Libertà o felicità? Tra Dostoevskij e Huxley

 

Muovendo da testi di Dostoevskij e Huxley si vuole porre e cercare di analizzare brevemente la questione se sia possibile essere contemporaneamente liberi e felici.

 

di Fausto Trapletti

 

Aldous Huxley

 

La riflessione del presente articolo prenderà le mosse da e si svilupperà attorno a due celeberrimi loci letterari: il poema Il Grande Inquisitore, presente ne I fratelli Karamazov di Fëdor Dostoevskij, e il dialogo fra il Governatore Mustafà Mond e il Selvaggio (e compagni) dei capitoli sedici e diciassette de Il mondo nuovo di Aldous Huxley. La consonanza che permette di instaurare un rapporto proficuo fra i due testi, nonostante le chiarissime differenze, è abbastanza evidente fin da una prima lettura, e consiste nella tematica di fondo sulla quale si costruiscono: la libertà e il suo rapporto con la felicità e la stabilità del singolo e della società.

 

Il poema de Il Grande Inquisitore è parte del discorso che Ivan Karamazov fa al fratello minore Aleksej per spiegare quali fossero le sue credenze e posizioni rispetto ad alcune questioni fondamentali (quale, per esempio, l’esistenza di Dio) poco prima di partire per Mosca. Narra di una seconda venuta di Cristo nella Siviglia del XVI secolo, caratterizzata dall’imperversare dell’Inquisizione spagnola e della “spiritualità” ad essa connessa, sotto l’egida del Grande Inquisitore, vegliardo cardinale guida e simbolo di quella Chiesa. Colto in flagrante dall’Inquisitore in persona nell’atto di resuscitare una bambina, Cristo viene fatto arrestare, con il timoroso beneplacito della folla che fino a quel momento lo inneggiava e ne chiedeva la grazia. In cella gli fa visita lo stesso Grande Inquisitore, che si prodiga in un appassionato discorso, fra i più noti di tutta la letteratura. Ciò che maggiormente ci interessa in questa sede è appurare la rilevanza che in questo discorso viene riconosciuta alla libertà nell’insegnamento di Cristo e al contempo la drastica e ferma critica che gli viene rivolta proprio per aver preteso di donare la libertà e di essere liberamente amato. La resistenza alle tre tentazioni durante i quaranta giorni nel deserto, così come la cosciente e, non a caso, libera sottomissione alla volontà del Padre, hanno sobbarcato le spalle di ogni singolo uomo, e perciò dell’umanità in generale, di un peso che è per i più troppo gravoso: il peso, appunto, della libertà. Scegliere il pane terreno e così nutrire ogni affamato conquistandone la venerazione, invece di affermare che «non di solo pane vivrà l’uomo» (Mt 4,4); inchinarsi di fronte al Diavolo per divenire signore di ogni regno su questa terra; scendere dalla croce per mostrarsi immediatamente come Figlio di Dio: questa era la via per privare l’umanità della libertà (e perciò forse di ogni autentica spiritualità) e così far sì che ognuno potesse essere felice e sereno in questa vita (ed in questa soltanto). Ed è proprio su questa via che, a detta dell’Inquisitore, si è avventurata la Chiesa, correggendo l’insegnamento del Signore e scegliendo di servire lo spirito dell’auto-distruzione. Solo così le si sono aperte le porte delle moltitudini, le quali ben volentieri hanno ceduto il proprio diritto ad essere libere pur di aver assicurate tranquillità e felicità immediate, terrene, materiali. 

 

Fëdor Dostoevskij 

 

L’intero discorso dell’Inquisitore, per quanto ricco e densissimo, si articola in senso generale nella presentazione di una possibilità dicotomica per il genere umano: o libero e infelice, invischiato nel dramma della scelta e nella sofferenza che essa mutualmente causa all’altro; o illusoriamente libero, ma sazio di tale illusione e perciò felice e sereno, al prezzo della conscia infelicità di una ristretta cerchia di eletti dalla quale dipende. La medesima ambivalenza di possibilità la si ritrova, espressa in diverso modo, nel discorso del Governatore Mustafà Mond. Spiegando esplicitamente al Selvaggio le ragioni e i modi di organizzazione della società, ciò che il Governatore dipinge è un quadro in cui l’essere umano (se così ancora si può chiamare) è geneticamente programmato per ricoprire un ruolo e svolgere un lavoro, intervallato da momenti di svago grazie a numerose modalità di stimolazione sensoriale e alla completa liberalità sessuale. I soggetti dotati di maggiore autocoscienza sono creati per far parte della schiera dirigente di questa società, ma hanno la possibilità di andare in esilio, dove possono coltivare i propri interessi senza danneggiare la stabilità della società stessa.  Emerge, anche a fronte di numerosi esperimenti sociali, che questa organizzazione è la migliore in termini di stabilità generale e felicità dei singoli. Si ripropone allora, come detto, l’aut aut fra libertà e felicità: l’individuo può essere felice solo se libero dalla libertà. 

 

Ora, è evidente che da questi due testi, già solo presi singolarmente, sorgono numerosissimi spunti di riflessione e che qui non si potrà far altro che considerarne uno, banalizzando e semplificando ogni questione. 

 

Il primo problema che sorge lampante, da un punto di vista filosofico, è la vaghezza semantica dei termini utilizzati; vaghezza che è in qualche modo intrinseca a tali termini stessi, in quanto depositari di tradizioni millenarie. Voler chiarire definitivamente cosa significhino parole quali “libertà” e “felicità” è de facto velleitario. Ciò detto, si può cercare di chiarirne l’utilizzo nei due contesti sopra richiamati. In entrambi, infatti, con “felicità” pare si intenda una condizione a-problematica, certa, leggera; con “libertà”, invece, sembra venir intenzionata una situazione non tanto di ciò che comunemente è inteso come libero arbitrio (o potere dei contrari), quanto di radicale possibilità esistenziale. 

 

Se si considerano questi due significati come possibilmente effettuali, allora è evidente che, diversamente da quanto consiglia un certo senso comune, la libertà non è condizione di possibilità della felicità, ma al contrario lo è dell’infelicità. Se si abbraccia la propria libertà, ovvero se si sceglie angosciosamente la propria esistenza, non si può che essere condannati alla sofferenza, al dramma, all’infelicità (sono chiari seppur impliciti i rimandi alle diverse correnti dell’Existenz philosophie novecentesca e ai suoi prodromi in Kiekegaard e Nietzsche). Abbandonandosi, al contrario, al fluire del corso della vita si va incontro ad un’esistenza più semplice, condivisa dai più, automoventesi, e perciò, in qualche modo, felice. 

 

Da un certo punto di vista, sembra naturale propendere, e volere che ciascuno propenda, per la prima delle due possibilità, seppur possa sembrare controintuitivo: perché mai scegliere la sofferenza propria e degli altri? La risposta è lapalissiana: perché non si considera quanto fino a questo punto definito con il termine “felicità” la vera felicità, la quale sola sarebbe raggiungibile in una sorta di livello superiore di spiritualità, connotato essenzialmente dalla libertà di ognuno. Ebbene, è davvero così evidente la strada che bisogna intraprendere e per la quale bisogna spendere le proprie energie? Chiaramente no, o per lo meno non lo è per chi scrive. 

 

E. Delacroix, "La libertà che guida il popolo" (1830)

 

La prospettiva del Grande Inquisitore e del Governatore ha innegabilmente un che di seducente perché pone una semplice domanda: a quale prezzo? Obbliga ogni singolo individuo ad interrogarsi su quanto sia disposto a pagare per la propria libertà, e lo fa nel modo più diretto e drammatico: aiutando a divenire consapevoli che il proprio essere liberi costa immani sofferenze a qualcun altro. E quindi di nuovo, fino a che prezzo io sono disposto a pagare pur di essere libero? Perché è affinché e poiché io esigo questa libertà che qualcuno muore di fame, muore in guerra, che qualche infante è costretto al lavoro in miniera, che qualcuno si suicida per sfuggire ad un mondo e ad una vita a cui non sente di appartenere. 

 

Da un punto di vista ideologico ed utopico è quasi un moto spontaneo dell’animo sperare in e scegliere la propria e l’altrui libertà. Così facendo, però, senza accorgersene, si sta divenendo i più fedeli discepoli dell’Inquisitore e del Governatore, in quanto si presuppone che ogni altro essere umano riconosca ciò che è bene ed agisca esattamente come lo si riconosce e come si agisce in sé stessi, e laddove così non fosse si opterebbe (probabilmente) per strategie coercitive. Si è infatti dimentichi di un aspetto fondamentale, se non l’aspetto fondamentale, della libertà: essa presuppone la possibilità del fallimento. In altre parole, per riavvicinarci al linguaggio di Dostoevskij, la Grazia presuppone la possibilità del rifiuto: alla chiamata di Dio nel Suo Regno si può rispondere, con Ivan Karamazov, «restituendo il biglietto» (F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, 1880)

 

A questo punto, asfissiati dalla consapevolezza di cosa comporti inseguire il proprio fantastico ideale di libertà e felicità superiore, è poi così assurdo riconoscere in quanto prospettato dall’Inquisitore e dal Governatore il minor male? È così disumano sperare in una società stabile che annulli le sofferenze in questa vita?

 

Ovviamente non si vuole e non si può qui dare una risposta, ma si ritiene sia fondamentale chiedersi se ci si debba arrogare del proprio diritto ad essere infelici, come il Selvaggio, o se invece si debba lasciare il proprio cuore ardere per l’idea di una umanità libera, come quello dell’Inquisitore dopo il bacio di Cristo alla fine del proprio discorso, pur continuando a tessere le file di un’umanità non libera. 

 

11 agosto 2022

 







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