Perché il carcere non funziona. Da uno scritto di Pëtr Kropotkin

 

Benché si parli continuamente di principio rieducativo all'interno del mondo giuridico e penale, pare che quel proposito sia continuamente contraddetto dalla prassi carceraria. Un vecchio anarchico prova a spiegarci il perché. 

 

V. Van Gogh, "La ronda dei carcerati"
V. Van Gogh, "La ronda dei carcerati"

 

Nel lontano 1877, il padre dell’anarco-comunismo, Pëtr Alekseevič Kropotkin, redasse un piccolo saggio di cui oggi si è persa memoria. Dati alla mano, mostrava come fondamentalmente la prigione, che ancora organizziamo un po’ alla stessa maniera, non spingeva i detenuti a divenire cittadini modello, ma, al contrario, a perseverare nel loro errore. Non pensava che vi potesse essere una riorganizzazione efficace all’interno del sistema capitalista – le ragioni le vedremo fra poco – nonostante le migliorie che nel tempo si erano apportate e che di sicuro anche dopo la sua morte sono avvenute: «la Russia ha abolito il knut e l’Italia ha abolito la pena di morte, ma il numero di omicidi è rimasto invariato». Sosteneva che non solo la redenzione entro le mura della prigione fosse impossibile, ma che addirittura la reclusione andasse a costituire un danno ulteriore al detenuto.

 

« Circa metà di coloro che sono processati per omicidio e tre quarti di coloro che sono processati per furto con scasso sono recidivi. Per quanto riguarda le prigioni centrali, più di un terzo dei detenuti rilasciati da questi istituti, che dovrebbero recuperare alla società, ritornano in prigione nell’arco di dodici mesi dalla loro liberazione. Un altro elemento significativo è costituito dal fatto che il reato per il quale si ritorna in prigione è sempre più grave del primo. » (Le prigioni e la loro influenza morale sui prigionieri)

 

Ai nostri giorni l’essenza del carcere, nella sua funzione punitiva, non è variata; né è cambiato di molto il dato sui criminali recidivi. Proprio per questa ragione è importante riprendere le parole del rivoluzionario russo, affinché possa avvenire (anche in tempi controrivoluzionari come quelli odierni) una piccola presa di coscienza su un tema tanto importante in vista della società futura.

Riprendiamo dunque i punti critici che rileva Kropotkin.

 

P.A. Kropotkin
P.A. Kropotkin

 

1. I condannati sono perlopiù piccoli criminali, i cosiddetti “pesci piccoli”. Sicché, una volta in carcere, avranno sempre la percezione di vivere nell’ingiustizia di un sistema che salva i più benestanti a discapito di coloro che li servono. I grossi imprenditori, i magnati, i banchieri, i politici, quando commettono crimini di portata indicibile vengono assolti e, se condannati, tendenzialmente non scontano un giorno di carcere. L’uomo di strada, che per sopperire alle mancanze di un sistema iniquo rapina la cassa di un negozio, come potrà mai giustificare una differenza di questo tipo? 

 

« Che potete rispondere, sapendo che esistono grandi compagnie finanziarie concepite allo scopo di prosciugare il risparmio dei poveri fino all’ultimo soldo, e che i fondatori di queste compagnie si ritirano dagli affari appena in tempo per convertire quelle piccole fortune in bottino legittimo? Conosciamo tutti le gigantesche truffe organizzate […]. Che cosa possiamo rispondere al detenuto se non che ha ragione? […] Chi può contestare questa affermazione sapendo quali incredibili truffe vengono perpetrate nel regno dell’alta finanza e del commercio di alto livello? Sapendo che la fame di ricchezza, da acquisire con tutti i mezzi possibili, costituisce l’essenza stessa della società borghese? » 

 

2. La questione del lavoro. I carcerati lavorano per una miseria, non di rado vengono sfruttati (anche da compagnie private) e spesso hanno compiti che non stimolano affatto le loro facoltà mentali. Quando le condizioni sono queste il detenuto non è forse legittimato a pensare che i veri ladri siano coloro che li rinchiudono là dentro? Certo, il lavoro educa. Eppure «c’è lavoro e lavoro. C’è il lavoro dell’individuo libero che lo fa sentire parte dell’immenso tutto. E c’è il lavoro degradante dello schiavo».

 

3. C’è poi il fatto che la prigione è una sorta di esclusione sociale. I carcerati non partecipano alla vita della società, sono poco vicini ai propri cari. Non è forse questo un mezzo involontario per atrofizzare i migliori sentimenti di coloro che ne sono rinchiusi? 

 

4. Non c’è dialettica. Ci sono discipline e punizioni per chi le trasgredisce. L’ideale del carcere corrisponde a una massa di persone che autonomamente segue le procedure indicate. Le guardie sono il minimo possibile per molte persone, di modo da non tradire le previsioni economiche e i tagli. Non viene educato nessuno, soltanto punito. L’impedimento è ciò che permette al carcerato di stare in riga, ma una volta uscito – con una rabbia ancor più grande – nessuno frenerà i suoi impulsi.

 

« Non dovremo mai sorprenderci, insiste Kropotkin, se questi uomini, ridotti a macchine, non corrisponderanno, al momento della scarcerazione, al tipo umano che la società pretende. » 

 

Non ci sono, inoltre, grandi possibilità di reintegro. Una volta usciti, rimane la colpa. La società li rende nemici e poi li rifiuta. Eppure «chi esce di prigione è solo in cerca della mano tesa di un amico sincero».

 

5. Le divise che indossano talvolta li rendono ridicoli. Le pratiche che esistono all’interno del carcere, anche fra i carcerati stessi, sono umilianti. Chi vi entra dovrà sopportare le peggiori angherie, non potrà lamentarsi della corruzione delle guardie o delle perquisizioni né degli insulti che potranno giungere dagli altri rinchiusi. Se denuncerà questi atteggiamenti sarà ancor più disprezzato e facilmente punito. 

 

6. Anche le guardie risentono di un sistema degradante. Un giovane inserito in un contesto ostile e corrotto, subirà anch’egli la corruzione che permea la “classe” delle guardie. Non diventerà un modello di bontà, ma si abituerà alla durezza e alla meschinità. Si creerà, come detto, una classe di appartenenza fra i due schieramenti; le guardie sentiranno repulsione nei confronti dei condannati, mentre i detenuti prenderanno a disprezzare sempre più la società, incarnata nell’autorità – in primo luogo quella carceraria. «Questi costituiscono i loro nemici e tutto quello che può essere fatto per fregarli è giusto»: una filosofia che procede oltre le mura del carcere e che spingerà l'ex detenuto, quando recidivo, a commettere crimini con più astio verso le autorità.  

 

Scatto da Guantanamo
Scatto da Guantanamo

 

7. Il sociologo francese Loïc Wacquant, in uno studio pubblicato in Italia nel 2002, ricorda: 

 

« Le carceri americane [...], contrariamente a quanto dice la vulgata politico-mediatica dominante, sono piene zeppe non di criminali pericolosi e incalliti ma di piccoli delinquenti condannati per questioni di droga, taccheggio, furti o addirittura disturbo alla quiete pubblica, provenienti in larga maggioranza dalla classe operaia; in particolare da famiglie del sottoproletariato di colore, residenti nelle città maggiormente colpite dalla trasformazione congiunta del regime salariale e della protezione sociale. » (Wacquant, Parola d'ordine: tolleranza zero. La trasformazione dello Stato penale nella società neoliberale)

 

Le cause della piccola criminalità si iscrivono nelle condizioni economico-sociali della popolazione. La povertà genera illegalità, perché costringe le persone meno abbienti ad affidarsi alle sole vie d’uscita, e spesso di mera sopravvivenza, che nei loro quartieri proliferano: mafia, spaccio, commissioni, ecc. Finché rimangono queste condizioni, che generalmente non sono affatto una scelta ma una via obbligata per mantenere la propria famiglia, ecc., allora è chiaro che le carceri continueranno a essere popolose e i quartieri difficili sempre più pericolosi. Fino a che non verrà meno la povertà, non verranno meno le condizioni della maggior parte del crimine.

 

« Ogni anno migliaia di bambini crescono tra la lordura morale e materiale delle nostre grandi città, in mezzo a una popolazione demoralizzata dalla precarietà dell’esistenza. Questi bambini non sanno cosa voglia dire avere una vera casa. […] Quando vediamo la popolazione infantile delle grandi città vivere in questo modo, è sorprendente che che solo una parte esigua di essa si trasformi in banditi e assassini. »  

 

D’altronde,

 

« che cosa vede il bambino che cresce in strada all’altra estremità della scala sociale? Uno stupido e insensato lusso, negozi eleganti, scritte che esaltano la ricchezza, l’idolatria del danaro […]. La società stessa crea ogni giorno persone incapaci di onesto lavoro e animate da intensi desideri antisociali. Queste persone sono celebrate quando i loro crimini sono coronati dal successo finanziario; punite con il carcere quando i loro sforzi non hanno “successo”. »

 

Appare dunque evidente che senza le condizioni sociali propizie non vi possa essere educazione. La società malata crea condizioni materiali che abituano all’efferatezza, all’ingiustizia, che levano sensibilità e spingono alla lotta per la sopravvivenza. Finché un simile ambiente non verrà rovesciato non solo la criminalità continuerà a proliferare fra il proletariato e il sottoproletariato – le vittime principali –, ma non vi sarà nemmeno margine di manovra possibile anche solo per una riforma efficace del sistema carcerario. Non prima, insomma, di una modifica radicale «dei rapporti fra capitale e lavoro», della «scomparsa della proprietà privata» e, più in generale, di una rivoluzione che dia la possibilità di «lavorare secondo le proprie inclinazioni al bene comune». 

 

Banlieue marsigliese
Banlieue marsigliese

 

Certo, continua Kropotkin, gli atteggiamenti antisociali esisteranno ancora, per altri motivi, e vi saranno degli individui facilmente eccitabili. Tuttavia, il rimedio non può consistere nell’isolamento dalla società, con tutte le conseguenze del caso, ma in una società più forte: «ad esempio, in Cina, le comuni agricole. I membri di queste società si conoscono profondamente. In virtù delle circostanze, essi devono aiutarsi l’un l’altro sia da un punto di vista materiale sia da un punto di vista morale». Auspica una nuova società meno individualista – che non abbia ragione d’esser divisa da quell’imprenditorialità che caratterizza il comportamento personale e familiare nelle nostre società neoliberali – in cui vi siano comunità legate dalla «comunanza delle aspirazioni». All’interno di esse vi sarà più prevenzione, e, nel peggiore dei casi, l’antisocialità avrà modo di esprimersi limitatamente e di affievolirsi all’interno di questi gruppi compatti, segnati dai forti legami di amicizia e solidarietà, quasi familiari. 

 

Probabilmente, come suggerisce Lenin, quello anarchico è un pensiero che talvolta suggerisce cosa fare e non come farlo; che punta a un ideale massimamente comunitario senza progettare i vari passi che ad esso conducono – dunque, avendo sempre un ideale vago di quella che dovrebbe essere la società futura. Infatti,

 

« il comunismo non si può costruire in altro modo se non con il materiale umano creato dal capitalismo, perché non si possono mettere al bando ed eliminare gli intellettuali borghesi, e bisogna vincerli, rifarli, trasformarli, rieducarli, così come si devono rieducare, nel corso di una lunga lotta, sul terreno della dittatura del proletariato, i proletari stessi, che dei loro pregiudizi piccolo-borghesi non si liberano di punto in bianco, per miracolo, per ingiunzione della madonna e nemmeno di una parola d’ordine, di una risoluzione, di un decreto […]. » (Lenin, Estremismo, malattia infantile del comunismo)

 

Tuttavia, l’utilità delle sue osservazioni è indubbia; e se anche non potremmo abolire le carceri con il momento immediato della «rivoluzione sociale», come vorrebbe l’anarchico russo, è certo che la direzione da intraprendere è quella da lui intravista. 

 

12 agosto 2019

 








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