Il bello è ancora una luce che scaccia la penombra?

 

Se il nostro tempo è ancora scandito da termini come vantaggio, redditività, desiderio di prevalere, quale funzione può essere riservata alla bellezza? Una riflessione come quella sviluppata da Moritz nella seconda metà del 1700 ha ancora un senso? Se il lascito dello scrittore tedesco corrisponde a un uomo che impara a considerarsi anche come scopo di un intero, è a dir poco opportuno rimettere in gioco il significato del bello. 

 

R. Magritte, "La terra dei miracoli" (1964)
R. Magritte, "La terra dei miracoli" (1964)

 

Nel tentativo di descrivere la propria epoca, Friedrich Schiller  ebbe modo di affermare:

 

« il bisogno domina e curva sotto il suo giogo tirannico l'umanità decaduta. È l'utile il grande idolo del tempo, che tutte le forze devono servire e tutti i talenti omaggiare » (Friedrich Schiller, L'educazione estetica dell'uomo)

 

Queste parole non hanno perso la loro attualità. 

Gli ultimi anni sembrano voler esaltare un individuo ripiegato su se stesso e non di rado emerge la voglia di prevalere sull'altro per giungere a una qualche affermazione materiale della propria identità. Sorge spontaneo interrogarsi allora sul destino a cui va incontro tutto quello che per molti risulta superfluo, accessorio o, più semplicemente, privo di uno scopo tangibile. 

 

La produzione e la contemplazione del bello rientrano in questi parametri o hanno forse un loro senso più profondo? 

 

Per rispondere a questo interrogativo, i riferimenti che possono scorrere dinanzi a noi sono numerosi e di indiscutibile valore. Non si può trascurare il pensiero di Tzvetan Todorov o ignorare il contributo di Ernst H. Gombrich, il quale, per esempio, ci rammenta

 

« che l'uomo è un essere che può porsi problemi e cercarne la soluzione, e non soltanto nella scienza e nella tecnica, ma anche nell'arte » (Ernst H. Gombrich, Arte e progresso)

 

Una particolare attenzione può essere tuttavia concessa a un nome meno ricorrente, spesso ricordato in funzione del suo fecondo sodalizio con Goethe o, in alternativa, in virtù del suo essere “colpevolmente” precursore di alcuni dei temi centrali dell'estetica successiva: Karl Phillip Moritz

 

Egli ha in particolare sottolineato la capacità del bello di recare con sé un piacere che non ha nulla a che vedere con il proprio tornaconto. Fondamentale è infatti il suo carattere organico, autotelico. Contemplando l'oggetto come qualcosa di compiuto in se stesso, si crea una corrispondenza tra microcosmo e macrocosmo che va ben oltre il mero artificio:

 

« Ogni bell’intero che nasce dalle mani dell'artista figurativo è perciò in piccolo un'impronta del bello supremo nel grande intero della natura; la quale continua a creare mediamente attraverso la mano formatrice dell'artista quel che non rientra immediatamente nei suoi grandi progetti » (Karl Phillip Moritz,  Scritti di estetica)

 

Tramite questa sorta di connessione, ecco che l'individuo ha la possibilità di cogliere una inedita opportunità: avvertire, vedere qualcosa che va oltre il suo pensiero indagatore. Il suo cuore e il suo intelletto paiono allargarsi, ponendosi al di là di ogni egoismo legato all'utilità. 

 

Si innesta proprio in questo frangente uno degli aspetti più interessanti della riflessione di Moritz, il quale identifica il grado più alto del piacere puro procurato dal bello in un perderci, in un dimenticarci persino di noi stessi:

 

« In quel momento noi sacrifichiamo la nostra esistenza individuale, limitata ad una sorta di esistenza più alta » (Karl Phillip Moritz, Scritti di estetica)

 

Qui più che altrove si potrebbe scorgere con facilità un alone mistico; l'autore di “Anton Reiser” non manca in realtà di esortare l'uomo a sviluppare tutte le capacità in lui assopite, a considerarsi soprattutto come scopo di quel tutto che va ad abbracciare. 

Questo nesso che ritorna con forza può farci “riconquistare” la voglia di intendere noi stessi come parte di una umanità, senza puntare tutto sull'agio del singolo? Il bello viene di conseguenza ad assolvere una funzione diversa rispetto a godimenti di altro rango? La luce che da esso scaturisce è attualmente in grado di scacciare quella penombra a cui i nostri occhi sembrano essersi abituati?

 

La risposta presuppone una lunga serie di premesse e di chiarimenti che ora possono essere soltanto introdotti. 

Non vi è alcun dubbio sul fatto che la distanza temporale che corre tra noi e Moritz rivesta un peso notevole e sarebbe anacronistico non tenerne conto. Risulta poi prioritario assegnare a ciò che oggi riconduciamo all'ambito estetico una sua connotazione e forse è proprio questo il problema principale. Se lo scrittore tedesco non ha nutrito la minima incertezza nell’estromettere l’utile o nel sostenere che il vero artista porta a termine il proprio lavoro solo per amore della sua opera, in noi albergano meno convinzioni e se ve ne sono prendono il nome di efficacia e redditività.

 

La bellezza sembra essersi impadronita delle nostre giornate, del nostro tempo libero ma quante volte la convochiamo solo per esibire uno status o assecondare i nostri bisogni

 

Per giungere a riconsiderare il bello come un supporto in grado di aiutarci a prendere le distanze dalla barbarie e a elevare noi stessi, dobbiamo trasformare questa domanda in un punto di partenza, chiamando innanzitutto in causa il significato di estetizzazione della realtà

 

15 gennaio 2018

 




SULLO STESSO TEMA

G. Zuppa, Contro un'estetica soggettivistica

 V. Gaspardo, I contenuti dell'arte

V. Gaspardo, A proposito dell'arte astratta

                     V. Gaspardo, L'insegnamento nell'arte

F. Pietrobelli, Il problema dell'arte

V. GaspardoL'evanescenza dell'ideale di bellezza






  • Canale Telegram: t.me/gazzettafilosofica