Esistono verità eterne?

 

La nozione di verità eterna sembra ormai squalificata nel campo delle attività conoscitive. Come può conciliarsi infatti l'idea di una verità immutabile con l'incessante mutare delle opinioni e delle mode? Mostreremo come questa contraddizione sia in realtà solo apparente.

 

di Alessandro Tosolini

 

 

La questione delle cosiddette verità eterne percorre l'intera storia della filosofia. Ad esempio, in Descartes, le verità eterne vengono identificate con le verità matematiche, le cosiddette qualità primarie degli oggetti (quelle identificabili matematicamente e geometricamente, come forma, lunghezza, grandezza, ecc.). Queste, per essere eterne, devono per forza essere stabilite da Dio, in quanto solo lui può fondare le incerte conoscenze del Cogito.

 

« Per quanto riguarda le verità eterne, ripeto che sono vere e possibili soltanto perché Dio le conosce come vere e possibili, e non, al contrario, che sono conosciute come vere da Dio quasi fossero vere indipendentemente da lui. » (Descartes a Mersenne Amsterdam, 6 maggio 1630)

 

Descartes cerca qui di dare legittimità al nuovo ideale meccanico e matematico della scienza attraverso gli strumenti della vecchia metafisica e teologia, in modo tale da non farne emergere la portata destabilizzante. Un'operazione affine anche a quella di Leibniz:

 

« L’Intelletto di Dio, infatti, è la regione delle verità eterne, ovvero delle idee da cui tali verità dipendono, e senza di esso non ci sarebbe nulla di reale nelle possibilità, e non soltanto non ci sarebbe nulla di esistente, ma neppure nulla di possibile. » (Leibniz, Monadologia)

 

Sia Leibniz che Descartes, seppur in modo diversi, riprendono un'idea di certo non nuova in metafisica. Secondo questa, un fondamento di assolutamente stabile ed eterno a qualcosa può esser trovato solo in un Essere assolutamente necessario superiore al pensiero. Un fondamento siffatto è stato, non senza ragione, criticato da Kant, nel suo famoso argomento contro la prova ontologica.

 

Fu Hegel poi a criticare questo argomento. Le ragioni della sua difesa della prova ontologica non sono da ricercarsi in un'arbitrarietà o arretratezza del filosofo jenese, ma nelle insufficienze della stessa argomentazione kantiana. Questi sosteneva infatti che l'esistenza non è un predicato reale e che il reale non contiene che il possibile. Ad esempio per Kant, dice Hegel, i cento talleri non sono qualcosa di per sé ma qualcosa di mutevole e transitorio, separato dal concetto dei cento talleri. Prosegue poi Hegel:

 

« Ora, se è ad ogni modo esatto che il concetto è diverso dall'essere, Dio è però ancora più diverso dai cento talleri e dalle cose finite. È la definizione delle cose finite, che in esse concetto ed essere sian diversi, che concetto e realtà, anima e corpo, sian separabili, e che perciò coteste cose siano transitorie e mortali. L'astratta definizione di Dio, all'incontro, sta appunto in questo, che il suo concetto e il suo essere sono inseparabili e inseparati. » (Hegel, Scienza della Logica)

 

Tralasciando la questione eminentemente teologica, qui la disputa non riguarda tanto la credenza in Dio (sia Kant che Hegel erano credenti) ma una questione eminentemente ontologica. Ovvero, il fatto che non si possano applicare categorie della finitezza per giudicare qualcosa di infinito. In tal modo il reale diventerebbe solo qualcosa di contingente, una sorta di flusso mutevole che si trova davanti ad un soggetto impotente.

 

L'attualità della critica hegeliana, fatto salvo il suo argomento propriamente teologico, sta proprio nell'aver colto questo problema. Se ci sbarazziamo di Dio o, nel nostro caso, se ci sbarazziamo di Dio in quel determinato modo, con esso viene meno anche la verità che la vecchia metafisica fondava su di esso. E quindi, oltre a Dio, perdiamo anche ogni fondamento del reale.

 

La problematica delle verità eterne fu avvertita anche da Friedrich Engels nella sua famosa polemica con Eugen Dühring, un filosofo positivista. Engels polemizza contro la ricerca di Dühring di "verità definitive e di ultima istanza". Infatti queste, per Engels, nel progresso effettivo del conoscere e della scienza, sono estremamente minoritarie o riguardano comunque fatti molto banali (2+2=4, Parigi è in Francia, tutti gli uomini devono morire ecc.).

 

Ciò vale ancora di più per la scienza storica dove la conoscenza è «essenzialmente relativa perché essa si limita a penetrare il nesso e la successione di certe forme di società e di Stato che vigono solo per un dato tempo e per dati popoli e che per loro natura sono transuenti». (Engels, Antidühring) Anche qui le verità eterne non saranno che poche, come ad esempio che gli uomini non possono vivere senza lavorare.

 

Engels comprende che fondarsi eccesivamente su verità eterne non porterebbe ad altro che ad eternizzare concezioni o idee che in realtà sono contingenti e legate ad una determinata situazione. Così il Dio come fondamento assoluto di Leibniz, Descartes ed Hegel appare a noi solo una derivazione di idee della società dell'epoca, più che una solida ed eterna verità assoluta. Insomma, ricercando solamente verità eterne e non lo sviluppo concreto del reale, che comporta di per sé verità molto più provvisorie, si finisce per trovare conforto in banalità ed ovvie tautologie.

 

Eppure il punto che Engels non coglie, anche perché la sua intenzione è più che altro quella di dimostrare la natura dinamica della verità in confronto alla rigida metafisica di Dühring, è che le verità eterne hanno comunque una loro rilevanza. Ad esempio, dietro la tautologia che gli uomini devono morire, si nasconde la problematica antropologica della mortalità. Ma anche la stessa dialettica, che Engels applica in questo testo, pretende di fornire una verità "definitiva e di ultima istanza" sulla realtà, vista nel suo movimento.

 

La problematica ci diventa più chiara se spostiamo la nostra attenzione da enunciati tautologici o generici come "Parigi è in Francia" a "La Terra è esistita miliardi di anni prima dell'uomo." Entrambi questi enunciati riguardano verità "definitive e di ultima istanza", ma chiaramente il secondo ha anche una valenza all'interno della ricerca scientifica. E non è certo una valenza di secondo piano.

 

 

Il secondo è un tipo di enunciato che Quentin Meillassoux definisce "ancestrale" ovvero che indica «ogni realtà anteriore all'apparizione della specie umana, ed anche anteriore ad ogni forma di vita sulla Terra». (Quentin Meillassoux, Dopo la finitudine. Saggio sulla necessità della contingenza) Per Maillassoux un enunciato di questo tipo è una sorta di assoluto, che richiede appunto di essere pensato e giustificato come altro del pensiero.

 

 

Un enunciato simile dunque, per quanto sia un'ipotesi migliorabile, appartiene sicuramente al rango delle cosiddette verità eterne. Pertanto anche queste svolgono una certa funzione all'interno della scienza, per quanto, per la maggior parte dei casi, essa non operi che su verità relative.

 

La questione ci diviene più chiara ancora se spostiamo la nostra attenzione alla questione della cosiddetta "natura umana". In questo articolo avevamo cercato di sviscerare le problematiche e le aporie che il concetto di natura si porta dietro. Qui affermavamo che la scienza «ha sicuramente una base oggettiva, che si può cogliere attraverso l'applicazione pratica delle scienze alla realtà, ma varia col mutare della storia e del tempo e quindi delle circostanze pratiche che la rendono possibile».

 

Questa variazione è necessaria perché si possa parlare di reale progresso, non solo nella scienza, ma in qualsiasi attività conoscitiva. Allo stesso tempo però non si può non riconoscere una certa oggettività a ciò che viene conosciuto, altrimenti non si potrebbe parlare di reale conoscenza.

 

E ciò valeva anche per la natura, che è conosciuta dall'uomo attraverso la scienza. Cerchiamo però di delineare meglio quella "base oggettiva" di cui parlavamo. Ora, è vero che nella maggior parte dei casi ci troviamo di fronte a conoscenze incerte, perfettibili, situate in determinate realtà concrete. Prenderle per così come sono e farne delle verità "eterne e di ultima istanza" sarebbe una generalizzazione inaccettabile. E tuttavia, se osserviamo il passato, pur nella distanza che ci separa da quel tempo, riusciamo a rispecchiarci negli uomini di quel tempo, troviamo nei loro problemi un'affinità coi nostri.

 

È quanto afferma Sebastiano Timpanaro quando dice che «l'uomo come essere biologico, dotato di una certa (non illimitata) adattabilità all'ambiente esterno, dotato di certi impulsi all'attività e al raggiungimento della felicità, soggetto a vecchiezza e a morte, non è una costruzione astratta e non è nemmeno un nostro antenato preistorico, una specie di pitecantropo ormai superato dall'uomo storico-sociale, ma esiste tuttora in ciascuno di noi e con tutta probabilità esisterà anche in futuro». (Sebastiano Timpanaro, Sul materialismo)

 

La polemica di Timpanaro è qui rivolta a certi eccessivi sociologismi di stampo marxista, i quali concepiscono rigidamente il rapporto tra struttura e sovrastruttura e ritengono che tutti i problemi svaniranno con la soluzione dei problemi sociali e l'abbattimento del capitalismo. Timpanaro propone in antitesi un materialismo desunto dagli scritti di Giacomo Leopardi, che sappia farsi carico anche dei problemi antropologici dell'uomo.

 

A prescindere dall'accettazione o meno della proposta di Timpanaro, che ha tratti spesso pessimistici e leopardiani, il problema qui sollevato non è di secondaria importanza. Timpanaro rimarca l'importanza di fattori che agiscono indipendentemente dal soggetto, in epoche storiche completamente diverse. Anche questi potremmo considerarli come "verità eterne" che, a prescindere dal loro modo concreto di manifestarsi, costituiscono qualcosa di unitario.

 

Insomma, se è giusto criticare gli eccessi che si porta dietro una concezione di verità eterna come qualcosa di etereo e trascendente il mondo degli uomini, un rozzo platonismo, altrettanto errato è dissolverla in nome di un altrettanto rozzo eraclitismo per cui tutto scorre e non c'è mai niente di permanente.

 

Riteniamo che la proposta teorica di Alain Badiou fornisca una soluzione a questo tipo di antinomie. Il problema del rapporto fra universalità ed eternità della verità e la sua concretezza viene magistralmente affrontato in Logiche dei mondi. 2: L' essere e l'evento. Di contro al relativismo, che propone l'idea che ci sono solo "corpi e linguaggi" e mai verità, ma anche contro una concezione del Vero come Legge Universale a cui sottomettersi, egli sostiene una concezione peculiare e dialettica della verità.

 

Infatti il problema di Badiou è proprio conciliare l'eternità del Vero con il riconoscimento della sua molteplicità: «Le verità [...] non si limitano a essere: esse appaiono». (Alain Badiou, Logiche dei mondi. 2: L' essere e l'evento) Quindi una qualsiasi verità linguistica ha il suo modo di apparire, cioè di trovarsi in un determinato contesto. Ad esempio, i cavalli dell'atelier-Chauvet disegnati da uomini preistorici e quelli dipinti da Picasso rappresentano entrambi la medesima Idea, la medesima Verità (ovvero dei cavalli), ma separati da migliaia di anni di distanza hanno chiaramente intenti, manifestazioni ed espressioni diversi. Per usare una metafora platonica dello stesso Badiou:

 

« Da tutto ciò consegue che dipingere un animale su una parete di una grotta è esattamente - come nel mito platonico, ma al rovescio - evadere dalla grotta per risalire verso la luce dell'Idea. » (Ivi)

 

 

Pertanto, la verità ha una duplicità dialettica. Essa è sia singolare, inscritta in un mondo effettivo, che universale e invariante. Ha sicuramente bisogno di un "corpo" per apparire, deve essere detta in un determinato linguaggio, ma questi non sono che momenti di un medesimo processo unitario. Pur partendo da un linguaggio particolare, essa è trans-linguistica, come dimostra il fatto che possiamo prendere spunto e identificarci anche in fatti ed avvenimenti di migliaia di anni fa.

 

Questa è quella che Badiou definisce "dialettica materialistica", in quanto riconosce, insieme a quello che viene definito "materialismo democratico" (termine che sembra indicare il postmoderno), che non ci sono che corpi e linguaggi, se non che ci sono anche delle verità che con questi corpi e linguaggi si esprimono.

 

« Io affermo, così, che tutte le verità senza eccezione sono "stabilite" da un soggetto, forma di un corpo la cui efficacia crea punto per punto. Ma, come Descartes, formulo che la loro creazione non costituisce che l'apparire della loro eternità. » (Ivi)

 

Da qui la natura duplice e dialettica della verità, e quindi la necessità di tenere presenti entrambi i lati di questa dialettica, di modo che la conoscenza e il sapere possano essere fondati senza per questo rinchiudersi in sterili tautologie senza rapporto col mondo reale e la sua dinamicità.

 

17 luglio 2020

 








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