È vietato criticare la cultura altrui?

 

Dopo secoli di guerre fra civiltà differenti, sembra un mantra condiviso, almeno a parole, l’idea che vada rispettata la cultura altrui. Che sia necessario accettare l’esistenza della diversità per poter vivere pacificamente. Meglio co-esistere che annientarsi a vicenda. Accettare la cultura altrui, tuttavia, cosa significa di preciso? Astenersi dalla possibilità di muovere qualsiasi critica nei confronti di ciò che è da me diverso?

 

 

« I peggio conflitti, nei quali ci può addirittura sembrare impossibile una riconciliazione, sono di solito il risultato di contraddizioni culturali che hanno ben poco a che fare con la lotta per la mera sopravvivenza. »

 

Così afferma Zhao Tingyang nel suo libro riguardante il concetto di Tianxia (天下体系, versione inglese All under heaven: the Tianxia system for a possible world order). A sottolineare che è diffuso, nella storia globale, il presentarsi di conflitti basati su differenze culturali, o, più precisamente, sulla presunta superiorità di una civiltà rispetto all’altra. Sul diritto di un popolo a sottomettere e dominare comunità ritenute inferiori, diffondendo così il proprio sistema culturale di credenze e valori, ritenuto vero a differenza delle eresie delle civiltà altrui.

 

Potremmo riflettere su questa interpretazione dei conflitti e capire, effettivamente, quanto sia proprio la presunta superiorità ciò che spinga una civiltà a combattere e sottomettere altri popoli. Concentriamoci, per il momento, su come l’autore prosegue, sottolineando che la diversità culturale non è sinonimo di conflitto, che scoprire popoli con visioni del mondo differenti non porta, automaticamente e naturalmente, a vedere queste “esteriorità” come sinonimo di nemici. Come mai, si chiede allora Zhao, «le relazioni interculturali sono diventate così tanto caratterizzate dall’opposizione e l’inimicizia?»

La risposta richiede due presupposti. Il primo, cosa intende l’autore con cultura:

 

« Ogni tipo di cultura rappresenta un mondo spirituale, e un tale mondo spirituale può fornire una concettualità che spieghi le varie cose ed eventi che avvengono all’interno di quella cultura. »

 

La cultura è il nostro pensiero, il modo in cui comprendiamo e interpretiamo il mondo. E qui arriva il secondo presupposto, tanto fondamentale quanto, come vedremo, problematico:

 

« Diversi mondi spirituali danno vita a concettualità differenti per spiegare il mondo. E queste differenze non sono una mera questione di giusto o sbagliato, ma riflettono differenti prospettive. »

 

Ogni cultura è una realtà a se stante. Non si tratta di aderire a una civiltà in quanto la sua visione del mondo è giusta, o ripudiarne un’altra perché contraddittoria: ogni popolo ha semplicemente il suo modo di interpretare e vivere la realtà. E in tal senso, non c’è necessità che l’incontrarsi di culture porti allo scontro, in quanto ogni cultura può, «nell’apprezzare la sua propria bellezza», essere soddisfatta di sé, senza al contempo aver necessità di percepire la cultura altrui come pericolosa.

 

Affinché una cultura percepisca le visioni del mondo altrui come pericolose, bisogna che tale cultura presenti due caratteristiche:

 

« Dogmatismo – che è la credenza che la propria cultura, come mondo spirituale, sia l’unica vera, e tutti gli altri mondi spirituali siano falsi. Questa è una “fallacia epistemologica” in quanto erroneamente applica il concetto di verità empirica al mondo dei valori. Il diritto a un’ortodossia esclusiva: che significa pensare che la propria cultura come mondo spirituale sia l’unica corretta, e dunque si abbia necessariamente il diritto di effettuare giudizi assoluti di valore riguardo le altre culture; e inoltre esercitare il diritto di usurpare l’autorità interpretativa di altri mondi spirituali. Si presenta qui una missione a convertire coloro che aderiscono ad altri mondi spirituali al proprio. »

 

 

Insomma, se una cultura si crede dogmatica, se pensa di avere la “verità in tasca”, finisce per negare validità alle altre culture, ritenute fallaci. Di conseguenza, finisce per reputarsi la forza messianica che ha diritto a diffondere il verbo della verità in tutto il globo. Pronta a convertire gli infedeli all’unica verità. Nonostante, dica l’autore, utilizzare il concetto di verità al mondo dei valori è senza senso.

 

Zhao fa così l’esempio del cristianesimo, il quale ha plasmato secoli della storia occidentale con la pretesa che la propria cultura fosse l’unica vera, mentre le culture altre erano eretiche e dunque da estirpare, convertendo i loro adepti all’unica vera religione. L’obiettivo del cristianesimo era unificare il mondo sotto un’unica spiritualità, ma l’unico risultato è stato un continuo succedersi di guerre, inevitabili quando si vuole negare la libertà di una popolazione ad autodeterminarsi e credere nei propri valori.

 

Logica di dominio del cristianesimo, o in generale delle religioni monoteistiche, che si è tramandata alla politica occidentale, la quale ha anch’essa per secoli puntato a conquistare il mondo e diffondere il proprio “verbo”. Tuttavia:

 

« L’occidente ha conquistato il mondo non per la superiorità delle sue idee o valori o religione (alla quale pochi membri di altre civiltà sono stati convertiti), ma piuttosto per la sua superiorità nel mettere in atto la violenza organizzata. »

 

Se c’è un fattore grazie al quale l’Occidente ha dominato il mondo, o ha provato a farlo, è stato la superiorità di forza militare. Questo perché, non potendo conquistare le menti altrui, l’unico modo era la coercizione. Ma la violenza funziona per poco: gli oppressi si riorganizzano, trovano modi per liberarsi dal giogo del padrone e, col tempo, restituiscono i danni subiti. Ed è così che si ricade in continui conflitti che perdurano tutt’oggi, con una situazione d’instabilità consistente nel volere unificare ciò che unificabile non è – l’alterità fra culture –, nel volere eliminare la ricchezza della pluralità.

 

« Se un ampio spazio manca di diversità e pluralità, allora non è davvero un mondo, ma, al massimo, giusto una “cosa”. »

 

Bisogna puntare a creare un sistema che armonizzi la pluralità, che crei un ordine di rispetto e coesistenza di culture differenti, che sappiano accettare la loro diversità e cooperare. Non negare la diversità per forzare un’unità che non è vera.

 

Fin qui, sembra tutto valido. Chi non direbbe che è giusto rispettare la diversità e favorire la cooperazione al posto del continuo conflitto e delle guerre che perdurano oggigiorno, a causa di stati e civiltà che si reputano superiori?

 

C’è un “ma” parecchio ingombrante fra questi bei propositi. Si tratta della struttura concettuale e argomentativa che regge quest’ideale di pace: alquanto povera e contraddittoria.

 

 

Come dice l’autore, non si può utilizzare il concetto di verità al mondo della cultura. Il mondo spirituale, dei valori, è tanto fondamentale quanto vacuo. Fondamentale perché sono proprio i valori, la nostra spiritualità ciò che ci fa dare un senso al mondo, sulla cui base orientiamo il nostro agire, i nostri propositi e desideri. Vacuo perché, a quanto pare, questi valori sono infondati: non li scelgo perché li reputo veri, ma semplicemente perché in una cultura ci sono nato, o perché, per effimeri motivi, ne preferisco alcuni ad altri. Già questo potrebbe far storcere il naso: sono proprio le cose più importanti della nostra vita – quelle che danno senso a tutto il resto – ciò che è privo di fondamento veritativo? Non sottoponibile alla critica, all’argomentazione, al ragionamento? Dunque, anche a possibili cambiamenti e miglioramenti a fronte di critiche valide?

 

 

Ma, pure se, per assurdo, la cantilena della validità di ogni cultura fosse valida, non si spiegherebbe perché il mondo si ostini ad affermare che era sbagliato l’olocausto degli ebrei, il genocidio degli armeni, lo sterminio degli indiani in America, l’attuale genocidio in Palestina. Se ogni cultura è parimenti valida – perché, appunto, nessuna cultura può dirsi vera –, su che base ci arroghiamo il diritto di affermare che non vanno bene culture violente, che vogliono soggiogare altri popoli e vivere sfruttando comunità diverse dalla loro? Su che base affermiamo che il governo israeliano sta sbagliando quando massacra migliaia di civili palestinesi, se non possiamo criticare i valori alla base del suo mondo spirituale?

 

“Ma in questo caso si stanno negando i diritti universali” dicono alcuni: ma questi famosi diritti universali su che base sarebbero veri? Se non c’è verità nel mondo della cultura e dei valori, perché bisognerebbe riconoscere come validi, e giusti per ogni civiltà, dei principi che richiedono la tutela di alcuni diritti a ogni popolo? Di nuovo, se sul mondo dei valori non può darsi verità, anche i diritti universali sono solo parole vuote: li accetti chi ha voglia di farlo, altrimenti li si neghi pure.

 

“Ma vanno bene tutte le culture, basta non danneggino le culture altrui”: di nuovo, su che base tale ragionamento? Il mondo spirituale è il modo in cui interpretiamo il mondo, gli diamo senso. Se una nazione interpreta il mondo come lotta per la sopravvivenza, dove il forte divora il debole, in che modo dire che si sbaglia, se ogni cultura si equivale?

 

Forse, però, sta proprio in queste rivolte alle azioni di altri popoli, in questa non accettazione della violenza e del predominio di una civiltà, la dimostrazione che, in fondo, non crediamo davvero nell’impossibilità del confronto fra culture. Le altre culture ci vanno bene, fintantoché non toccano le corde più profonde del nostro sentire, ciò in cui crediamo di più – forse perché sentiamo che si tratta di qualcosa di fondato, di valido, di vero. Non riusciamo a sopportare che migliaia di civili siano massacrati per gli interessi di un altro popolo, perché nella violenza verso vite innocenti vediamo qualcosa di inaccettabile, che non ha fondamento per essere attuato.

 

Sembra allora di cadere in un’impasse. Da un lato, varie civiltà hanno compiuto violenza, con la pretesa loro superiorità rispetto ad altri popoli – dicevano di essere nel vero e, in nome della verità, hanno compiuto violenza. Dall’altro, se non c’è una verità a cui aggrapparsi, in che modo criticare la violenza altrui, se tutto si riduce a una scelta arbitraria?

 

Una questione apparentemente senza vie d’uscita, ma che va affrontata. Altrimenti continueremo a sguazzare in un mare d’arbitrio e violenza.

 

 

Un accenno alla soluzione è che, forse, le altre culture possono essere criticate. Che, magari, il concetto di verità tocca anche le nostre credenze più profonde. Ma che, tuttavia, ciò non implichi violenza e sottomissione delle civiltà altrui. Ma tutto ciò sarà l’occasione per un prossimo articolo.

 

31 maggio 2024

 








  • Canale Telegram: t.me/gazzettafilosofica