Ricomprendere l'Essere per una nuova Verità

 

Per risolvere la questione della Verità e tutte le problematiche ad essa connesse, potrebbe rendersi necessario andare "più in profondità", ponendo nuovamente la domanda sull'Essere.

 

Jean-Leon Gerome, "la Verità che esce dal pozzo", 1896
Jean-Leon Gerome, "la Verità che esce dal pozzo", 1896

 

Le critiche mosse da Pasquale Noschese in Verità e Violenza (pubblicato in «Gazzetta filosofica» il 10 agosto 2020) ad un generalmente connotato pensiero postmoderno, circa lo strettissimo legame che questo vede fra Verità e Violenza, credo che per molti versi colgano il punto: senza dubbio non è neanche lontanamente sufficiente l’abbandono della Verità perché dal mondo scompaiano ogni prevaricazione e violenza e miracolosamente si instauri una società pacifica di fratelli e sorelle. È troppo anche per la più rosea e idilliaca delle utopie.

 

Si apre quindi ora la questione se sia il caso di abbandonare il postmodernismo come se sia stato una triste parentesi oppure portare con sé i suoi risultati, e ovviamente i suoi problemi. Come forse si è già capito, sono dell’avviso che sia preferibile la seconda opzione. Credo che quasi unanimemente si ritenga un successo la drastica diminuzione di quelle che Plessner definirebbe “disumanità”, ovvero le sofferenze inferte da uomini e donne a uomini e donne per una qualche causa ideale, dovuta a dinamiche di pensiero affini al pensiero postmoderno; e perciò credo anche che molti siano acriticamente d’accordo nel salvare questo aspetto del declinante pensiero postmoderno. Eppure io non mi riferisco esclusivamente a questo, ma anzi precipuamente alla sua quaestio princeps: l’abbandono della Verità. È una problematica che va continuamente pensata e ri-pensata come via d’accesso ad un oltre inaudito ed inesplorato del pensiero. 

 

In Verità e Violenza si pone inizialmente l’accento su quanto l’approccio postmoderno sia “completamente sfalsato rispetto alla reale radice dell’atto violento”, in quanto quest’ultimo non sorge dallo statuto epistemico di una convinzione. Considerando poi la Verità di natura descrittiva, per ragioni storiche beninteso, si richiama la “legge di Hume” per mostrare la non correttezza del passaggio implicito da una condizione descrittiva ad una normativa. Ritengo sia tutto corretto: non è lo statuto epistemico di un pensiero l’unico genitore che dà i natali ad un’azione violenta e una descrizione non dovrebbe trasformarsi in una regola. Ovviamente, però, sorgono già dei problemi: come si è detto non è solo lo statuto epistemico che spinge ad un comportamento violento, ma è indubbio che svolga un ruolo; la “legge di Hume” dovrebbe essere rispettata, ma mi chiedo quanto effettivamente e praticamente lo sia. 

 

Per quanto riguarda la prima delle questioni appena elencate mi pare abbastanza chiaro che un qualsiasi soggetto per muoversi ed agire nel mondo, e dunque per compiere atti violenti, necessiti di un sistema di credenze, o conoscenze, che dir si voglia, le quali ne influenzano il comportamento tanto mediante i contenuti quanto mediante la forma (leggasi statuto epistemico). Perciò anche se dovesse essere l’egoismo, richiamato più avanti nel testo di Noschese, il propulsore dell’agire violento, la rete di credenze soggettive ricoprirebbe un ruolo fondamentale nel concretarsi della violenza stessa. Per quanto l’egoismo quindi possa essere la causa prima, è inevitabile che esso debba inscriversi all’interno della cornice di credenze del soggetto per acquisire realtà e rilevanza intersoggettiva; tali credenze hanno tanto un contenuto quanto una forma, e di conseguenza modificare uno di questi due aspetti, od entrambi, comporta anche una modifica del comportamento del soggetto. Esemplificando: una persona con idee razziste il più delle volte compie gesti riprovevoli nei confronti di uomini e donne di una diversa etnia per ragioni puramente egoistiche, forse anche inconsce, che però si immettono nel suo sistema di convinzioni. Se queste vengono in qualche modo trasformate o nel contenuto o nel loro statuto epistemico, allora è giocoforza che il comportamento della persona razzista cambi. Ovviamente non è la panacea per i mali nel mondo, ed anzi forse è solo un pallido palliativo, ma è una strada che non disdegnerei a priori esclusivamente perché un cambiamento di forma nelle credenze non implica logicamente la cessazione del comportamento violento.

 

 

Giorgio de Chirico, "Enigma della partenza", 1914
Giorgio de Chirico, "Enigma della partenza", 1914

 

Conseguente è il problema legato alla “legge di Hume”: è una critica sterile e intellettualistica affermare che colpire la Verità non può influenzare il comportamento in quanto da una proposizione descrittiva non ne si può trarre una normativa, perché, per quanto logicamente scorretto, il passaggio implicito da descrittivo a normativo è ciò che quotidianamente ciascuno di noi fa. In ogni caso, queste due questioni, che non nego possano essere oggetto di lunghe discussioni, non sono il nucleo centrale dell’argomentazione.

 

Ciò che più mi preme è la Verità. Si è parlato, infatti, di abbandono della Verità, e la domanda che immediatamente sorge spontanea e che non è stata tuttavia presa in considerazione è: quale Verità? Oppure, dato che in fondo è la stessa cosa: che cos’è la Verità? Non accetterò qui l’onere (che sia anche un onore non ne sono poi tanto certo) di rispondere ad una tale domanda, ma solamente il tanto semplice quanto necessario compito di porla, o meglio, ri-porla.

 

In Verità e Violenza si accetta acriticamente, probabilmente perché non era l’oggetto precipuo del testo, la storica definizione di Verità come adaequatio rei et intellectus. Eppure credo che sia in questo luogo problematico che si possa trovare una perlomeno parziale, iniziale, incoativa soluzione. Le derive egoistiche, più o meno contemporanee, denunciate nel testo sopracitato, mi pare infatti che si perpetuino non tanto a causa dei tabù formantesi dalle dinamiche postmoderne, quanto per colpa del fallimento di quest’ultime. Un’ipotetica lettura del pensiero postmoderno, che lo tradisce profondamente, è considerarlo un tentativo non tanto di abbandono della Verità (genitivo tanto oggettivo quanto soggettivo), bensì di abbandono di questa Verità. Il pensiero postmoderno non sarebbe altro quindi che una freccia scoccata verso il cuore più intimo della cultura occidentale. La Verità come adaequatio rei et intellectus, in tutte le sue possibili declinazioni, tematizzata esplicitamente o lasciata come appoggio implicito, è infatti un denominatore comune di gran parte del pensiero occidentale, se non di tutto. La concezione della Verità non ha rilevanza esclusivamente in ambito epistemologico e gnoseologico, ma anzi porta con sé profonde implicazioni ontologiche, e perciò etiche ed estetiche. Verum, Bonum e Pulchrum sono aspetti, caratteristiche, trascendentali dell’Esse.

 

Giorgio de Chirico, "Il grande metafisico", 1917
Giorgio de Chirico, "Il grande metafisico", 1917

 

Va compreso, dunque, che una qualsiasi caratterizzazione della Verità va ad influenzare l’etica e l’estetica, e deve necessariamente inscriversi in una più generale comprensione dell’Essere. La verità, fin qui presentata come corrispondenza fra la cosa è l’intelletto, è quindi l’esplicazione gnoseologica di una determinata posizione ontologica, la quale, nella fattispecie, considera l’Essere come l’Ente, ovvero come ciò che è, ciò che c’è. Anche quando concepito come trascendente, l’Essere è l’Ente supremo, l’Essere c’è, in una dimensione altra rispetto a quella umana, ma egualmente è uno, unico, per sé sussistente, stabile, monolitico, indipendente, assoluto. E così la Verità ricalca queste caratteristiche: è, c’è. È una ed unica, comprensione totale della realtà, oggettiva, indipendente tanto dal soggetto, quanto dall’oggetto, raggiungibile nella loro relazione, ma da essa assoluta. E anche quando concepita come irraggiungibile, è una, c’è, è solo troppo per la fatua intellezione umana. Ed è chiaro quindi che da queste posizioni ontologiche non può che sorgere un’etica dell’egoismo, del Sé. La relazione è solo il più flebile degli accidenti; ciò che è di per sé e per sé è la dimensione prima e primigenia. L’Altro è altro perché è un Sé e di fatto accessorio al Sé perfetto. 

 

Si può, ora, fondatamente affermare che l’abbandono di questa verità significa un totale e perturbante cambiamento ontologico, che inevitabilmente va a perpetuarsi in ambito etico (anche estetico, ma in questo scritto questo aspetto lo lasciamo da parte). Si stabiliscono così legami complessi: per concepire diversamente la Verità è necessario concepire diversamente l’Essere, e così una rivoluzione ontologica porta con sé una rivoluzione nella comprensione della Verità, e ancora il Buono cambia con Verità ed Essere, ed un cambiamento del Buono non può che comportare una trasformazione della Verità e dell’Essere. 

 

La sfida postmoderna, caratterizzata fino ad ora come l’abbandono della Verità, è perciò stesso un estremo e radicale tentativo di rivoluzione ontologica, e di conseguenza, oserei dire, totale. È in questo che il pensiero postmoderno ha (per ora) fallito, ed è questo che la realtà ora chiede, ci chiede: un domandare, un domandar-ci, totale, profondo, radicale; totalizzante.

 

Al di là del pensiero postmoderno, in esso, attraverso esso e oltre ad esso, si erge, terrificante e magnifica, una tra le più grandi sfide per l'umanità.

 

9 novembre 2020

 









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