che a noi è stato consegnato è invece un grumo di errori, e tutto quello che continua ad accadere non fa altro che dimostrare che l'umanità in realtà non è mai stata davvero progressiva e che «a periodi felici sono [sempre] succeduti periodi di crisi e di catastrofi».

 

''Mbiatu cu' no' nesciu'', beato chi non è nato: così riecheggiano le parole della madre di Teti come eredità intergenerazionale di un passato in cui si poteva ancora pensare e fantasticare largamente sul futuro, che ai giorni nostri invece si prospetta nero, confuso, impossibile da decifrare anche nel sogno. Ad oggi, le numerose catastrofi colpiscono le nostre menti e la nostra sensibilità e ci spaventano, poiché, come affermava Ghosh, l'essere umano è incapace di prepararsi a eventi insoliti. Nonostante le catastrofi, in nome del progresso e con la garanzia farlocca di un futuro radioso e stabile, i poveri vengono abbandonati mentre i ricchi consumano ogni tipo di risorsa, e nel fare ciò, sono consapevoli di doversi preparare e mettersi a riparo. Teti afferma che i ricchi hanno un atteggiamento di prevenzione totalmente egoista, che prevede la loro salvezza esclusiva dalle guerre, dalla fame, dall'innalzamento delle acque e dall'atomica.

 

Il fatto che questa salvezza avvenga a discapito della morte di miliardi di persone, che soffrivano, soffrono e continueranno a soffrire per le enormi disparità sul piano condiviso d'esistenza, alle classi privilegiate non interessa, anzi: rinvigorisce la loro percezione di possessione di potere, facendoli così sentire divinità ed eroi, per citare Teti, «superuomini appartenenti a una nuova specie». In questo modo, si normalizza sempre di più la cultura di convenienza con il rischio, che svilisce e ridimensiona senza criterio le problematiche a cui andiamo continuamente incontro, con la convinzione che il peggio, tutto quello che accade al di fuori delle nostre prossimità, è lontano da noi, e perciò non ci potrà mai accadere.

 

«Quanto oggi accade nel mondo mostra in realtà come i miti e i racconti dei selvaggi, dei primitivi, dei contadini andavano presi molto sul serio e andrebbero riconsiderati», scrive Teti, «per quanto possono far capire al Sapiens – giunto a un punto di rottura, quasi irreversibile, con la natura, la terra, le acque, le piante, il mondo animale – che è tardi per abbandonare il suo antropocentrismo e che comunque resta poco tempo per evitare la fine della sua specie».

 

Nel caso specifico della comunità calabro-albanese – ma il ragionamento è applicabile a tutte le comunità che nei casi di emergenza rientrano puntualmente in zona rossa, dunque sono costantemente a rischio – il paese è scomparso, e la comunità ha dovuto interfacciarsi con una perdita particolare, a suo modo importante, per cui è stata necessaria la stessa capacità d'elaborazione di un lutto. La differenza è che, come spiega molto chiaramente l'etnologo, nel caso della morte di una persona a cui si vuole bene, a casa si può sempre ritornare, e lì ci si può dedicare al superamento del lutto; ma quando è la casa a morire, quando la Natura si riprende con la forza la terra di un intero paese, non esiste più un luogo del ritorno, e il lutto rimane come sospeso, irrisolto. «Con la morte del paese» conclude Teti, «finisce il proprio mondo, quando non il Mondo».

 

Per concludere sulla stessa linea di ragionamento dell'autore, è importantissimo che si guardi alle cose con riguardo e attenzione, in modo tale da avere un'immaginazione diversa e, conseguentemente, sviluppare altri sentimenti, che in certi casi possono essere salvifici. Bisognerebbe dunque ascoltare, ''sentire'', stare in religioso silenzio, e partecipare, condividere, non fuggire dal dolore, immedesimarsi con [tutti gli] altri noi, stranieri e familiari.

 

7 ottobre 2024

 








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