In Schopenhauer, Kierkegaard e Sartre si può rintracciare un’analisi profonda dell’esperienza amorosa. Nei tre pensatori, l’oscillazione tra amore-eros e amore-agape è descritta rispettivamente in una prospettiva metafisica (Schopenhauer), religiosa (Kierkegaard) ed esistenziale (Sartre).
Nel graduale passaggio dall’essenza all’esistenza, la riflessione sull’amore si apre allo scacco della singolarità e dell’alterità, alle molteplici contraddizioni del sentire.
Pur nelle loro diversità, le filosofie di Schopenhauer, Kierkegaard e Sartre mettono al centro la dimensione affettiva come chiave di accesso alla comprensione dell’esistenza. In Schopenhauer è ancora forte la vocazione metafisica, che tende a stemperarsi in Kierkegaard, fino ad assumere una forma fenomenologica in Sartre. Pensare un percorso attraverso questi tre filosofi per evidenziarne le analogie e le differenze sarebbe un’operazione futile, un puro esercizio di stile che avrebbe ben poco da insegnarci. Per questo motivo, ritengo più interessante limitarsi a seguire un sentiero su un tema specifico che accompagna le loro riflessioni: l’amore. L’obiettivo non è filologico o esegetico. Su Schopenhauer, Kierkegaard e Sartre vi è una bibliografia critica sterminata. Desidero piuttosto mostrare come le loro analisi siano ancora attuali per interrogare un sentimento che segna in modo fondamentale il nostro essere nel mondo.
Schopenhauer: la metafisica dell’amore
Il mondo come volontà e rappresentazione è la grande opera di Schopenhauer. A detta dello stesso filosofo, è qui che viene elaborato il concetto fondamentale, il “pensiero unico”, intorno a cui ruota tutto il suo pensiero: la volontà. A differenza degli idealisti, per Schopenhauer il reale non è razionale. Alla base della realtà vi è infatti una volontà irrazionale che vuole se stessa, una volontà priva di scopo. Se in genere i filosofi hanno visto nella volontà una facoltà del soggetto, per Schopenhauer la volontà è l’essenza di ogni cosa: è la volontà a oggettivarsi nella realtà e negli esseri viventi. Si tratta di un cambiamento di prospettiva importante, in particolare sotto il profilo antropologico: ciò che costituisce l’uomo non è la ragione o un io astratto, ma una certa configurazione della volontà che si esprime nel temperamento, nelle pulsioni e nella ragione stessa.
La novità del pensiero di Schopenhauer non si ferma tuttavia a questo. Un aspetto ancora più interessante è la chiave di accesso all’essenza del mondo. Nella tradizione metafisica la comprensione del principio, dell’essere e di Dio è affidata alla ragione. È il logos l’unico strumento in grado di svelare ciò che vi è dietro la cortina dei fenomeni. Con Schopenhauer la situazione cambia radicalmente: la via privilegiata per cogliere la volontà irrazionale è il corpo e in particolare quelle esperienze affettive che manifestano il non senso dell’esistere. Per Schopenhauer sono in prima istanza due, il dolore e la noia, ma all’interno di questa oscillazione sono tutte le emozioni umane che devono essere ricollocate e ripensate.
Nell’arco affettivo tracciato dal filosofo, l’amore occupa un posto importante. La giustificazione non può e non deve essere cercata in ragioni di ordine biografico, come la sua misoginia o il rapporto difficile con la madre. Sebbene il vissuto possa aver giocato un ruolo, la riflessione filosofica tende a trascendere questa dimensione. Schopenhauer non può fare a meno di dedicare una sezione significativa de Il mondo come volontà e rappresentazione a “smascherare” la vera realtà dell’amore.
Nel contesto storico del Romanticismo e di una radicata e millenaria tradizione platonico-cristiana, che vede nell’amore il motore del progresso morale dell’umanità, Schopenhauer argomenta come “dietro” questo sentimento vi sia una volontà irrazionale. Il filosofo si sofferma a lungo sull’amore tra due persone, quello con componente sessuale, che condanna come fonte di sofferenza alla luce di una giustificazione metafisica.
Riporto uno dei passi più significativi:
« Ogni innamoramento, per quanto etereo voglia apparire, è radicato esclusivamente nell’istinto sessuale, anzi non è assolutamente altro che un impulso sessuale più determinato, più specializzato, meglio individualizzato nel senso più stretto del termine. Se ora, tenendo fermo ciò, si considera il ruolo importante che l’amore sessuale, in tutte le sue gradazioni e sfumature, svolge non solo nei drammi e nei romanzi, ma anche nel mondo reale, dove esso, accanto all’amore per la vita, si rivela come il più forte e il più attivo di tutti gli impulsi, assorbe continuamente la metà delle forze e dei pensieri della parte più giovane dell’umanità, costituisce il fine ultimo di quasi ogni sforzo umano, esercita un influsso nocivo sugli affari più importanti […], toglie alla propria vittima a volte la vita o la salute, a volte la ricchezza, il rango e la felicità, […]– allora si è indotti ad esclamare: perché tanto rumore? Perché tanto accanimento e tanto furore, tante angosce e tanti affanni? In fondo, si tratta solo di questo: ogni Hans vuol trovare la sua Grethe. Perché una simile piccolezza dovrebbe avere tanta importanza e portare continuamente disturbo e confusione nella ben regolata vita umana? Ma allo studioso serio lo spirito della verità rivela a poco a poco la risposta […]. Lo scopo finale di tutte le vicende d’amore, siano esse recitate con il socco o con il coturno, è in realtà più importante di tutti gli altri scopi della vita umana e perciò merita in pieno la serietà con cui ognuno lo persegue. Infatti, ciò che qui viene deciso non è niente di meno che la composizione della futura generazione. Qui, mediante questo così frivolo rapporto d’amore, vengono determinate, nella loro esistenza e nella loro costituzione, le dramatis personae che compariranno quando noi saremo usciti di scena. » (A. Schopenhauer, Metafisica dell’amore sessuale, in Supplementi al Il mondo come volontà e rappresentazione)
Anche nell’amore in apparenza più puro è radicato l’istinto sessuale, una passione tirannica e demoniaca, che rappresenta per il filosofo un inganno della natura. L’amore stravolge l’esistenza: ossessiona, occupa le energie mentali, ammala, rende poveri. Sembra quasi di leggere una riscrittura di segno negativo del celebre passo del Simposio in cui Platone descrive eros come figlio di Poro e Penia. Se in Platone l’irrequietezza di amore, il suo essere scalzo e coraggioso, nudo e intraprendente, rinvia alla sua tendenza a trascendersi e ad aspirare a forme sempre più elevate di bene, in Schopenhauer si tratta di un precipitare nel baratro della follia. La perdita di senno non è però priva di senso: dietro l’accecamento generato dall’amore vi è la volontà della specie che sceglie i partner più adatti per affermarsi. Schopenhauer non cade in contraddizione con la sua tesi metafisica: se è vero che il fondamento è una volontà irrazionale, questa vuole comunque se stessa. Il non senso universale non esclude allora la presenza di scopi particolari. In altre parole, l’uso strumentale degli esseri viventi in vista di una prole più adatta all’ambiente può coesistere con l’assenza di un fine ultimo nella natura.
Un corollario di questa visione negativa dell’amore è che per Schopenhauer i matrimoni sono inevitabilmente infelici. La volontà non accoppia le persone più compatibili a livello caratteriale, intellettivo e affettivo. Unisce quelle che possono procreare esseri più sani e più forti. Per raggiungere questo obiettivo inganna i partner; fa in modo che ognuno veda nell’altro doti che in realtà non ha. Direbbe Lucrezio:
« Non scorge, l’infelice, i propri mali, che sono i più grandi. La nera “ha il colore del miele”, la sudicia e fetida è “disadorna”, se ha occhi verdastri è “l’immagine di Pallade”, se è nervosa e secca è “una gazzella”, la piccoletta, la nanerottola, è “una delle Grazie”, è “tutta puro sale”, la corpulenta e smisurata è “un prodigio” ed è “piena di maestà”. La balbuziente, che non può parlare, “cinguetta”, la muta è “pudica”; e l’irruente, odiosa, linguacciuta è “tutta fuoco” » (Lucrezio, De rerum natura).
Sorvoliamo sull’aspetto del politicamente corretto, che all’epoca di Lucrezio non faceva problema. Il passo – noto a Schopenhauer – rende bene l’idea. L’amore produce illusioni che sono tuttavia funzionali alla volontà della specie. Esse durano finché la volontà non ha raggiunto il suo scopo (la prole). Appena ottenuto, la rêverie a occhi aperti si dissolve; i partner si vedono per quello che sono; non riescono a capire come abbiano potuto innamorarsi; iniziano a odiarsi, a detestarsi, a maledire il giorno in cui si sono incontrati.
Sembrerebbe insomma che per Schopenhauer l’amore sia un’esperienza negativa. Tuttavia, all’amore come eros, la cui radice è nel desiderio e quindi nel dolore, si affianca un’altra forma di amore, che assume una connotazione positiva:
« Ogni amore (αγαπη, caritas) è compassione. [...]. L’egoismo è l’ερωç, la compassione è l’αγαπη. Spesso entrambi si trovano confusi. Perfino la vera amicizia è sempre una mescolanza di egoismo e di compassione: il primo si ha nel compiacersi della presenza dell’amico, la cui individualità corrisponde alla nostra, e costituisce quasi sempre la maggior parte dell’amicizia; la compassione si mostra nella sincera partecipazione al suo benessere e al suo dolore ed ai sacrifici disinteressati che si fanno per lui. […] A conferma del nostro principio paradossale si può osservare che il tono e le parole della lingua e delle carezze dell’amore puro coincidono pienamente con il tono della compassione; si può anche osservare, per inciso, che in italiano compassione e amore puro sono designati con la stessa parola: pietà » (A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione).
All’amore come eros si contrappone l’agape. La carità, o pietà, è un amore puro in cui l’elemento egoistico è assente. Si partecipa ai dolori dell’altro e ci si sacrifica in maniera disinteressata. Anche in questa forma di amore, è forte la vocazione metafisica: l’amore come pietà «riconosce la propria essenza in ogni creatura umana, […] identifica la propria sorte con quella dell’umanità in generale» (ivi). Schopenhauer aggiunge: «si tratta di una sorte dura, quella della pena, del dolore e della morte» (ivi). L’amore come pietà è una via di liberazione dal dolore: più che un autentico riconoscimento dell’altro nella sua unicità e fragilità, l’agape schopenhaueriana è un abbraccio panico del dolore. Nella compassione si comprende la sofferenza di ogni essere vivente e in questo modo si ricolloca la propria nella giusta prospettiva. La pietà sembra quasi intrecciarsi con l’esercizio spirituale, presente già negli stoici, della visione dall’alto. Sentendo il dolore altrui, posso guardare il mio da un’angolatura più ampia e meno egoistica. Non sono il solo a soffrire, non esisto solo io; tutti soffriamo e abbiamo bisogno di aiuto. Alleviare il dolore degli altri contribuisce allora a lenire il mio; stare a contatto con la sofferenza altrui aiuta ad accettare la mia.
Eppure, non è questa la formulazione più bella di agape. Concordo con quanto osserva il filosofo francese André Comte-Sponville in un bel saggio sull’amore:
« La più bella formulazione è stata data, nel XX secolo, dal filosofo tedesco Adorno. È forse, sull’amore, la frase più sconvolgente che io conosca. In Minima Moralia, Adorno scrive questo: "Sarai amato quando potrai mostrare la tua debolezza senza che l’altro se ne serva per affermare la sua forza". Amore come carità? Questo è il nome che gli danno i cristiani. Gli amanti parleranno piuttosto di tenerezza, di dolcezza, di delicatezza, di gentilezza... Poco importa le parole. Ma quale felicità sarebbe possibile a due, senza questa dolcezza d’amare? Si tratta di proteggere la fragilità dell’altro, anche da sé » (A. Comte-Sponville, Le sexe ni la mort. Trois essai sur l’amour et la sexualité).
Sia nell’amore come eros sia nell’amore come agape, Schopenhauer non dà grande spazio alla singolarità, all’incontro di due anime, a quella che Alain Badiou ha chiamato, con una felice espressione, la “scena del due” (cfr. A. Badiou, Elogio dell’amore). Del resto, se ogni essere vivente è solo una manifestazione effimera di una volontà irrazionale, come potrebbe irrompere l’individuo nella sua unicità?
La riflessione sull’amore, e più in generale quella sulla dimensione affettiva, è condizionata in Schopenhauer dalla metafisica. La priorità dell’essenza sull’esistenza genera un cortocircuito. Da una parte si afferma che il corpo è la strada maestra per accedere al noumeno, dall’altra che tutto ciò che si prova e si sente – dolore, noia, amore, pietà, ecc. – sono pur sempre manifestazioni di una volontà universale e irrazionale. Ma l’affettivo non dovrebbe essere il luogo della singolarità? I sentimenti non esprimono la nostra unicità, non sono questi a definirci nel nostro essere più profondo?
Kierkegaard: amore estetico e amore etico
Di questi problemi è consapevole il filosofo danese Søren Kierkegaard, che con un ossimoro provocatorio pone il cuore del suo pensiero nella categoria del “Singolo”:
« Se io dovessi domandare un epitaffio per la mia tomba, non chiederei che: «Quel Singolo» – anche se ora questa categoria non è capita. Lo sarà in seguito. Con questa categoria, il «Singolo», quando qui tutto era sistema su sistema, io presi polemicamente di mira il sistema, e ora di sistema non si parla più. A questa categoria è legata assolutamente la mia importanza storica » (S. Kierkegaard, Diario 2194).
Come Schopenhauer, anche Kierkegaard si oppone a Hegel e alla filosofia intesa come “sistema”. Ma, a differenza del primo, compie un passo ulteriore: rinuncia a ogni pretesa metafisica. L’infinito o assoluto è recuperato all’interno della fede cristiana, in una dimensione religiosa fondata sull’intima relazione tra il Singolo e Dio. Kierkegaard non costruisce una cosmologia, né pretende di cogliere l’essenza ultima delle cose. La filosofia schopenhaueriana è pur sempre debitrice – come lo stesso pensatore ammette – nei confronti di Platone e di Kant. Si inserisce nel solco di una tradizione metafisica, che Schopenhauer recupera in chiave polemica antihegeliana.
Nel caso di Kierkegaard la questione è molto più delicata. L’elemento religioso altera profondamente l’impianto filosofico. Ci ritroviamo, per certi versi, in una situazione simile a quella di Blaise Pascal: filosofia e religione si legano al punto da delineare una koinè, ovvero una sovrapposizione di codici espressivi e concettuali, che rende questo genere di riflessioni difficile da classificare. Bisogna comunque tenere ferma la tesi che la categoria del “Singolo” assume in Kierkegaard tutto il suo valore nel rapporto con Dio. È l’infinito che fonda il Singolo in quanto tale; è nella relazione assoluta con Dio che il Singolo scopre se stesso.
Afferma Kierkegaard:
« La fede è appunto questo paradosso, cioè che il Singolo come Singolo è più alto del generale; esso è giustificato di fronte a questo, non subordinato ma sopraordinato. Questo però va inteso a questo modo: ch’è il Singolo il quale, dopo essere stato subordinato come Singolo al generale, ora mediante il generale diventa il Singolo il quale, come Singolo, è sopraordinato; il Singolo come Singolo sta in un rapporto assoluto all’Assoluto » (S. Kierkegaard, Timore e tremore).
In questo apparente “scioglilingua”, Kierkegaard sottolinea la peculiarità del cristianesimo. Mentre nell’etica l’individuo si sforza di adeguarsi all’universale, ai principi morali – e quindi l’universale prevale sul particolare –, nella religione, come avviene per Abramo, è il Singolo che risponde alla chiamata di Dio. Nel «rapporto assoluto all’Assoluto», il Singolo si può ritrovare anche in contrasto con l’universale, in quanto nella fede l’Assoluto si rivolge al Singolo, e nel suo appellarlo lo fonda come Singolo. Per Kierkegaard, il Singolo emerge dunque nel dialogo drammatico tra l’uomo e l’infinito. È fondamentale qui l’aggettivo “drammatico”, perché questo legame non è puramente razionale: non è attraverso la riflessione astratta sull’infinito che il Singolo si comprende. Al contrario, è nel vissuto, nella storia personale, con le sue molteplici narrazioni, che il Singolo trova il proprio senso. Mentre nella Fenomenologia dello Spirito di Hegel la coscienza raggiunge la piena consapevolezza di sé attraverso un cammino, sì travagliato, ma unico e necessario, il Singolo di Kierkegaard si cerca e si ricerca in una continua tensione verso l’Assoluto, dove il rischio di perdersi è sempre presente. Il Singolo di Kierkegaard non lo concettualizza, prova piuttosto a mettere in scena una relazione con esso assumendo fino in fondo un certo stile di vita. Il Singolo esprime il desiderio di infinito vivendo con passione.
Ancora una volta – come in Schopenhauer ma per strade diverse – la dimensione affettiva risulta centrale. Non sorprende che in Kierkegaard il tema dell’amore sia centrale e, viste le premesse, rappresenti il cuore pulsante del suo pensiero.
Ai fini del nostro discorso, è utile soprattutto soffermarsi su due figure dell’amore: il seduttore e il marito. Un passaggio significativo che cattura la maniera di vivere l’amore propria del Don Giovanni è presente in Aut-Aut, nel famoso Diario del seduttore attribuito a Johannes:
« Don Giovanni è invece essenzialmente un seduttore. Il suo amore non è psichico, ma sensuale, e l’amore sensuale, secondo il suo concetto non è fedele, ma assolutamente privo di fede, non ama una, ma tutte, vale a dire seduce tutte. Esso infatti è soltanto nel momento, ma il momento è concettualmente pensato come la somma dei momenti, e così abbiamo il seduttore. [...] Ma questa sua mancanza di fede si mostra anche in un altro modo: infatti esso resta sempre solo una ripetizione. L’amore psichico ha in sé la dialetticità doppiamente. Infatti ha in sé il dubbio e l’inquietudine se sarà anche felice, se vedrà soddisfatto il suo desiderio e sarà amato. L’amore sensuale non ha questa preoccupazione » (S. Kierkegaard, Aut-Aut).
L’amore del seduttore è sensuale. Johannes non ricerca l’amore “psichico”, inteso come un legame emotivo, spirituale e profondo con l’individualità dell’altro. Egli non riesce ad amare “una” donna, non compie quell’atto di fede che porta a scegliere l’altro come unico e insostituibile. Ecco perché le “sceglie” tutte; il seduttore non incontra la singolarità dell’altro. Ciò non significa che non viva con passione o che non si relazioni all’infinito. Il problema è che il suo rapporto con l’infinito è ambiguo. Johannes aspira a un infinito quantitativo, dato dall’accumulo dei momenti di piacere vissuti con le donne sedotte? O, al contrario, sogna un infinito qualitativo: spera che prima o poi una delle sue “prede” possa concedergli un istante di assoluta pienezza? In effetti cambia poco: Don Giovanni vive la sua relazione con l’infinito in maniera “superficiale”, nel senso letterale del termine. È a livello dell’epidermide, del sentire, che il Don Giovanni spera di trovare l’Assoluto. Il seduttore è dunque un esteta, in quanto è attraverso un’ipertrofia dei sensi che si illude di dare un senso alla propria esistenza, che l’Assoluto si riveli a lui.
L’esistenza epidermica del seduttore non solo non gli consente di scoprire la singolarità dell’altro, ma gli preclude in parte anche la scoperta della propria. Il seduttore avverte infatti la propria singolarità unicamente sotto l’aspetto “patico”, del puro sentire. La dimensione dell’agire pratico, della responsabilità – fondamentale affinché si costituisca lo “psichico” – resta al di fuori della sua portata.
Diversa è la situazione del marito, che in Aut-Aut è rappresentato dalla figura del Giudice Wilhelm. Con il matrimonio si sceglie l’eternità: Wilhelm si impegna in un progetto a un tempo etico e religioso, in cui ogni giorno si rinnova la fede in un’unica donna.
Osserva Kierkegaard:
« Ma il matrimonio ha in sé un momento etico e religioso, l’amore no; il matrimonio, per tale ragione, è basato sulla rassegnazione, l’amore no » (ivi).
Occorre prestare attenzione. La “rassegnazione” non va intesa nella comune accezione passiva. Il marito è “rassegnato” nel senso che decide di non cedere agli ostacoli della vita, perché è pronto ad affrontarli per rimanere coerente con la sua scelta. È “rassegnato” come la persona pronta ad andare fino in fondo, ad accogliere il proprio progetto di vita come un destino.
In questo agire etico, il marito scopre l’aspetto spirituale della singolarità propria e dell’altro; si espone alla propria e all’altrui fragilità, alla delusione, alla routine, alla noia, ai silenzi, alle incomprensioni, in poche parole alla finitezza dell’esistenza. Ma nel fare questo non rinuncia all’infinito: lo assume piuttosto in modo problematico sul piano di un agire che vuole essere coerente nonostante tutto, e a volte contro tutto.
Al marito si potrebbero attribuire queste belle parole di Henri Bergson: «Noi vogliamo sapere in virtù di qual ragione ci siamo decisi, e troviamo che ci siamo decisi senza ragione, forse anche contro ogni ragione» (H. Bergson, Saggio sui dati immediati della coscienza).
Il seduttore e il marito riprendono i due aspetti dell’amore già visti in Schopenhauer: l’amore come eros e l’amore come agape. Kierkegaard ne approfondisce la portata esistenziale; amare è esistere come sentire, come agire, come aver fede. Il rapporto con l’Assoluto permane comunque: nella fenomenologia dell’amore, l’espressione più piena dell’esistere è nell’abbracciare la fede in Dio.
Privilegiando una forma di esistenza rispetto alle altre riemerge una certa subordinazione dell’esistenza all’essenza, perché l’amore ha il suo prototipo ideale nella vita religiosa.
Sartre: amore e carezza
La filosofia di Sartre è una fenomenologia dell’esistenza. Ne L’esistenzialismo è un umanismo il pensatore francese definisce così la propria filosofia:
« L’esistenzialismo ateo, che io rappresento, è più coerente. Se Dio non esiste, esso afferma, c’è almeno un essere in cui l’esistenza precede l’essenza, un essere che esiste prima di poter essere definito da alcun concetto: quest’essere è l’uomo, o, come dice Heidegger, la realtà umana. Che significa in questo caso che l’esistenza precede l’essenza? Significa che l’uomo esiste innanzi tutto, si trova, sorge nel mondo, e che si definisce dopo. L’uomo, secondo la concezione esistenzialistica, non è definibile in quanto all’inizio non è niente. Sarà solo in seguito, e sarà quale si sarà fatto » (J.-P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo).
È noto il celebre esempio del tagliacarte. Mentre l’idea del tagliacarte precede la sua esistenza, nell’uomo l’esistenza precede l’essenza. L’uomo prima esiste, «sorge nel mondo», «si definisce dopo». Le implicazioni di questa tesi sono molteplici e non è questa la sede per soffermarsi su di esse. Analizziamo l’aspetto più rilevante: poiché l’uomo esiste e la sua essenza non è data a priori, egli è costitutivamente libero. Per Sartre l’uomo è condannato ad essere libero. I vincoli esterni e interni delineano la sua situazione esistenziale, ma questa non lo determina. Anzi, l’essere in situazione è lo spazio in cui da sempre si esercita la libertà dell’uomo.
Non a caso allora Sartre definisce l’uomo come un “per sé”, come abitato da uno scarto, dal nulla.
« Così il nulla è questo vuoto d’essere, questa caduta dell’in-sé verso il sé, per cui si costituisce il per-sé. Ma questo nulla non può “essere stato” se la sua esistenza d’accatto non è correlativa ad un atto annullatore dell’essere. Questo atto continuo, per cui l’in-sé si degrada a presenza a sé, lo chiameremo atto ontologico. Il nulla è la problematizzazione dell’essere da parte dell’essere, cioè la coscienza o per-sé. È un avvenimento assoluto che viene all’essere per mezzo dell’essere, e che, senza avere l’essere, è sempre sostenuto dall’essere » (J.-P. Sartre, L’essere e il nulla)
Il nulla della coscienza nasce dalla sua differenza. La coscienza è una frattura, una lacerazione nella pienezza dell’in-sé (gli enti mondani). La mancanza di essere che la costituisce è sostenuta però dall’essere, perché non si dà una coscienza che non sia incarnata, che non abbia un corpo, che non sia in situazione. È evidente allora che nella fenomenologia del per-sé la sfera affettiva sia essenziale.
Sartre dedica in L’essere e il nulla delle pagine molto interessanti al tema dell’amore. Partiamo da un brano chiave:
« È quindi certo che l’amore vuole imprigionare la “coscienza”. Ma perché lo vuole? E come? La nozione di “proprietà” con la quale si definisce così spesso l’amore non può essere, infatti, la prima. Perché dovrei volermi appropriare di altri se non fosse perché altri mi fa essere? Ma ciò implica un certo modo di appropriazione: è della libertà di altri in quanto tale che noi vogliamo impadronirci. E non per volontà di potenza: il tiranno se ne ride dell’amore; egli si accontenta della paura. [...] Così l’amante non desidera di possedere l’amata come si possiede una cosa; pretende un tipo speciale di appropriazione. Vuole possedere una libertà come libertà. Ma, d’altra parte, non può essere soddisfatto di quella forma eminente di libertà che è l’impegno libero e volontario. Chi si accontenterebbe di un amore che si desse come pura fedeltà all’impegno preso? Chi accetterebbe di sentirsi dire “ti amo, perché mi sono liberamente impegnata ad amarti e perché non voglio contraddirmi: ti amo per fedeltà a me stessa”? Così l’amante chiede il giuramento e si irrita del giuramento. Vuole essere amato da una libertà e pretende che questa libertà come libertà non sia più libera. Vuole insieme che la libertà dell’altro si determini da sé ad essere amore e questo, non solo all’inizio dell’avventura, ma ad ogni istante e, insieme, che questa libertà si imprigioni da sé, che ritorni su se stessa, come nella follia, come nel sogno, per volere la sua prigionia. E questa prigionia deve essere insieme rinuncia libera e incatenata nelle nostre mani. Nell’amore, non si desidera nell’altro il determinismo passionale o una libertà fuori portata: ma una libertà che gioca al determinismo passionale e che aderisce al suo gioco » (ivi).
Per Sartre l’amore è un paradosso. L’amante vuole possedere l’altro, ma non come una semplice proprietà. Egli non è il tiranno che tratta i suoi sudditi come oggetti di cui disporre liberamente. Nell’amore si genera una dinamica più insidiosa e contraddittoria. L’amante desidera infatti che l’altro sia suo, ma che allo stesso tempo mantenga la sua libertà. L’amante non si accontenta che l’amato lo scelga, che dica appunto “ti scelgo liberamente e liberamente mi impegno a essere coerente in futuro con questa mia decisione”. Non si è nella postura etica di Kierkegaard. Si cerca piuttosto una dichiarazione paradossale del tipo: “scelgo liberamente di rinunciare a me per essere tua/o” oppure “sarò tua/o, e ogni giorno coerentemente con questa decisione rinuncerò a me per te.”
Per Sartre si desidera nell’amore «la sintesi impossibile del per-sé e dell’in-sé», si vuole che l’altro sia a un tempo un oggetto e un soggetto, necessitato e libero.
Anche Sartre traccia una visione abbastanza negativa dell’amore, pensato qui soprattutto come eros. Permane inoltre un’aspirazione fusionale, ontologica – un desiderio di pienezza –, che sembra oscillare tra il discorso di Aristofane nel Simposio di Platone e la lotta delle autocoscienze di Hegel. Sebbene la mia sia solo una suggestione – che andrebbe approfondita e verificata –, il ragionamento di Sartre evoca quello di Aristofane nel rappresentare l’amore come una tensione verso un’unità senza scarti; richiama però anche Hegel nell’idea che l’altro si debba “liberamente” sottomettere, rinunciando alla propria libertà e continuando a un tempo a essere coscienza – e dunque per-sé. Nella relazione amorosa, l’altro è come una parte di sé, una metà (Aristofane), e una coscienza che si lascia ridurre a oggetto e che riconosce l’amante come unica vera coscienza (Hegel).
La fenomenologia dell’amore di Sartre sembra dunque sospesa tra una vocazione ontologica e una vocazione dialettica, tra un ritorno all’essere e l’Aufhebung come sintesi risolutiva del conflitto che toglie, supera e conserva la contraddizione.
Come in Schopenhauer e in Kierkegaard, anche in Sartre vi è comunque una possibile apertura per una forma di amore più vicina all’agape. Penso soprattutto a quando parla della carezza:
« Si sa quanto sia insufficiente la famosa frase: “contatto di due epidermidi”. La carezza non vuole essere un semplice contatto; sembra che solo l’uomo la possa ridurre a semplice contatto, ed allora vien meno al suo significato. Perché la carezza non è un semplice sfiorare: ma un foggiare. Carezzando l’altro, io faccio nascere la sua carne con la mia carezza, sotto le mie dita. La carezza fa parte dell'insieme di cerimonie che incarnano l’altro. […] Nella carezza, non è il mio corpo come forma sintetica in azione che carezza l’altro: ma è il mio corpo di carne che fa nascere la carne dell’altro. La carezza è fatta per far nascere con il piacere il corpo dell’altro all’altro ed a me stesso come passività toccata in quanto il mio corpo si fa carne per toccarlo con la propria passività, cioè carezzandosi contro se stesso piuttosto che carezzandolo » (ivi).
Nella carezza, il corpo dell’altro si fa carne. Certo, abbiamo sempre un corpo, ma in genere – questa è almeno la tesi di Sartre – lo percepiamo attraverso gli ostacoli e le resistenze che incontriamo nell’azione. Il corpo è il limite della coscienza, ciò che delinea la situazione. Mi trovo, ad esempio, in una stanza: ciò che percepisco e l’orizzonte delle mie azioni si definiscono a partire dal mio corpo. La mia coscienza della situazione si nutre della corporeità, che è però sempre presente in maniera indiretta: il corpo è lì come ciò che rende possibile la situazione, ma non lo sento come carne. Nella carezza, invece, accade una sorta di miracolo: quando la mano della persona amata percorre il mio corpo, questo inizia a sentirsi. Nell’essere toccato, mi sento attraverso l’altro; il mio corpo è vissuto e abitato dal desiderio dell’altro. Il corpo non è allora più solo l’orizzonte della mia situazione, ma diventa un sentire me stesso attraverso l’altro, e un sentire l’altro attraverso me stesso. In poche parole, il corpo non è più il contorno che definisce il mio essere nel mondo, ma apertura all’altro. L’epidermide diventa il luogo in cui sento il mio per-sé attraverso la mano dell’altro: sento l’altro come mi sente, e l’altro sente come lo sento.
Non amo i giochi di parole, anche se è difficile quando si leggono i filosofi esistenzialisti, soprattutto Sartre, non cadere nella tentazione di ripetere il loro fraseggio. Non a caso, ad esempio, la filosofia di Heidegger ha dato origine a un vero e proprio idioletto che da decenni impera nelle nostre università, spesso più nel male che nel bene.
Vorrei dunque provare a esplicitare le osservazioni di Sartre con un esempio. Preciso che questa mia interpretazione del passaggio di Sartre non è letterale; costituisce più un tentativo di un andare con Sartre oltre Sartre. Immaginiamo un giovane affranto per una grave perdita o per una profonda delusione, che, nonostante provi delle emozioni dolorose, faccia di tutto per nasconderle. Di fronte a sé e ai familiari e agli estranei, finge che tutto vada bene. Chi gli sta più vicino intuisce però la sua sofferenza. Un giorno, mentre è seduto pensieroso in cucina, la madre lo vede e gli accarezza il volto. Con quella carezza egli sente la preoccupazione che la madre prova per lui e a un tempo avverte il proprio dolore. La carezza rivela la propria carne sofferente; il giovane sente sé attraverso la compassione della madre. Nel com-patire due carni sofferenti si abbracciano nell’amore. Madre e figlio si lasciano andare, si donano l’uno all’altro, si rimettono l’uno all’altro: il dolore di entrambi è nudo nella carezza che mostra la finitezza e la fragilità della condizione umana.
Nella carezza sembra dunque possibile individuare un amore che non è possesso, volontà di ridurre l’altro a una coscienza che rinuncia alla propria libertà. Si mostra piuttosto un amore in cui l’amante e l’amato si con-cedono, si riconoscono nella propria finitezza, si com-prendono perché con-sentono. L’amante e l’amato si raccolgono l’uno nell’altro in un prendersi che è sentire-con.
Conclusione
In Schopenhauer, Kierkegaard e Sartre, la riflessione sull’amore passa gradualmente dalla dimensione ontologica a quella esistenziale. In questo cammino dall’essenza all’esistenza, il discorso filosofico si apre alla fatticità, all’irriducibile singolarità dell’esistente. Non “si” ama, ma sono “io” ad amare, e in quel pronome emerge con prepotenza la fragilità di una coscienza.
Nelle sue forme più tossiche, spettacolari e consumistiche, l’Eros in agonia dei tempi odierni – per riprendere il titolo di un importante saggio di Byung-Chul Han – sta perdendo pericolosamente la sua profondità.
Nell’appiattimento generale delle relazioni nella società dell’infosfera, l’amore a una dimensione è la manifestazione più grave di un’umanità in cui non vi è più spazio per il “Singolo”, ma solo per un io anonimo e narcisista, ridotto a big data.
Interrogarci sull’amore con Schopenhauer, Kierkegaard, Sartre e, in generale, con i filosofi e i grandi classici dell’arte e della letteratura può essere allora un “esercizio spirituale” – intendo l’espressione nel senso delineato da Pierre Hadot – che tutti noi, adulti e giovani, dovremmo praticare per recuperare un po’ di umanità nelle nostre relazioni.
23 giugno 2025
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