Il filosofo che si fa politico

 

Non è pensabile di risolvere le contraddizioni di una persona o di una società con un semplice discorso proferito una volta di fronte a chi è nell’errore. Cambiare il mondo richiede faticare molto di più, in primis un lavoro politico.

 

Nel famoso Mito della caverna, Platone non solo cerca di tratteggiare il percorso di chi, avvolto dall’ignoranza, si avvia man mano verso la luce della verità; egli ricorda che, una volta che l’uomo ha raggiunto il “mondo delle idee”, c’è una difficoltà non trascurabile – per quanto si possa esser sapienti – nel rapporto con chi è rimasto nella caverna a guardare le ombre:

 

« E se dovesse di nuovo valutare quelle ombre e gareggiare con i compagni rimasti sempre prigionieri prima che i suoi occhi, ancora deboli, si ristabiliscano, e gli occorresse non poco tempo per riacquistare l’abitudine, non farebbe ridere e non si direbbe di lui che torna dalla sua ascesa con gli occhi rovinati e che non vale neanche la pena di provare a salire? E non ucciderebbero chi tentasse di liberarli e di condurli su, se mai potessero averlo fra le mani e ucciderlo? » (Platone, La Repubblica)

 

Il problema che viene posto è che chi è filosofo – chi lavora per cogliere la verità, secondo quali principi l’uomo dovrebbe vivere, agire, rapportarsi con gli altri – non rischia, quando si pone fra gli altri uomini, di sembrare ridicolo? Proprio perché incapace di «valutare quelle ombre», cioè di adeguarsi al contesto contraddittorio in cui la maggioranza della gente vive? Non rischia di sembrare uno che se ne sta fra le nuvole?

 

Un altro filosofo, ben più contemporaneo, forse può essere d’aiuto.

Nei Quaderni dal carcere, Antonio Gramsci sottolinea che qualunque uomo è filosofo, cioè ha un pensiero con cui analizza la realtà e si orienta nella propria vita. Tuttavia, molto spesso questo pensiero è contraddittorio, non sviluppato, rimane cioè a livello superficiale. Siccome la maggioranza della gente spesso non si interessa di filosofia (cioè di approfondire il proprio studio sul mondo), finisce per scadere nel senso comune, il quale è 

 

« un concetto equivoco, contraddittorio, multiforme, e che riferirsi al senso comune come riprova di verità è un non senso. »

 

Bisogna dunque criticare la propria concezione del mondo iniziale per «renderla unitaria e coerente» e, per far ciò, il filosofo è colui che dovrebbe venire in aiuto. Ma, come si evidenziava prima con Platone, difficilmente si ascolta chi parla una lingua “diversa”, che arriva pure a criticare cosa abitualmente si pensa. C’è tuttavia una possibile soluzione:

 

« D’altronde l’organicità di pensiero e la saldezza culturale [nel popolo] poteva aversi solo se tra gli intellettuali e i semplici ci fosse stata la stessa unità che doveva esserci tra teoria e pratica; se cioè gli intellettuali fossero stati organicamente gli intellettuali di quelle masse, se avessero cioè elaborato e reso coerente i principi e i problemi che quelle masse ponevano con la loro attività pratica, costituendo così un blocco culturale e sociale. Si ripresentava la stessa quistione già accennata: un movimento filosofico è tale solo in quanto si applica a svolgere una cultura specializzata per ristretti gruppi di intellettuali o è invece tale solo in quanto, nel lavoro di elaborazione di un pensiero superiore al senso comune e scientificamente coerente non dimentica mai di rimanere a contatto coi "semplici" e anzi in questo contatto trova la sorgente dei problemi da studiare e risolvere? Solo per questo contatto una filosofia diventa "storica", si depura dagli elementi intellettualistici di natura individuale e si fa "Vita". »

 

Ecco cosa evidenzia Gramsci: se il filosofo vuole avere un peso nella società, deve sì uscire dalla caverna per innalzare il suo pensiero, ma altrettanto deve stare a contatto con gli uomini nella caverna: capire i loro problemi, le loro perplessità e quanto ritengono vero e, proprio dalla loro filosofia, partire per aiutarli a capire cosa non torna, in che modo possono migliorarsi e risolvere le loro contraddizioni. Un discorso relativo non solo ai massimi sistemi, ma anche alle faccende di carattere economico-sociale.

 

Come avrebbe detto Gramsci: se sono un comunista e voglio convincere che la mia filosofia è la migliore per sistemare la società, non devo andare da un operaio e cominciare a parlare di principi metafisici; devo ascoltarlo, capire le sue difficoltà economiche e sociali, trovare innanzitutto un accordo sui suoi problemi e su come bisognerebbe risolverli. Pian piano, partendo dalle sue difficoltà, mostrare in che modo le mie proposte possano aiutare e, da lì, arrivare sempre più verso i principi che danno senso e direzione a quelle proposte. Un lavoro fatto sicuramente di critica verso il senso comune di quell’operaio, ma prima di tutto di ascolto, comprensione e capacità di trovare il modo in cui farsi capire, in cui mostrarsi vicini a quell’uomo. Se viene visto come un alienato dalla società, il filosofo ha perso la sua occasione.

 

Ma allora, se un pensatore vuole cambiare il mondo, deve prima di tutto diventare un politico nel senso più profondo del termine. Uno che stia in mezzo alla gente, che sia capace di capire i suoi problemi e che su di essi sviluppi il proprio sistema di pensiero – qualcosa di attuale e non astratto dal mondo. Uno che abbia l’abilità di approcciare alla persona comune dialetticamente, aiutandola a comprendere e risolvere le proprie contraddizioni – e al contempo a capire lui stesso se qualcosa non vada in quanto propone, visto che i propri concetti devono costantemente esser messi alla prova.

 

Insomma, per dirla semplice e senza un altro mito: serve chiudersi in studio a studiare con passione, ma non basta. Se non si vive in mezzo alla società, se non la si ascolta, non si va da nessuna parte.

 

14 gennaio 2018

 







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