Nella società occidentale in cui viviamo, i momenti negativi sono visti come qualcosa che, purtroppo, ci tocca sopportare, nell’attesa che passino e che tornino attimi di felicità. Se potessimo, vorremmo tranquillamente farne a meno, rimanendo in uno stato di costante benessere. Eppure, come alcuni grandi autori di diversi campi ci mostrano, concepire il negativo – la fatica, il dolore, la violenza, il male – come qualcosa da evitare tout court porta, inevitabilmente, a rafforzare il negativo e allontanare, al contempo, qualsiasi possibile attimo positivo.
Un viaggio ha sempre qualche intoppo
Fra le teorie sulla narrazione più note, spicca Il viaggio dell’eroe di Christopher Vogler. Opera che – oltre ad avere avuto successo in terra statunitense come schema per la strutturazione di opere quali romanzi o sceneggiati – si è posta come interessante modello per leggere quelle strutture fondanti lo sviluppo di una narrazione in diverse epoche e civiltà.
Ciò che Vogler ha voluto mostrare, all’interno del libro, è che – nella grande variabilità che miti, fiabe, storie di ogni genere hanno avuto nel tempo – vi sono degli elementi fondanti e ricorrenti nelle storie. Delle strutture, per certi aspetti, innate, originarie alla stessa tendenza creatrice dell’umano, che non può non pensarle e metterle in atto quando narra.
Senza volere, nel corso di questo articolo, approfondire la struttura concettualizzata da Vogler, ciò che ci interessa è notare come, secondo l’autore, vi sia un elemento fondamentale che caratterizza ogni narrazione dall’inizio alla fine: la presenza del negativo. Ciò che reca dolore, che emotivamente consideriamo problematico, che istintivamente vorremmo allontanare.
Si pensi al famosissimo romanzo del Signore degli Anelli: se Frodo Baggins fosse stato un semplice Hobbit, la cui vita scorreva tranquilla nella cittadina di Hobbiville, non vi sarebbe stata alcuna storia da raccontare. Fu il giungere in mano sua, da parte dell’anziano Bilbo Baggins, dell’anello di Sauron a scatenare una rottura dell’equilibrio di vita del giovane, che fu costretto a intraprendere un viaggio pieno di pericoli, insidie e sofferenze per poter lanciare l’anello nelle profondità incandescenti del Monte Fato.
Vogler tematizza bene ciò: all’equilibrio iniziale del protagonista segue sempre una rottura di questo, causata da una “chiamata all’azione”: qualcosa o qualcuno – il “messaggero” – sconvolge la vita dell’eroe del viaggio. Questi capisce, da quanto riferitogli o accaduto, che il mondo non è più come prima. Qualcosa è cambiato ed egli non può far finta di niente.
Questa situazione è ovviamente dolorosa, come chiunque, pensando alla vita personale, può ben capire: nel momento in cui un imprevisto infrange la quotidianità, bisogna fare i conti con tale novità. Questo affrontarlo richiede energie fisiche, emotive, cognitive non indifferenti, implicando un’inevitabile sofferenza.
Tale dolore ha anche un lato positivo della medaglia: affrontando la novità, si può “metabolizzarla”, ricreando un nuovo equilibrio più forte del precedente. Questo perché si sarà trovato, ora, uno stile di vita che sarà capace di affrontare un altro, nuovo tipo di situazione, che fino a prima pareva insormontabile.
Il negativo, però, non è qualcosa che si presenta una volta nella vita, ma in maniera costante, e lo stesso accade nella narrazione. Dopo la chiamata all’azione e l’iniziale rifiuto del protagonista, intimorito dalla novità, Vogler afferma che esso – aiutato da una figura che funge da mentore – prende il coraggio per affrontare la prima prova, che è l’accettazione dell’impresa da compiere, ora che l’equilibrio di vita è rotto. E accettare tale sfida – giungere, dunque, al momento positivo in cui ci si sente pronti – implica incamminarsi in una serie di sfide che porteranno nuovi imprevisti e nuovi dolori a cui seguiranno nuove gioie. Fino a giungere ai momenti cruciali della narrazione, come la prova centrale, nella quale l’eroe incontra il nemico principale e giunge sulla soglia della morte, fisica o spirituale. Fortunatamente, sovente egli sopravvive e “rinasce”, sconfiggendo il nemico – che spesso rappresenta il lato oscuro dell’eroe stesso, quel lato negativo con cui non faceva i conti – e ottenendo la ricompensa, che può essere tanto un oggetto prezioso che l’amore della vita, quanto, soprattutto, una maturazione interiore che lo fa essere una persona nuova.
A richiamare alla mente, in brevità, la teoria del romanzo verrebbe da affermare che, in fondo, il dolore è qualcosa che vada tollerato: nessuno vuole soffrire, ma la vita è un continuo sali-scendi che ci obbliga, prima di salire in cima a una vetta, di scendere nelle più oscure profondità. Al contempo, però, potrebbe sorgere la domanda: se il male è qualcosa che vorremmo evitare, se a un certo punto potessimo farne a meno, perché non ripudiarlo per una vita di mera felicità?
Sbaglia la nostra società dalla superficie patinata, dal volto deterso dalle impurità con acqua e sapone, a elogiare la continua ricerca della felicità e del benessere? Sbaglia a raccontare che, prima di tutto, noi vogliamo essere felici, in pace con noi stessi e gli altri e senza preoccupazioni?
Se potessi andare in overdose di piacere?
Nel suo romanzo Infinite Jest, considerabile uno dei maggiori capolavori letterari del XX secolo, Wallace riesce con maestria a delineare, tramite le vite dei suoi personaggi, quell’atmosfera postmoderna e di perdita di senso che caratterizza il nostro presente, che non ci permette di capire cosa per noi abbia davvero valore e per cui – per riprendere quanto afferma uno dei personaggi dell’opera – saremmo disposti a morire due volte. Mancanza di significato che si fa sentire, in tutta la tragicità, nell’emotività svuotata, nel pensiero senza coordinate, nella vita di chi non sa che direzione prendere.
Oltre a ciò, Infinite Jest pone un’altra, interessante domanda – da quanto prima accennato tutt’altro che slegata. La questione verte sull’oggetto centrale del romanzo, una cartuccia smarrita di un film nominato Infinite Jest. Un film che, se visto, causa un vero e proprio piacere fisico, così forte da rendere gli spettatori catatonici, incapaci di far altro che non rivedere costantemente il film, perdendo interesse per qualsiasi altra cosa, mangiare e bere compresi.
Al di là dell’inevitabile parallelo col mondo delle dipendenze – e il romanzo di Wallace tratta il tema dell’uso di droghe, della tossicodipendenza e della riabilitazione in modo magistrale –, la domanda che sorge è: se un determinato oggetto mi garantisse una costante scarica di piacere, interminabile, senza momenti negativi, perché rifiutarla? Secondo quale motivo dovrei io non seguire un tale stile di vita?
Le direzioni in cui incanalarsi per rispondere sono due. Nella prima, si può sostenere che il dolore sia un intralcio al personale obiettivo di felicità. Qualcosa da tollerare quando si presenta, ma che dovremmo evitare il più possibile. In tal senso, se ciò che conta è il mero piacere, l’ottenere uno stato di benessere costante, diventa complesso affermare come contraddittoria la costante visione della cassetta di Infinite Jest. Potremmo estremizzare l’ipotesi, immaginando che chi la guarda venga tenuto in vita tramite alimentazione forzata e le cure necessarie su un lettino ospedaliero: potrebbe così continuare a provare quell’infinito piacere senza pericolo di morire in pochi giorni. Qualcuno potrebbe obiettare che l’ipotesi qui delineata sia impossibile e che non possa crearsi una condizione di costante piacere che mai diminuisce grazie a una stimolazione cerebrale. Ciò che conta, però, è il significato che l’esempio comporta: se potessimo, vorremmo una vita del genere, di mero piacere?
Nella seconda direzione, bisognerebbe rimettere in questione l’idea per cui il dolore sia qualcosa da evitare e, tutt’al più, tollerare. Se esso, invece, fosse qualcosa da vivere e accettare in tutto il suo senso?
E si badi bene: accettare il dolore – o, in senso più generale, il negativo – implica, innanzitutto, comprendere che esso non è, come in tutte le storie a lieto fine, un semplice contrattempo che rallenta la vittoria. Se compreso in tutta la sua gravità, il negativo si mostra come espressione di una possibilità che terrorizza. Esso può essere foriero del fallimento più indicibile, di quell’annullamento di se stessi che è la morte, sia fisica che spirituale. Quando il personale equilibrio si spezza per un imprevisto, nulla ci rassicura che saremo capaci di ristabilire un equilibrio più sano di prima. Potremmo uscirne frantumati emotivamente e psichicamente, o arrivare agli esiti più fatali. Non c’è nessuna garanzia che il negativo sia affrontato con successo, prima che esso venga affrontato.
Per tornare alla struttura della narrazione, Vogler sottolinea come le grandi opere siano non solo quelle che sappiano “rispettare con originalità” gli schemi presenti in ogni storia, ma anche quelle che siano capaci di stravolgere, con maestria, le strutture ricorrenti e portare lo spettatore a una reazione emotiva che lo spiazza.
Si pensi a Psycho di Hitchcock: quanto fa rimanere di stucco la morte della protagonista? Dopo essersi identificati con lei, essa viene uccisa e non rinasce. Lo spettatore, così, rimane senza qualcuno con cui identificarsi o – peggio ancora – si trova costretto a provare a mettersi nei panni di chi è rimasto: l’omicida, il pazzo.
Ancora più in profondità del semplice stupore, Psycho insegna innanzitutto la tremenda forza del negativo: a volte, alla caduta può non seguire la rinascita.
Tentai di decifrare me stesso
Tale concetto viene messo in scena da un’altra grandissima opera, qual è I Fratelli Karamazov di Dostoevskij. Autore capace, nel suo capolavoro e ultimo scritto, di far vivere appieno nei tre fratelli protagonisti il dissidio causato dallo spirito del tempo, dove a una religione, ormai sentita rigida e carente di fondamento, si contrapponeva il nichilismo sempre più imperante, distruttore di valori e credenze. Un negativo che fa toccare il fondo a tutti. Fondo da cui alcuni, come Aleksej – il fratello più giovane –, si rialzano, con la speranza di trovare un nuovo fondamento alla personale vita, qualcosa che le dia senso; da cui altri, come Ivan, non escono più, cadendo nella pazzia di chi non riesce più a trovare una logica nel vivere.
Questi esempi, che consigliamo di conoscere con la lettura e la visione delle sopracitate opere di grande valore, evidenziano non solo la tragicità del negativo, ma anche la sua funzione e, dunque, perché il negativo, per quanto terrorizzante, andrebbe accolto e vissuto.
Quanto i personaggi in queste e altre narrazioni fanno, più o meno consapevolmente, con maggiore o minore successo, è quanto Eraclito riuscì a sintetizzare in cinque parole:
« Tentai di decifrare me stesso. » (aforisma A37, ed. La sapienza greca di Giorgio Colli)
Elemento fondamentale, nella nostra relazione col mondo, è l’emozione. Essa ci fa provare cosa per noi si presenta come bene – ed ecco il piacere – e cosa si presenta come male – il dolore. Tutte le volte che proviamo piacere, la tendenza è quella di fare in modo che esso continui ad esserci. Quando proviamo dolore, l’istinto ci spinge a rifuggirlo.
L’uomo è, però, un essere processuale, che non vive di istanti fra sé separati e ogni istante si comprende solo nella relazione con tutto ciò che precede e con quanto seguirà. In tal senso, anche il piacere e il dolore, per quanto rimangano il faro centrale che guida le nostre azioni, non possono essere compresi come dati immediati. Poniamo il seguente esempio per specificare meglio il ragionamento (per quanto tale tema, qui solo accennato, sarà affrontato con maggiore profondità in un nostro futuro lavoro): una persona vuole giungere in una vetta di montagna a 3000 metri di altezza e deve partire da una valle situata a 1500 metri d’altitudine. La salita implica un percorso lungo e impegnativo in salita. All’inizio si guarda la cima dalla partenza e si prova piacere: si pregusta il panorama dalla vetta, si odorano i profumi del bosco, ci si sente rilassati in mezzo alla natura e fra gli amici. Dopo qualche metro, subentra il dolore: fiato corto, fatica ai muscoli delle gambe, sudore. Se piacere e dolore fossero concepiti come dati da comprendere nell’immediato, la persona dovrebbe girarsi e tornare indietro appena prova dolore, per poi – in un’ottica schizofrenica – rigirarsi e tornare a salire appena torna il piacere di stare nella natura e di voler essere in cima.
Ovviamente le cose non funzionano così, perché la persona, quando prova dolore, comprende quel dolore in vista di ciò che potrà esservi dopo. Sa che quel dolore deve essere affrontato per ottenere un piacere maggiore. Anzi, senza quel dolore, raggiungere la vetta non avrebbe la stessa rosa di significati ed emozioni che scaturiscono dall’impegno profuso nell’impresa. Arrivarvi in elicottero non sarebbe la stessa cosa. La vita, in tal senso, certamente ricerca il piacere e rifugge il dolore, ma solo in un’ottica dialettica. Platone già lo spiegava benissimo: noi vogliamo una vita dove «prevalgono in essa gli elementi che ci sono graditi, la rifiuteremmo se prevalgono elementi sgraditi», dove gradito e sgradito equivalgono alla coppia piacere-dolore.
« [La vita più perfetta] è la migliore di tutte nel realizzare l’ideale di ogni uomo: gioire il più possibile e soffrire il meno possibile per tutta la vita. » (Platone, Leggi, 733 A-D)
« Nessuno infatti in coscienza si lascerebbe convincere a fare qualcosa che in prospettiva non assicuri più gioia che sofferenza. » (Ivi, 663 A-B)
Il bene equivale dunque a quell’agire che, più di tutti, massimizza il piacere in senso coerente, non certo ricercando un’esperienza che, in un dato istante, può sembrare estremamente piacevole, ma che porta successivamente al collasso fisico e mentale, come può essere l’assunzione di determinate sostanze.
In tal senso, il dolore è un segnale che indica che una determinata attività causa sofferenza, ma tale segnale va compreso all’interno del processo in cui si situa. Se esso è causa di un bene maggiore successivamente, esso andrà ben accettato e non ripudiato.
Ma c’è anche un altro senso fondamentale per cui il negativo non va evitato: la conoscenza che da esso deriva. Nel momento in cui una persona vuole perseguire il bene, fondamentale è che essa sappia cosa esso sia e cosa esso non sia. Per tale motivo, quando viene intrapresa un’azione che si rivela dolorosa, fuggire da essa – senza cogliere l’emozione che sorge, le conseguenze che ne derivano, il significato che essa comporta – implica un non comprendere davvero quel momento negativo, non raccapezzarsi sul perché esso sia meglio evitarlo e come si possa evitarlo.
Una persona può aver avuto un trauma in passato che la spinga a diventare molto violenta in certi contesti sociali. Quando la rabbia esplode, questo individuo mostra di non sapersi più controllare e, concluso lo sfogo, se ne ritorna alla normalità evitando di porsi in questione su quanto fatto. Finché non vivrà appieno quel momento – chiedendosi come mai esso avvenga, che effetto esso abbia sull’altro, quali radici della propria psiche spingono a questo agire contraddittorio –, non potrà coglierne il senso e, dunque, evitarlo, consapevole di quali siano le contraddizioni in esso presenti.
Il negativo allora, se compreso, è fondamentale per cogliere ancor meglio cosa sia il positivo. Se conosco cosa sto evitando – le contraddizioni in esso implicate –, posso a maggior ragione esplicitare perché quanto perseguo sia valido.
Se voglio, ad esempio, sostenere che la sincerità in un rapporto sia fondamentale, oltre a conoscere gli elementi positivi che scaturiscono dalla presenza di essa, dovrei ben avere in mente qual è il dolore implicato dal tradimento e sarà tale consapevolezza a spingermi a evitarlo in ogni modo, anche quando ci siano tentazioni che ad esso mi spingono. L’esperienza del negativo diventa dunque fondamentale: può anche non essere diretta (tradire o aver subito tradimento), ma indiretta o immaginata (sentire esperienze altrui o riflettere e ragionare sulle implicazioni di un certo gesto). La sua presenza rimarrà in ogni caso importante per lo strutturarsi coerente dell’agire etico del singolo.
Per riprendere ancora Platone, se si vuole essere coraggiosi bisogna innanzitutto capire e vincere la viltà dentro di sé; per essere morali, bisogna capire cosa ci spinga a essere immorali e cosa ciò implichi. Solo esperendolo, possiamo capire perché il negativo è negativo (si rivela doloroso, contraddittorio), altrimenti rischieremo di confonderlo col positivo.
« Ora, posto che per essere perfettamente coraggioso uno deve combattere e vincere la viltà che ha in sé – e d’altra parte, se non avesse esperienza e non si fosse cimentato con essa in questi tipi di scontri non potrebbe sfruttare, nei rapporti con la virtù, neppure la metà delle sue potenzialità –, come potrà mai essere un perfetto saggio chi non ha combattuto e vinto con l’intelligenza, la forza, la disciplina, sia nella finzione che nella realtà, gli innumerevoli piaceri e desideri che ci spingono alla impudicizia e alla immoralità e s’è tenuto lontano da tutti indistintamente? » (Ivi, 647 C-D).
Non guardare la propria Ombra
Evitare il negativo esplicita anche l’incapacità del soggetto a conoscere innanzitutto se stesso. Non fare i conti col negativo vuole dire, infatti, non conoscere una parte del Sé che esiste, è presente e si mostra con una tonalità emotiva non indifferente.
Se, come afferma Platone, per essere coraggioso uno deve vincere la viltà dentro di sé, ciò implica che vi sia un lato del proprio animo che rema in direzione contraria a quanto si ritiene positivo. In certe situazioni, una persona potrebbe sentir prevalere quel lato, che la allontana dal compiere quanto ritenuto giusto in situazioni considerate più rischiose di altre, o dove vanno affrontati ostacoli che spaventano il soggetto.
Si può, come detto, riconoscere il negativo, affrontarlo e comprenderlo – e, in tal modo, depotenziarlo, potendo andare alla radice da cui scaturisce –, oppure far finta che esso non vi sia: che si è agito da vili per colpa altrui, per gli eventi imprevisti e non dipendenti da sé. Si proietta il problema altrove. Chi non ha mai conosciuto, una volta nella vita, una persona estremamente arrogante nel dialogo e incapace di mettersi in discussione, che poi si lamenta incessantemente di come tutti siano di scarse vedute e non sappiano comprendere la sua posizione?
Più non ascolto quel mio lato nascosto e fastidioso e lo ripudio, più quello – che non può essere eliminato – si manifesterà in modo sempre maggiore e non mi permetterà di capire il mondo che mi circonda, scaraventando su di questo tutte le contraddizioni e difficoltà che albergano in me. Un concetto che Carl Gustav Jung ha espresso molto bene con l’archetipo dell’Ombra, in cui si presentano quegli aspetti della propria personalità che vengono rimossi in quanto scomodi, riaffiorando così in modalità ancora più negative – perché quando non si riconosce che il problema è in me, esso diventa irrisolvibile.
« L’incontro con se stessi è una delle esperienze più sgradevoli, alle quali si sfugge proiettando tutto ciò che è negativo sul mondo circostante. » (C.G. Jung, Gli archetipi dell’inconscio collettivo)
Senza, inoltre, rendersi conto che non conoscendo il negativo, io non posso essere sicuro che esso sia negativo. Non è un caso che, a volte, si neghino parti della personalità proprie anche positive, a causa di un’educazione famigliare o altri fattori che hanno inibito un lato del Sé. Per cui una persona potrebbe mostrarsi eccessivamente timida, soffrendo una mancanza di socialità stroncata in giovane età, a causa di genitori che non hanno permesso al bambino di esprimere la sua apertura verso l’altro in modo sano.
« L’Ombra, di solito, contiene valori di cui la coscienza avverte il bisogno, ma che esistono in forma tale da renderne estremamente problematico il recupero nella nostra vita cosciente. » (M.-L. Von Franz, Il processo di individuazione)
Amare la sofferenza
Arrivati a questo punto, è chiaro in che senso il negativo non vada tollerato, ma vissuto. Per certi aspetti, direbbe un grandissimo scrittore come Fedor Dostoevskij, amato:
« A volte l'uomo è straordinariamente, appassionatamente innamorato della sofferenza. La sofferenza e il dolore sono sempre obbligatori per una coscienza ampia e per un cuore profondo. Ho l’impressione che le persone autenticamente grandi debbano provare al mondo una grande tristezza. » (Delitto e castigo)
Non è possibile, infatti, un’ampia comprensione di sé, di cosa davvero si ama e a cui si è legati nel profondo del proprio cuore, se non si ha vissuto ed esperito il dolore causato dall’allontanarsi da ciò che per sé ha valore. Non è un caso che i grandi narratori, capaci di far risaltare i lati più significativi dell’umano, sono anche quelli che prima di tutto raccontano i lati più contraddittori, violenti e dolorosi che le persone sanno mostrare. Proprio chi non ha paura di affrontare ciò che terrorizza la propria anima ha la capacità, poi, di lodare in tutto il suo valore ciò a cui egli anela con maggior interesse.
Si pensi alla bellissima poesia di Leopardi, Il passero solitario, che riportiamo per interezza per chi volesse la canzone di tre strofe:
D’in su la vetta della torre antica,
Passero solitario, alla campagna
Cantando vai finché non more il giorno;
Ed erra l’armonia per questa valle.
Primavera dintorno
Brilla nell’aria, e per li campi esulta,
Sì ch’a mirarla intenerisce il core.
Odi greggi belar, muggire armenti;
Gli altri augelli contenti, a gara insieme
Per lo libero ciel fan mille giri,
Pur festeggiando il lor tempo migliore:
Tu pensoso in disparte il tutto miri;
Non compagni, non voli,
Non ti cal d’allegria, schivi gli spassi;
Canti, e così trapassi
Dell’anno e di tua vita il più bel fiore.
Oimè, quanto somiglia
Al tuo costume il mio! Sollazzo e riso,
Della novella età dolce famiglia,
E te german di giovinezza, amore,
Sospiro acerbo de’ provetti giorni
Non curo, io non so come; anzi da loro
Quasi fuggo lontano;
Quasi romito, e strano
Al mio loco natio,
Passo del viver mio la primavera.
Questo giorno ch’omai cede alla sera,
Festeggiar si costuma al nostro borgo.
Odi per lo sereno un suon di squilla,
Odi spesso un tonar di ferree canne,
Che rimbomba lontan di villa in villa.
Tutta vestita a festa
La gioventù del loco
Lascia le case, e per le vie si spande;
E mira ed è mirata, e in cor s’allegra.
Io solitario in questa
Rimota parte alla campagna uscendo,
Ogni diletto e gioco
Indugio in altro tempo: e intanto il guardo
Steso nell’aria aprica
Mi fere il Sol che tra lontani monti,
Dopo il giorno sereno,
Cadendo si dilegua, e par che dica
Che la beata gioventù vien meno.
Tu, solingo augellin, venuto a sera
Del viver che daranno a te le stelle,
Certo del tuo costume
Non ti dorrai; che di natura è frutto
Ogni vostra vaghezza.
A me, se di vecchiezza
La detestata soglia
Evitar non impetro,
Quando muti questi occhi all’altrui core,
E lor fia voto il mondo, e il dì futuro
Del dì presente più noioso e tetro,
Che parrà di tal voglia?
Che di quest’anni miei? che di me stesso?
Ahi pentirommi, e spesso,
Ma sconsolato, volgerommi indietro.
Un’opera dove si sviluppa uno stupendo parallelo fra il passero solitario, che canta in cima alla torre, lontano dal resto della natura che si gode il fiore della giovinezza, e Leopardi, che in quella solitudine si riconosce. Poeta che, però, sa che l’uccellino non si cura della sua solitudine, non l’avverte come un peso, mentre lui si rende conto di quanto si pentirà, in vecchiaia, d’aver perso la sua giovinezza.
Quanto, in una poesia di tale potenza espressiva, si coglie come proprio la comprensione del negativo – la solitudine, la perdita della giovinezza – sia ciò che spinga ad amare il positivo – l’incontro con l’altro, il non trascurare i propri anni di gioventù, il non negare la voglia di essere spensierati?
Ecco che la grandezza del poeta recanatese è quella capacità, per riprendere Dostoevskij, di essere «innamorato della sofferenza», quando però, proprio in questo sentimento, trapela l’amore per ciò che si sta perdendo, per ciò che viene sentito come un valore.
E si crea così quell’incredibile effetto per cui Leopardi, proprio nel narrare l’indicibile sofferenza dell’umano, spinge al contempo a ricercare ciò che nell’umano vi è di più alto. Potrà rivelarsi una lettura parziale o tendenziosa per alcuni aspetti – specie in confronto alla prospettiva filosofica leopardiana che riduce i cosiddetti valori umani a mere illusioni, non essendoci spazio per una viva e forte affermazione del Sé che non verrebbe annichilita dal costante divenire della Natura –, eppure, a nostra detta, la seguente citazione di Francesco De Sanctis dice molto su quanto siano le persone che, più di tutti, conoscono il dolore a saperci ispirare i gesti più nobili:
« Perché Leopardi produce l’effetto contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare; non crede alla liberà, e te la fa amare. Chiama illusioni l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore; e non puoi accostartegli, che non cerchi innanzi di raccoglierti e purificarti, perché non abbi ad arrossire al suo cospetto. È scettico, e ti fa credente; e mentre non crede possibile un avvenire men tristo per la patria comune, ti desta in seno un vivo amore per quella e t’infiamma a nobili fatti. Ha così basso concetto dell’umanità, e la sua anima alta, gentile e pura l’onora e la nobilita. […] Ben contrasta Leopardi alle passioni, ma solo alle cattive; e mentre chiama larva ed errore tutta la vita, non sai come, ti senti stringere più saldamente a tutto ciò che nella vita è nobile e grande. » (F. De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi)
E come leggiamo Leopardi, dovremmo circondarci di persone capaci di conoscere il negativo, al fine di perseguire davvero ciò che conta. E grazie ad esse, alle nostre letture, alla nostra esperienza, essere finalmente noi stessi a non rinunciare al nostro io più intimo e di maggior valore, guardando in faccia ciò che di più negativo alberga nella nostra anima.
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1° agosto 2025
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