Una fotografia sfuocata

 

Una fotografia scattata da un artista di fama internazionale è sfuocata, sì, proprio sfuocata! «Come sarebbe, dovrà esserci un errore...» dice un uomo incredulo al Michael Hoppen Gallery di Londra, dove sono esposte le opere di William Klein. Il volto di una donna è raffigurato in movimento, senza permettere che i suoi contorni vengano messi a fuoco dallo spettatore. Che non si lasci definire come l'essenza dell'essere umano? Come quella fotografia di Klein, essa resta indefinibile, apparendo e nascondendosi allo stesso tempo. Non credo sia tanto un azzardo pronunciarsi in questo modo: vivere corrisponderebbe al tentativo mai portato a termine di rispondere alla domanda sul chi siamo.

 

 

Tacitamente da bambina mi chiedevo se fosse giusto o meno mangiare gli animali. Ovvero se avessi potuto dare per scontata l’accessibilità ai loro corpi sventrati e processati e poi venduti in vassoi o lattine nei quali, per fortuna o per sfortuna, non avevano più nulla della loro forma originaria, tanto da sembrare tutt’altra cosa, come cibo raccolto o coltivato in qualche orticello speciale. Ed è da questo interrogativo misto ad una sgradevole sensazione di senso di colpa (non inculcata da nessuno perché tutti i miei parenti e amici e maestre erano dichiaratamente consumatori di carne) che ho iniziato a domandarmi che cosa fa di noi degli esseri umani. Che cosa ci distinguerebbe dagli altri esseri viventi quali le piante e gli animali? Rispondere a tale domanda, ponendoci al fianco di un fiore di cera sembrerebbe semplice: subito guarderemmo al movimento, al linguaggio, al pensiero e, in un’unica parola, all’intelligenza, anche se studi come quelli divulgati da Stefano Mancuso hanno fatto tremare persino le zolle di questa certezza. Ma la difficoltà cresce una volta che ci si paragona ad un cavallo o ad un delfino. Anch’essi sono esseri dotati di un’intelligenza inattesa che potremmo definire (sempre se davvero possiamo) come l’insieme delle capacità cognitive in grado di dare risposte flessibili alle modificazioni dell’ambiente. Inoltre, dopo una serie di esperimenti ed osservazioni rigorose, ci si è accorti che essi sono anche capaci d’emozioni. Come non pensare all’esempio citato da Martha Nussbaum in Emozioni politiche a proposito di quella famiglia d’elefanti i cui membri più adulti scelgono di morire, non allontanandosi dai binari nonostante avessero avvistato un treno, perché uno dei componenti, il più piccolo, era rimasto incastrato?

 

Perciò, a fronte di quello che ho appena scritto e in parte distanziandomene, vorrei tentare di riattraversare uno dei più problematici interrogativi che noi, esseri umani, abbiamo percepito cogente sin dalle nostre origini: chi è l’essere umano? Detto altrimenti, qual è la sua essenza, ossia ciò che è in grado di renderlo, appunto, un essere umano? Per quanto trita possa apparire tale domanda, in realtà, dopo un’attenta riflessione ci si accorge che non è affatto semplice individuare quelle caratteristiche proprie della natura umana che, per forza di cose, sono presenti in ogni singolo individuo. Che cosa ci rende umani se non l’intelligenza? Diremmo noi con una certa altezzosa convinzione, felici di poterci identificare come la specie intelligente o, dopo aver guardato agli animali in un’ottica poco diversa da quella di consumatori incalliti, la più intelligente. Ma è davvero così? Non si può certo dubitare che l’essere umano – e questa affermazione comporta una prima astrazione – sia intelligente se per intelligenza s’intende una serie di facoltà cognitive ed emotive come la capacità d’intendere i significati, d’interpretarli, di farsi capire, di apprendimento, di risoluzione di problemi, di ragionamento logico, ma anche di conoscenza emotiva, di creatività… Insomma, l’essere umano è nello specifico un essere sociale dotato di un’intelligenza in grado di dispiegarsi ed interfacciarsi in diversi ambiti e con situazioni diverse, tanto che la si può considerare versatile e straordinariamente flessibile.

 

E se si guardasse alla medesima etimologia della parola ‘intelligenza’, si vedrebbero ritornare a grandi linee tali definizioni. La parola intelligenza deriva dal sostantivo latino intelligentĭa, a sua volta proveniente dal verbo intelligĕre, "capire". Il vocabolo intelligĕre è formato dal verbo legĕre, "cogliere, raccogliere, leggere" con la preposizione intus, "dentro". In sintesi, tale termine significherebbe leggere dentro, che detto meglio si riferirebbe ad una lettura svolta in profondità, oltre agli strati superficiali dell’evidenza immediata. Ma davvero basta questa definizione, il fatto, cioè, che l’essenza dell’essere umano – il che vale a dire di ogni essere umano – corrisponda all’intelligenza? In questo modo non stiamo escludendo qualcuno? Immaginando di raffigurare una simile definizione in un diagramma di Eulero-Venn, un ovale denominato ‘Essere umano’ inteso come essere dotato d’intelligenza (o intelligenze), rimarrebbe inevitabilmente escluso chi intelligente non è o non può esserlo. Il mio pensiero va soprattutto a quegli individui affetti da patologie cerebrali e tali da render loro inaccessibili quelle attività mentali che, abbiamo detto, sono tutte sinonimi d'intelligenza umana. Che cosa, dunque, fa di questi individui degli esseri umani? 

 

 

Ora, immaginiamo anche di conoscere Umberto, un ragazzo di sedici anni costretto a restare immobile su una sedia a rotelle, incapace di parlare e di dar segno di aver compreso quanto gli vien detto. Egli è completamente dipendente dai suoi genitori che, quotidianamente, se ne prendono cura perché sanno di avere di fronte a loro un essere umano, un figlio da amare. I medici hanno definito il suo stato ‘’vegetativo’’, una parola niente affatto neutra che indica una grave compromissione della parte più grande dell’encefalo, lesione che rende impossibile la funzione mentale. La sua mamma e il suo papà, però, continuano a parlargli, a ripetergli che lo amano e di sera, sotto la serena benevolenza della luna, gli narrano storie prese dai libri di Dickens e di Mark Twain. Che si saranno illusi che il loro ragazzo possa capirli? No, non mi pare sia questo. C’è qualcosa che li convince a farlo, a prendersi cura di quell’anima piegata dalla malattia.

 

Ecco, di anima si è anche parlato per rintracciare una volta per tutte la natura degli esseri umani. Un respiro o un soffio che l’uomo possiede al di là della muraglia di carne ed ossa. A volte rimane nascosta, altre, invece, si rivela nella sua musica o semplicemente nel suo sguardo. L’anima è stata definita da molteplici tradizioni filosofiche, spirituali e religiose come la parte vitale di ogni essere umano. Man mano che, però, ci avviciniamo alla modernità, tale parola sembra abbandonare il suo significato etimologico per identificarsi con la ‘mente’ o con la ‘coscienza’. E, con un grande peso sullo stomaco, ancora potremmo domandarci se davvero ciascun essere umano sia sempre portatore di una coscienza, e quindi anche coloro che sono stati definiti, in maniera offensiva, dei vegetali. Inoltre, non è chiaro che cosa significhi essere coscienti visti gli innumerevoli significati che questo termine porta con sé, da quello più legato allo psicologismo che alla sua carica morale.

 

Penso che giunti a questo punto, si siano toccati (in verità giusto sfiorati) quei punti fondamentali che riguarderebbero la natura dell’essere umano, così come comunemente essa è intesa. Si è per l’appunto parlato di intelligenza logico-matematica come di emozioni e di sentimenti, di creatività e di pensiero. Ma anche di capacità morale e di vissuto intenzionale - espressione che Husserl utilizza nelle sue Ricerche logiche per giungere ad una definizione corretta, dunque ''depurata'', del termine coscienza. L’essere umano pare essere tutto questo ad uno sguardo più o meno inclusivo. Sono convinta, però, che si possa fare di meglio per ampliare il nostro diagramma di Eulero-Venn, accogliendo tutti quei soggetti colpiti da gravi deficit cognitivi e/o emotivi. Si potrebbe dire, infatti, che l’essere umano sia potenzialmente capace di tutto questo. Non tutti, infatti, pur avendone le facoltà sono abituati a pensare o, anche, a comunicare. Si capisce quanto sia complicato individuare, ovvero fermare come con uno scatto fotografico, l’essenza di un essere in costante mutamento. Un essere che pare sfuggire a ogni definizione stigmatizzante, dal momento che la vita umana è «un faciendum e non un factum», come l’ha definita Ortega y Gasset in un celebre saggio intitolato La Storia come sistema. L’utilizzo del gerundio indica il movimento continuo del divenire, il quale non permette ogni forma di cristallizzazione. Ortega y Gasset, infatti, sostiene che ogni appello alla natura umana o, in alternativa, allo spirito (o anima) umano sono errati. Parlare di psiche o di corpo, così come di carattere o personalità implicherebbe che essi siano qualcosa di fisso, d’individuabile e d’individuato nel tempo. Dice a questo proposito Tim Ingold in Siamo Linee che: «[…] in verità, dove c’è vita umana non c’è nulla se non il fatto che accade sempre qualcosa». Non siamo, allora, dei meri involucri di qualità, ma degli esseri in divenire tanto che secondo Ingold, forse sarebbe meglio sostituire la parola ‘essere’ con quella di ‘divenire’.

 

Nella nona delle Elegie Duinesi di Rilke, pare essere ovunque - seppure taciuta - la domanda che chiede di noi, dell’essere umano. E assieme la risposta: non una definizione con un solido punto finale, ma un girarci attorno, un leggiadro tentativo di sfiorarla e di sfrangiare i suoi confini. La risposta non è, ma per dirla come Ingold, si fa incessantemente. Continuamente nasce in ogni essere umano che ne diviene portatore, aggiungendo sempre qualcosa di nuovo al mondo. Ogni essere umano eccede di unicità, di significato che porta in sé e sempre consegna come piccoli e fugaci semi di girasole. All’angelo, scrive Rilke, che è l’essere più sensibile, racconteremo le nostre piccole perle di sensibilità che saranno viste da lui con sorpreso interesse, come di solito accade parlando con persone poco o per niente istruite. Gli racconteremo della nostra vulnerabilità, dei nostri dolori e delle nostre trame. Esporremo, una volta per tutte, quei maglioni fatti a mano durante tutto il corso della nostra vita, utilizzando un uncinetto e fili di significati. Intrecciati questi fili è venuto fuori un caldo maglione, simbolo della nostra vulnerabilità, simile o diverso – ma mai identico – a quello degli altri. Di esso si può dire che è il nostro modo di essere, di stare nel mondo che è sempre un esser gettati nella storicità che già era prima della nostra comparsa.

 

«[…]All’angelo canta le lodi del mondo, non l’indicibile con lui

non puoi vantare le meraviglie del sentimento: nell’universo,

dove egli sente con maggiore sensibilità, tu sei un principiante,

mostragli ciò che è semplice, plasmato di generazione in generazione,

ciò che vive come nostro vicino alla mano e allo sguardo.

Digli le cose. Ne sarà sorpreso; come lo fosti tu

davanti al cordaio a Roma, o davanti al vasaio sul Nilo.

Mostragli quanto può essere felice, innocente e nostra, una cosa,

come anche il pianto di dolore prende una forma pura,

serve come una cosa, o muore come cosa -, e beato

sfugge al suono dei violini. E queste cose

che vivono morendo capiscono che tu ne canti le lodi; effimere

affidano la salvezza a noi, i più effimeri di tutti.

Vogliono che noi, nel nostro invisibile cuore, le trasformiamo

- all’infinito - dentro di noi! Chiunque alla fine noi siamo.»

 

23 Ottobre 2024

 








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