Il bisogno di comunità

 

L’abitudine alla cura degli altri, alla cura da parte degli altri e alla cura insieme agli altri è qualche cosa di totalmente assente nella nostra “progredita” società. Eppure un elemento come questo avrebbe un peso immenso in positivo.

 

Come già abbozzato in precedenza, fintantoché le condizioni materiali, e cioè politiche, in cui vive la popolazione, o una buona parte di essa, non mutano non potrà mutare neppure una certa inclinazione a precisi disvalori di cui oggi lamentiamo la presenza. 

La più banale delle osservazioni, già ripresa nel precedente articolo, è quella che rileva come nella presente società, che permette la vita e la formazione dei giovani all’interno di contesti nefasti sotto molti aspetti, sia plausibile che il cittadino si trovi spesso costretto a rifugiarsi fra le mani di quei disvalori. La mancanza di occupazione, di stabilità, di servizi e persino dell’istruzione consegna talvolta giovani e meno giovani fra le mani della criminalità. Lungi dallo spingere all’espressione della persona nel suo senso proprio, come millantato dalle carte “ufficiali” degli stati, avviene l’opposto.

 

« Milioni di giovani in Italia, in Europa e in tutto il mondo soffrono quotidianamente sulla loro pelle il peso dello sfruttamento capitalistico. Sempre più giovani si vedono privati di un futuro dignitoso, conoscono fin da ragazzi barriere d’accesso al diritto all’istruzione, conoscono il peso della disoccupazione, della precarietà sul lavoro […]; spesso [hanno] la necessità di legare il loro futuro alla criminalità in assenza di altre soluzioni. […] Milioni di giovani anche in questo nuovo millennio sono costretti a piegare la loro vita alle esigenze dell’ulteriore arricchimento di una manciata di capitalisti. […] Si impedisce così a milioni di giovani di realizzare quelle capacità che, messe a disposizione della collettività, tornerebbero a vantaggio di tutti, costringendoli a mansioni utili soltanto ai capitalisti, che avviliscono la loro umanità. […] Tutti questi milioni di giovani donne e uomini sono milioni di capacità umane che la società perde. Rappresentano un contenitore inesauribile di idee e progetti inespressi. » (Doc. Congressuale FGC)

 

Così, si capisce come non si possa auspicare l’assopimento di questo fenomeno fintanto che non vi sia il passaggio a una società differente, più giusta. Nel pezzo precedente abbiamo anche tracciato le linee generali della dannosità del carcere, che, in risposta a tutto questo, va alimentando astio e recidività. Perciò ora ci interessiamo di una conseguente proposta.

 

È stata la cronaca a suggerire (meglio: a ricordare) una prima e forse un po’ grezza risposta. Dopotutto, non si tratta neppure di una prassi nuova. Ci serviamo della riproposizione ecuadoriana soltanto perché è l’ultima di cui è giunta voce. Nello specifico si tratta della cosiddetta Comune di Quito. A fronte delle numerose proteste popolari e soprattutto indigene che hanno investito il Paese, contro la dittatura capitalista di Lenin Moreno e dei suoi diktat, qualcosa di molto prezioso è emerso, in modo particolare, appunto, attorno alla città di Quito.

 

« È sorprendente il livello di solidarietà che si è stabilito qui in città, che alcuni hanno ribattezzato Comune di Quito, proprio perché non sono solo indigeni, non solo studenti, e non solo manifestazioni. Ci sono blocchi fatti nei quartieri, ci sono quartieri organizzati. I quartieri del centro storico, come il quartiere di San Juan, sono auto-organizzati. Quando la manifestazione arriva nel quartiere, ti danno cibo, acqua. Ieri, quando la tensione si è spostata alla periferia del barrio San Juan, nella parte alta del centro storico, c’erano diversi residenti del quartiere che portavano pietre, persone che dalle finestre delle case davano ai manifestanti materiale da bruciare o per proteggersi dai gas. Alla porta delle case c’erano persone che ci davano acqua. All’interno delle case c’erano persone che ricevevano e aiutavano i feriti, fornendo uno spazio ai medici volontari per occuparsi di loro, poiché le ambulanze non potevano arrivarci. Ci sono molti medici volontari, molti dei quali studenti di medicina, di infermieristica, che stanno aiutando nelle strade, fornendo assistenza d’emergenza ai feriti per impedire che muoiano o che le ferite si aggravino. Abbiamo un apparato medico incredibile, molto organizzato. Abbiamo posti per la raccolta cibo, faccio parte di uno di questi gruppi su Whatsapp perché il luogo in cui lavoro funziona come punto di raccolta dei prodotti. E in tutto il centro, in tutte le università, ci sono luoghi che funzionano come mense popolari, come spazi accoglienti per le persone che vengono da fuori e che sono venuti a Quito per lottare. Questi posti sono pieni di donazioni, e talvolta non sanno nemmeno dove mettere tutti questi viveri che ricevono. Ci sono cucine comunitarie, dove le persone vengono come volontari per preparare da mangiare. Ieri stavo parlando con persone della cucina comunitaria, nel parco El Arbolito, e c’era un signore che era rimasto ferito mentre la polizia attaccava il parco, perché nonostante l’attacco la cucina resisteva, e continuava ad aiutare le persone. Era la popolazione di un quartiere di Quito che allestiva la cucina, organizzata attraverso una chiesa evangelica, c’erano il pastore e le sue tre pentole giganti. Mi è stato detto che avevano nutrito 700 persone solo quel giorno. Ho anche incontrato una signora molto umile del sud di Quito che aveva un piccolo negozio, e che è arrivata nel pomeriggio con un piccolo van, insieme a suo figlio, passando attraverso il parco distribuendo caffè e pane alla gente. Quindi davvero, il cibo non manca, c’è cibo dappertutto, oggi per esempio ho mangiato quattro volte, ovunque ci sono persone che ti chiamano per mangiare qualcosa, e a volte si offendono se rifiuti perché è una forma di donazione. Ci sono persone organizzate per spegnere i lacrimogeni, o per prendersi cura dei manifestanti colpiti dai gas. C’è qualsiasi tipo di organizzazione, ci sono persone che si prendono cura dei bambini. Ci sono persone che organizzano giochi per bambini. Ci sono persone che passano la giornata cantando, suonando musica. È davvero molto, molto interessante quello che sta succedendo qui. Per questo motivo, alcuni parlano qui della Comune di Quito, alcuni sostengono che in qualche modo abbiamo già guadagnato da questo punto di vista a livello di auto-organizzazione spontanea. Ma ci sono state molte assemblee per arrivare a organizzare ciò che sta accadendo ora… e penso che questa sia la vittoria più grande, e speriamo che possa continuare, questo spirito di auto-organizzazione. Ciò dimostra che insieme possiamo resistere per otto giorni e paralizzare un paese per otto giorni, per dire che i nostri diritti devono essere rispettati. » 

 

Ora, si intende chiaramente come questo fermento sia in parte occasionale, accesosi in relazione alle rivolte contro la barbarie liberale. Si intende anche che un progetto analogo richieda anni di pratica assembleare e politica: « non credete a chi chiama spontaneo un movimento sociale o una rivolta, perché la credenza nella spontaneità, in politica come in fisica, si fonda soltanto nell'ignoranza delle cause. » (T. Negri, Assemblea)

 

E, tuttavia, un simile ambiente non sembra favorevole alla crescita e all’educazione “sana”? Noi diremmo di sì, per almeno tre ragioni.

 

Anzitutto, ciò che salta subito all’occhio è come si sia costantemente in rapporto di collaborazione con i propri concittadini. Che si conoscano oppure no, ogni nuovo incontro che scaturisce si instaura in un clima di benevolenza reciproca. L’abitudine alla cura degli altri, alla cura da parte degli altri e alla cura insieme agli altri è qualche cosa di totalmente assente nella nostra “progredita” società. Eppure un cambiamento come questo avrebbe una portata immensa. Dalla sensibilità che si formerebbe dentro la Comune ne scaturirebbe una difficoltà maggiore di ferire l’altro, in qualsivoglia maniera, perché l’altro è colui insieme al quale si convive costantemente nel senso pieno della parola, e ci si avvede istantaneamente della sua sofferenza. L’isolamento odierno aliena dalla vita degli altri, dai loro problemi, dai loro vissuti. Accade che, non facendosi presente l’altro nella sua interezza, lo si può distruggere senza la minima oscillazione morale. 

 

Una seconda ragione per cui questo tipo di vita comunitaria sarebbe auspicabile è, sempre seguendo il punto precedente, il fatto che qualora un cittadino della Comune fosse in difficoltà non avrebbe che da rivolgersi ai suoi compagni. Non più solitudine, non più isolamento, non più rimedi "nascosti": la comunità è tale perché si preoccupa per tutti. 

 

In ultima istanza, ciascuno dei membri della Comune si percepisce uguale agli altri: non perché tutti abbiano gli stessi compiti e le medesime competenze, ma perché c’è un rapporto fra pari, fra persone ugualmente dignitose che collaborano spontaneamente fra loro. In un mondo di competenza sfrenata, di modelli capitalisti, di falsi self-made man, è ora di ridare pieno valore all’essere umano, senza nevrosi, invidie sociali, lotta di tutti contro tutti. 

 

 

Insomma: abolizione delle classi, uguaglianza, collaborazione. Questa vorrebbe essere la proposta per arginare la crisi umana e sociale che ci contraddistingue da almeno qualche secolo. Sosteniamo con forza che non possa avvenire alcuna “rivoluzione culturale” – in un senso di cultura avulsa dal contesto e dall'azione concreta – fintantoché questi cambiamenti non avverranno nella sfera politica: utopistico è credere che basti instillare nuovi valori, intesi come simboli più o meno astratti, per cambiare le cose. Come ricorda il sovietico E. Jakovlevič Batalov è vero che «maggiore è il livello di coscienza raggiunto dalla classe lavoratrice, più facile sarà minare la coscienza borghese, promuovere atteggiamenti critici, più profondamente si potrà elaborare la teoria antiborghese». Questo è un momento indispensabile (come si potrebbe pensare di cominciare un processo di cambiamento senza avere coscienza della necessità di un tale cambiamento?), ma è altresì necessario capire che in un quadro borghese non c’è ancora possibilità di «completare quel processo» (Filosofia della rivolta). Perché vengano smantellate formae mentis «arcaiche» è necessario levare le strutture «arcaiche» che impediscono la piena espressione di quei valori, dunque la loro massima comprensione. Così, promuovere queste pratiche collettive all’interno di un quadro che le contraddice, e credere che basti una sorta di cambiamento individuale per risollevare le sorti di ciascuno, è come impedire che questa rivoluzione si realizzi finanche nell’individuo. Non si risolve che in un tentativo di abbellire lo status quo, nella sopportazione di un mondo che non rispecchia quanto auspicato. 

 

Così, chi parla di una “rivoluzione attraverso la coscienza” richiama un monito sbagliato oppure insignificante. Sbagliato quando la coscienza empiricamente intesa viene scambiata per l’intimità nella quale unicamente dovrebbe avvenire il cambiamento, come appena rilevato. Insignificante nel caso ci si rivolgesse alla coscienza in termini ontologici, di massima generalità, poiché tanto lo status quo quanto un eventuale cambio di paradigma rientrerebbero appieno nei suoi canoni. Per queste ragioni, una rivoluzione è politica oppure non è tale. 

Sembra dunque impensabile tentare di instillare quei cambiamenti valoriali al di fuori di una simile organizzazione; ciò che possiamo fare, prima della sua realizzazione, è prepararci a realizzarla.

 

16 novembre 2019

 








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