Essere o non-Essere? Questo non è il problema...

 

Buona parte della filosofia si è concentrata storicamente sulla questione dell'Essere, ovvero sull'ontologia. Si mostrerà l'aporeticità di questa definizione e qualche sua possibile soluzione.

 

B. Licinio, "Ragazzo con un teschio"
B. Licinio, "Ragazzo con un teschio"

 

« Ogni ontologia, per quanto disponga di un sistema di categorie ricco e ben connesso, rimane, in fondo, cieca e falsante rispetto al suo intento più proprio, se prima non ha sufficientemente chiarito il senso dell’essere e se non ha concepito questa chiarificazione come il suo compito fondamentale. » (Martin Heidegger, Essere e Tempo

 

In alcuni filosofi la questione dell’Essere ha costituito una parte consistente della loro riflessione, per non dire l’unica. Si trova ad esempio al centro della riflessione di Parmenide, per quanto almeno ci è dato da quei pochi frammenti, e per tornare a tempi più recenti di Heidegger e Severino. E però costituisce uno dei punti di partenza anche della Scienza della Logica di Hegel, che pure definisce l'Essere come il concetto più astratto e inconsistente.

 

Un’idea centrale in alcuni di questi filosofi è la critica della tradizione metafisica occidentale: secondo Heidegger responsabile della riduzione dell’Essere all’ente e secondo Severino responsabile dell’errore del Divenire. Anche Hegel fa derivare la sua dialettica sull’opposizione originaria tra Essere e non-Essere, cioè al fatto che ogni cosa passa dall’Essere al non-Essere e viceversa.

 

Non entriamo nel merito delle prospettive e delle differenze tra questi diversi autori. Ad esempio la suddetta opposizione dialettica tra Essere e non-Essere non sarebbe approvata da Severino, il quale riprende la formulazione parmenidea secondo la quale solo l’Essere è, mentre il Divenire e il passaggio tra Essere e non-Essere sarebbero un errore.

 

Ciò però che qui ci interessa sottolineare è che queste prospettive, che in maniera diversa cercano di districarsi e distanziarsi dalla metafisica tradizionale, per un altro verso ne rimangono prigioniere. La problematica sta proprio nella stessa definizione di Essere e non-Essere.

 

Noi nella nostra esperienza e nella nostra vita, ma anche nei sistemi scientifici più progrediti, non incontriamo mai qualcosa di definibile come Essere o non-Essere. Con Essere infatti si intende una permanenza eterna delle cose, esplicitata da Severino come “eternità degli essenti”, o in Heidegger come trascendenza dell’Essere rispetto agli enti. 

 

Una volta che abbiamo compiuto questa operazione abbiamo però di fatto restaurato la metafisica, perché queste permanenze eterne o essenze delle cose non sono dimostrabili nella nostra esperienza. Kantianamente, rimarrebbe solo la loro valenza a livello di fede, ma in ciò si verrebbe meno al compito stesso della filosofia, che è razionale e non religioso.

 

Stessa problematica si pone per il concetto di non-Essere. Anche questo non è presente nella nostra esperienza. Qui il lavoro dei sostenitori dell’Essere è facile, se non che per negare il puro non-essere di una cosa, che giustamente non può essere concepito, affermano il puro essere delle cose negando qualsiasi valenza anche al mutare e al divenire delle cose.

 

Per sbarazzarsi realmente della metafisica, ammesso che si voglia farlo, bisognerebbe rifiutare in principio il suo modo di operare, che è quello di intrappolare la realtà all’interno di concetti astratti. 

 

G. Doré, "Dante, l'empireo"
G. Doré, "Dante, l'empireo"

 

In realtà una buona parte della filosofia non concettualizza le proprie problematiche intorno alla questione dell’Essere o del non-Essere. Ad esempio per Alain Badiou:

 

« l’essere è essenzialmente molteplice, la Presenza sacra è una pura parvenza, e la verità, come ogni altra cosa, se ammettiamo che esiste, non è una rivelazione, e ancor meno la prossimità a ciò che si ritrae. È una procedura regolata, il cui risultato è un molteplice supplementare. » (Alain Badiou, Primo Manifesto per la Filosofia

 

L’affermazione che l’Essere sia molteplice equivale qui di fatto alla negazione di come la Metafisica ha impostato in maniera classica la problematica. Infatti che l’Essere sia molteplice puro vuol dire di fatto che non vi è Essere inteso come essere eterno. Non è un caso che Badiou scriva “essere” con iniziale minuscola. 

 

Secondo Badiou infatti si dà solo una comprensione operativa (di calcolo) della realtà attraverso i concetti e le matematiche, rispetto ai quali la realtà molteplice è sempre eccedente. Ad esempio una macchina è sempre più del simbolo e dell’idea di macchina attraverso cui la definiamo, definizione che però ci permette lo stesso di averci a che fare ed utilizzarla.

 

Un’altra conclusione a cui si giunge eliminando il problema dell’Essere insieme a quello del non-Essere riguarda il problema del nichilismo. Ormai nichilismo è diventata una definizione talmente larga e vaga da non avere più senso. La definizione di nichilista si fonda proprio su questo atto di imperio metafisico attraverso cui si espelle la concezione "diversa" come fondata sul nulla, mentre la propria sarebbe fondata sull'Essere. 

 

Che vorrebbe dire insomma credere nel nulla? Credere nel nulla appunto non significa: nulla! Coloro che infatti sono stati accusati di nichilismo, come ad esempio Nietzsche, semplicemente non concepivano una Essenza o un Essere assoluti, ma non per questo credevano nel nulla. La metafisica cerca di bandire come nichilista qualsiasi pensiero che si ponga come fallibile e negativo, per contrapporgli una Verità Assoluta ed Eterna. 

 

Louis Althusser concepisce il fine strategico di questa ricerca del fondamento assoluto: 

 

« Dicevo poc’anzi che c’è una sola definizione davvero valida per l’Essere: l’Essere è così e basta. Sottointeso: vietato cambiare alcunché dell’ordine costituito, vietato sbagliarsi sugli ordini assegnati, vietato disobbedire agli ordini assegnati. » (Louis Althusser, Essere marxisti in filosofia)

 

Forse questa visione di Althusser, che concepisce la filosofia come “lotta di classe nella teoria”, è fortemente limitata se presa unilateralmente, ma ci aiuta ad illuminare un lato poco considerato dell’ontologia. Il pensiero non poggia solo sulla teoresi, ma sui rapporti di forza vigenti. 

 

E. Delacroix, "La libertà che guida il popolo" 1830
E. Delacroix, "La libertà che guida il popolo" 1830

 

Anche Carlo Sini mette in discussione questa questione del primato dell’Essere, nel suo testo Filosofia Teoretica. La filosofia si pone storicamente come la questione sull’Essere, come dunque la domanda sul senso degli enti. Per Sini però questa domanda è viziata dal fatto che la filosofia, pretendendo di dare risposte generali, finisce per essere un’attività particolare, che è generata dalla comparsa della scrittura e dalla sostituzione di questa all’oralità. 

 

Questa questione è riassunta nella domanda originaria di Socrate: che cos’è l’ente? È la scrittura che permette di considerare l’ente, la cosa freddamente e in maniera teoretica e che dà inizio all’attività teoretica e dunque alla domanda sull’essere. È grazie alla scrittura che l’uomo può porsi di fronte la totalità di tutto l’essere e porsi la domanda sul suo senso, che non è più il senso divino ancestrale che riposava nell’oralità. 

 

Ciò appunto si traduce in una visione universale del filosofo, che parla tutte le lingue. Senza appunto vedere che è una pratica, questa scrittura che gli permette di pensare questo “universale”. Questa visione logica e matematizzante del reale non può che trovare la sua realizzazione nella scienza.

 

Per Sini avviene dunque qui una “crisi di senso” in cui il filosofo odierno intravvede appunto che questa sua attività non è che una pratica come le altre, vede appunto l’infondatezza del suo domandare oltre che, spesso, la sua violenza. Ciò conduce “silenzio” del filosofo, che è poi la crisi di senso della civiltà occidentale, secondo Sini, il permanere di uno specialismo e frammentazione del sapere senza che vi possa essere un senso.

 

Questo per Sini comporta un paradosso: perché da una parte siamo costretti a pensare la verità, e quindi stare nella tradizione filosofica, ma dall’altro vediamo che questa verità comporta lo stare in errore. 

 

La risposta di Sini a questa questione è piuttosto interessante: ovvero far proprio il carattere pratico della filosofia, la filosofia come prassi, non più una superteoria o una metafisica ma un sapere operativo come d’altronde le altre scienze, con tuttavia le sue peculiarità. Una pratica sempre esposta al non-senso, al nichilismo.

 

Abbiamo qui riassunto per sommi capi la concezione di Carlo Sini perché essa presenta dei punti interessanti. Innanzitutto dice che non esiste qualcosa come l’Essere o l’Essenza se non nell’attività di scrittura del filosofo. E che questa attività viene superata dalla scienza, la quale definendo operativamente i suoi concetti non ha più bisogno di interrogarsi su qualcosa come il problema dell’Essere. 

 

Il problema principale di Sini è che ragiona per contraddizioni insolubili. Per lui la contraddizioni sono come le antinomie della Ragion Pura di Kant, ovvero opposizioni alle quali la ragione non riuscirà mai a venire a capo. 

 

In questo senso, bisogna dargli atto che egli cerca di porsi positivamente nel solco della sua definizione di filosofia come pratica, ma invece che vedere questo come un precipitare nel nichilismo dovrebbe vederlo come un progresso. E fra l’altro la stessa definizione di nichilismo implica una negatività, una mancanza di quell’Essere e quell’Essenza che sta in quella “violenza della definizione” che Sini giustamente denuncia. 

 

Ora, quelle crisi di cui Sini parla sono appunto positive contraddizioni, che implicano un progresso o un superamento del precedente stadio di arretratezza. Bisogna dar atto di questo progresso, prima di criticarne il lato negativo (la violenza, la specializzazione dei saperi, la catastrofe ecc.). Ovvero porsi positivamente su questo terreno. 

 

Caravaggio, "San Girolamo che scrive" (1605-1606)
Caravaggio, "San Girolamo che scrive" (1605-1606)

 

Tornando al concetto di Essere (o non-Essere) il superamento di queste vuote totalità nell’operatività della scienza è un progresso, stante il fatto che queste concettualizzazioni nella loro epoca erano legittime e adatte al livello di sviluppo del tempo. 

 

Oggi dunque non vi è alcuna “decadenza” o “nichilismo”, anzi proprio perché la nostra conoscenza si dà maggiori limiti e delimita molto più oggettivamente il suo oggetto, e ciò che conosce da ciò che non conosce, è molto più avanzata delle grandi costruzioni metafisiche di millenni fa. 

 

Il punto è che questa precisione comporta anche una frammentazione delle varie scienze e uno svuotamento della filosofia e della sua possibilità di operare una sintesi conoscitiva, se non nelle sembianze della vecchia metafisica dogmatica almeno in quelle di una cultura che sia grado di porre problematiche su un piano più ampio e non meramente specialistico.

 

Ora abbiamo due concezioni che ci permettono di impostare correttamente la questione. Da una parte l’idea di un reale essenzialmente molteplice infondato, la cui conoscenza si fonda operativamente (Badiou). Proprio questa concezione ci permette di superare la vecchia impostazione metafisica e concepire la filosofia come una pratica (Sini). Fatto ciò, resta da delineare una definizione di filosofia che ne tenga conto, ma non si riduca meramente a “lotta di classe nella teoria” come sostiene Althusser. Ma ciò esula dallo spazio del presente testo. 

 

 26 gennaio 2022

 








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