In Sull’interpretazione. Saggio su Freud, Paul Ricœur definisce Marx, Nietzsche e Freud «i protagonisti del sospetto, i penetratori degli infingimenti». Pur operando in ambiti di ricerca differenti, i tre pensatori sono accomunati da un uso rigoroso e spregiudicato del metodo genealogico. In che modo ciascuno di loro interpreta l’attitudine demistificatrice? Quali sono le rispettive peculiarità? E fin dove Freud può essere considerato il punto culminante della parabola tracciata dal filosofo francese?
Marx, Nietzsche e Freud sembrano tre pensatori molto distanti. Volendo apporre le solite etichette, verrebbe da dire che l’economicismo di Marx, il biologismo di Nietzsche e il pansessualismo di Freud non abbiano nulla in comune.
Eppure, basta poco per far crollare queste certezze. Una filosofia non si riduce al mero contenuto dottrinale. Come ha sostenuto di recente Stéphane Madelrieux ne La philosophie comme attitude, oltre ai principi, un pensiero filosofico è caratterizzato da un metodo e da un’attitudine.
L’autentico cartesiano, ad esempio, non è solo colui che aderisce a determinate tesi, ma anche chi adotta uno specifico metodo di ricerca e se ne appropria in modo originale (attitudine).
Certo, Marx, Freud e Nietzsche non sono tre filosofi appartenenti alla medesima corrente di pensiero. Tuttavia, interpretano il senso più profondo dell’attitudine filosofica: con loro, il metodo coincide con l’attitudine stessa, e la filosofia diventa un’azione rigorosa e sistematica di smascheramento della realtà.
Nel Novecento, è il filosofo francese Paul Ricœur a cogliere tra i primi questo importante aspetto.
In Sull’interpretazione. Saggio su Freud, conia un’espressione destinata a grande fortuna: “maestri del sospetto”. Marx, Nietzsche e Freud sono definiti, infatti, come i tre grandi pensatori del soupçon.
Riportiamo il passo chiave dell’argomentazione di Ricœur:
« In fondo, la Genealogia della morale nel senso di Nietzsche, la teoria delle ideologie nel senso marxiano, la teoria degli ideali e delle illusioni nel senso di Freud, rappresentano altrettante convergenti procedure della demistificazione. Questo forse non è ancora la cosa più forte che hanno in comune; la loro parentela sotterranea procede più lontano; tutti e tre iniziano col sospetto sulle illusioni della coscienza e continuano con l’astuzia della decifrazione, e, infine, anziché essere dei detrattori della «coscienza», mirano a una sua estensione. Ciò che Marx vuole è liberare la praxis mediante la conoscenza della necessità; ma questa liberazione è inseparabile da una «presa di coscienza» che replichi vittoriosamente alle mistificazioni della falsa coscienza.
Ciò che Nietzsche vuole è l’aumento della potenza dell’uomo, la restaurazione della sua forza; ma quel che vuol dire Volontà di potenza deve essere recuperato dalla meditazione delle cifre del «superuomo», dell’«eterno ritorno» e di «Dionisio», senza di che quella potenza sarebbe solo la violenza del di qua.
Ciò che Freud vuole è che l’analizzato, appropriandosi del senso che gli era estraneo, allarghi il proprio campo di coscienza, viva in migliori condizioni e sia infine un po’ più libero e, se possibile, un po’ più felice. Uno dei primi omaggi resi alla psicoanalisi parla di «guarigione a opera della coscienza». L’espressione è esatta. A patto di dire che l’analisi intende sostituire a una coscienza immediata e dissimulante una coscienza mediata e istruita dal principio della realtà. »
Ricœur sottolinea due elementi essenziali: la demistificazione e il «sospetto sulle illusioni della coscienza». I tre filosofi rifiutano l’identificazione tra essere e apparire: ciò che è non coincide con ciò che appare.
Non si cerca tuttavia di attingere a un nucleo noumenico o a una sostanza che spiegherebbe il fenomenico come puro accidente. Si vuole piuttosto indagare il luogo stesso delle illusioni: la coscienza.
La coscienza è sempre in sé doppia, o, meglio, la coscienza è il proprio doppio. Non si può avere coscienza senza un duplice scarto: all’interno del sé (la riflessività) e tra il sé e il reale.
D’altra parte, i maestri del sospetto non sono fenomenologi: per loro, il carattere duplice della coscienza non deriva dalla sua struttura intenzionale. La coscienza è doppia perché è generatrice di illusioni, perché è sempre, insieme, vera e falsa coscienza, perché non può fare a meno di mentire a se stessa.
L’origine della diffrazione illusoria è la vita stessa. In altre parole, la fonte delle illusioni è il fertile terreno da cui nasce ogni riflessione: il sentire.
Con questo non intendo dire che Marx, Nietzsche e Freud siano dei “sensualisti”, almeno non nell’accezione tradizionale del termine. Al massimo, se di “sensualismo” vogliamo parlare, esso va inteso qui come riconoscimento del valore fondativo della dimensione affettiva.
I fenomeni culturali, così come la coscienza stessa, si danno in virtù di pulsioni che da sempre costituiscono il razionale come altro da sé, come abitato da un non detto. Il compito del filosofo “genealogista” è riportare a galla tale sommerso.
Tra dimensione affettiva e dimensione razionale non vi è uno scarto, quanto un intreccio che si manifesta come gioco di maschere.
La coscienza è la vita che si fa riflessione. In questo processo, si sdoppia, ma è impossibilitata a recidere i ponti con la Lebenswelt. Ogni tentativo di farlo, infatti, è solo un’illusione che passa attraverso la mistificazione.
Nessun fenomeno culturale può allora essere inquadrato come pura incarnazione del logos o dello spirito. Sostenere posizioni simili significa assecondare la tipica tendenza della coscienza a mentire, a fingere che la propria doppiezza sia il segno inequivocabile dell’Aufhebung dello Spirito sulla Natura.
Il superare, il togliere e il conservare non è, invece, affatto risolutivo. Per i maestri del sospetto, lo spirituale resta esposto alle lacerazioni e alle contraddizioni insanabili del sensibile, alla regressione, a progressi mai del tutto acquisiti.
Arriviamo ora al punto più importante. Per dimostrare quello che abbiamo appena osservato, Marx, Nietzsche e Freud ricorrono a un metodo che ciascuno interpreta con grande originalità: il metodo genealogico.
Vediamo concretamente come funziona.
Marx
Cominciamo da un noto passo di Marx, in cui si demistifica la religione.
« La miseria religiosa è a un tempo l’espressione della miseria reale e la protesta contro di essa. La religione è il singhiozzo della creatura oppressa, è il sentimento di un mondo senza cuore, come è lo spirito di una vita priva di spirito. Essa è l’oppio del popolo. La soppressione della religione in quanto felicità illusoria del popolo è il presupposto della sua vera felicità. La necessità di rinunciare alle illusioni sulla propria condizione è la necessità di rinunciare a una condizione che ha bisogno di illusioni. La critica della religione è quindi, in germe, la critica della valle di lacrime, in cui la religione è l’aureola » (K. Marx, Introduzione alla Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico).
Per Marx la religione è un’illusione che contiene una profonda verità a cui non si può accedere in maniera immediata. Non bisogna limitarsi alla sentenza “la religione è l’oppio dei popoli” e considerare questo fenomeno culturale come un semplice anestetico per tenere a bada gli oppressi. La tipica lettura manualistica non coglie il senso profondo del ragionamento marxiano. Per il filosofo la religione ha la sua radice nel bisogno, nella miseria dell’uomo. Non è la mancanza o la sete di trascendenza ad animare la religione, ma una protesta con l’intero proprio essere nei confronti di una vita alienata, che non riesce a esprimersi, a realizzarsi, a essere felice.
La religione incarna in forma “reattiva” questo appello; ecco perché chi esercita il metodo genealogico si propone di ricondurre all’autentica fonte una ribellione che, per il momento, è solo una rivolta “mistificata”.
Compiere tale smascheramento significa – un altro aspetto importante del passo di Ricoeur citato – allargare la coscienza. La coscienza comprende l’illusione che la abita, coglie la verità della menzogna che dice a se stessa. Nel farlo integra il vero nel falso, e questa consapevolezza la trasforma.
La verità incorporata non implica però la pacificazione. Anzi, il dolore diventa più acuto e intenso, perché, non potendo più mentire a se stessa, la coscienza deve cambiare la realtà per porre fine alla propria sofferenza.
I maestri del sospetto offrono un grande insegnamento: più la verità è profonda più è dolorosa, in quanto essa è l’altra faccia di una menzogna che diciamo a noi stessi.
Nietzsche
Passiamo a Nietzsche. Per il filosofo di Basilea l’origine di una cosa e la sua utilità finale sono separate. Un organo o una pratica non nascono per uno scopo, ma acquisiscono un significato e una funzione attraverso successive interpretazioni e processi di dominio (Cfr. F. Nietzsche, Genealogia della morale).
Il “finalismo” è comunque una tendenza tipica della coscienza: l’uomo non può fare a meno di vedere scopi e intenzioni. Ad esempio, la “funzione” di una mela sarebbe quella di nutrirci; quella della mano, di afferrarla; quella della bocca, di mangiarla; quella dello stomaco, di digerirla.
La realtà appare come una “sacra catena”, in cui tutto sembrerebbe predisposto in vista di qualcos’altro. I vari fini si incastrerebbero alla perfezione, come in un puzzle la cui chiave ultima risiederebbe nella mente di Dio.
Il metodo genealogico scardina questo modo di pensare. Nel finalismo entra in gioco la forza dirompente e mistificatrice della narrazione. L’uomo ha bisogno di raccontarsi storie, di dirsi menzogne, perché entrambe lo aiutano a vivere.
La “morale” dello storytelling, tuttavia, non risiede nel racconto in sé, ma negli affetti.
Dietro ogni “fine” si cela la giustificazione di una pulsione: il “fine” è il modo in cui una pulsione si racconta.
Proviamo a chiarire l’approccio di Nietzsche con un esempio. È noto come il filosofo di Basilea dedichi molte pagine delle sue opere allo smascheramento del cristianesimo.
In particolare, la figura del prete è oggetto di una demistificazione condotta “a colpi di martello”. Nella rappresentazione del mondo del prete ascetico
« domina un ressentiment senza eguali, quello di un insaziato istinto e una volontà di potenza che vorrebbe signoreggiare non su qualcosa della vita, ma sulla vita stessa, sulle sue più profonde, più forti, più sotterranee condizioni; qui si consuma un tentativo di impiegare la forza per ostruire le sorgenti della forza; qui lo sguardo si rivolge, astioso e perfido, contro la stessa prosperità fisiologica, in particolare contro la sua espressione, la bellezza, la gioia; mentre si avverte e si ricerca un compiacimento dell’insuccesso, della marcescenza, del dolore, della sventura, del brutto, dell’espiazione volontaria, dell’autorinuncia, della flagellazione e dell’olocausto di se stessi » (F. Nietzsche, Genealogia della morale).
Analizziamo, in prima battuta, la narrazione di sé proposta dal prete. Questa coscienza si figura il proprio agire come guidato da un sincero amore per il prossimo, ispirato al modello ideale di perfezione incarnato da Cristo.
Intorno al “fine” di amare il prossimo si costruisce la trama di una complessa narrazione. Bisogna amare tutti, perché siamo figli di Dio. Occorre quindi predicare l’uguaglianza, riportare le pecorelle smarrite nel gregge, essere pronti al sacrificio per gli altri.
L’egoismo, le passioni carnali, la gioia, l’ebbrezza devono essere banditi, poiché allontanano dallo “scopo”, dalla retta via.
Cosa nasconde questa storia?
Dietro la “storia d’amore” si cela un risentimento senza nome che desidera esprimersi. Il prete è un uomo che non accetta le contraddizioni della vita e il non-senso dell’esistenza.
Egli odia anche perché ha paura: il risentimento è infatti l’altra faccia del terrore dell’inspiegabile. Si odia ciò che spaventa, ciò che turba.
Per sopravvivere alle passioni dolorose, la coscienza del prete ha bisogno di una narrazione rassicurante: un racconto che, da un lato, esorcizzi il non-senso e, dall’altro, svalorizzi e mistifichi l’esistente.
Così, se la vita è per lui sofferenza, allora lo è per tutti: la vita diventa una valle di lacrime. Ma questo non basta a dare un senso al dolore. La proiezione sugli altri del proprio patire alleggerisce, non spiega.
Ecco allora la costruzione del “mondo dietro il mondo”: la valle di lacrime è solo un luogo di passaggio, che trova la sua giustificazione in un aldilà dove regneranno pace, felicità e giustizia.
Alcuni, però, non credono in questa favola, e ciò disturba. La pecorella smarrita è una minaccia, il sintomo che possano esistere molteplici racconti e che quello del prete sia falso o comunque non più vero degli altri.
Per questo è importante appianare le differenze in nome dell’amore per il prossimo: ridurre l’altro a sé, predicare l’uguaglianza, riportare gli smarriti nel gregge – con le buone, e con le cattive se necessario, tanto la fede santifica ogni efferatezza.
L’amore, la carità, la compassione, il desiderio di uguaglianza sono allora come una fotografia: una rappresentazione della realtà il cui negativo è fatto di odio, risentimento, paura del diverso e della vita. La menzogna del cristianesimo cela dunque delle verità essenziali, umane, troppo umane. Ancora una volta il metodo genealogico mostra la coappartenenza di illusione, verità e sentire.
Freud
Il metodo genealogico diventa “scienza” attraverso la psicoanalisi. Così Freud la definisce:
« PSICOANALISI è il nome: 1) di un procedimento per l’indagine di processi psichici cui altrimenti sarebbe pressoché impossibile accedere; 2) di un metodo terapeutico (basato su tale indagine) per il trattamento dei disturbi nevrotici; 3) di una serie di conoscenze psicologiche acquisite per questa via che gradualmente si assommano e convergono in una nuova disciplina scientifica » (S. Freud, Due voci di enciclopedia: “Psicoanalisi” e “Teoria della libido”).
Sembrerebbe quasi che, con la psicoanalisi, il metodo genealogico diventi pienamente consapevole di sé e della propria portata. La psicoanalisi si presenta come il metodo genealogico che si apprende come procedimento, come terapia e come forma di conoscenza.
Quello che in Marx e in Nietzsche era ancora una virtualità, con Freud si realizza pienamente. Se il metodo genealogico è analisi della falsa coscienza e di tutto ciò che da essa deriva – i fenomeni culturali –, se è demistificazione, ossia riscoperta del pathos nel logos come sua forza costitutiva e organizzatrice, allora esso non può che culminare nella psicoanalisi.
Eppure, la psicoanalisi è davvero la verità del metodo genealogico, o ne rappresenta una subdola mistificazione? E se la psicoanalisi fosse la falsa coscienza del metodo genealogico?
Mi spiego meglio. La scienza separa con nettezza il vero dal falso.
Certo, nel nostro caso non si tratta di una scienza come le altre – e di questo Freud era pienamente consapevole. Del resto, la psicoanalisi ha il suo oggetto privilegiato nel qualitativo e quasi ripudia il quantitativo. Si fonda, inoltre, su un assioma che è anche una dichiarazione anti-metodica: la psicoanalisi è la scienza di ciò di cui non si ha esperienza diretta (l’inconscio).
Tuttavia, la pretesa di verità e di scientificità della psicoanalisi – mi riferisco sempre alla formulazione freudiana – reclama pur sempre una sua istituzionalizzazione. I veri “esperti” del metodo genealogico diventano così gli psicoanalisti, formati alla scienza della psicoanalisi.
Essi sono professionisti, investiti dalla società di un ruolo ben definito e retribuiti. Il loro è un lavoro strutturato, regolato da procedure e dal rispetto di protocolli.
Il problema è che qui avviene un corto-circuito. Usando Marx contro Freud si potrebbe chiedere: come può applicare il metodo genealogico chi accetta acriticamente il ruolo assegnatogli dalla società?
L’istituzionalizzazione della figura dello psicologo non incide anche sull’interpretazione delle malattie psico-somatiche?
Nell’Anti-Edipo, Deleuze sottolinea come il grande limite della psicoanalisi consista nell’aver sostenuto e rafforzato «il movimento di controllo e di repressione del desiderio da parte delle istanze socio-politiche» (G. Deleuze, L’Anti-Edipo).
In effetti, la “territorializzazione” del desiderio nella sfera familiare, di cui parla Deleuze, trova la sua principale giustificazione nella falsa coscienza dello psicoanalista. Nel momento in cui partecipa alle logiche sociali invece di metterle in discussione, lo psicologo contribuisce – anche inconsapevolmente – al processo di mistificazione del reale operato dalla classe dominante.
Così, la forza eversiva e sovversiva del metodo genealogico viene pervertita e neutralizzata dall’istituzionalizzazione del sapere disciplinare e di coloro che lo professano e lo applicano.
Ricorrendo ora a Nietzsche contro Freud, si potrebbe allora sospettare che lo psicoanalista sia un nuovo prete, un sacerdote secolarizzato. Egli afferma di sapere dove vadano i nostri desideri; grazie a lui, sembrerebbe compiersi l’opera di demistificazione dei sintomi. In realtà, alla narrazione inefficace della falsa coscienza del paziente – inefficace perché i sintomi segnalano, come i bug di Matrix, che qualcosa non torna – lo psicoanalista tenta di sostituire un’altra narrazione: costosa, generatrice di dipendenza, in cui le somatizzazioni scompaiono solo per lasciare il posto alla sintomatologia regolata dello studio terapeutico.
Le sedute diventano gabbie di contenimento, spazi in cui il desiderio può essere scaricato, domato, tenuto sotto controllo. Lo studio dello psicoanalista diventa un piccolo spazio socialmente riconosciuto, dove la protesta, la ribellione e il risentimento della falsa coscienza possono esprimersi, non conducendo però a una reale trasformazione del sé o della realtà.
Chiuderei dunque con una provocazione: e se i veri maestri del sospetto fossero solo Marx e Nietzsche?
Freud rappresenterebbe ancora un punto di svolta, ma forse in una direzione pericolosa. Con la psicoanalisi, infatti, avrebbe inizio l’addomesticamento del metodo genealogico: un suo progressivo depotenziamento, che finirebbe per tradursi nella negazione o nella perversione di quell’attitudine demistificatrice da cui esso trae la propria linfa vitale.
9 giugno 2025
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