L’importanza di non essere Eutifrone

 

L’Eutifrone è spesso indicato come esempio iconico, all’interno della produzione platonica, dei dialoghi giovanili aporetici. Non credo, però, che sia un’opera che evidenzi in primis l’incapacità di Socrate di giungere a una risposta. Semmai, tale dialogo è la messa in scena di come qualsiasi discussione finisca per diventare sterile quando un interlocutore non è davvero disposto a mettersi in discussione. Ecco spiegato perché non dovremmo mai essere come Eutifrone.

 

di Francesco Pietrobelli

 

Platone e Aristotele che dibattono (bassorilievo di Luca della Robbia)
Platone e Aristotele che dibattono (bassorilievo di Luca della Robbia)

 

« È bene, infatti, prima di ogni altra cosa, prendersi cura dei giovani, affinché crescano nel miglior modo possibile » (Platone, Eutifrone).

 

Chi non condividerebbe tali parole dette da Socrate? Semmai, ciò su cui potremmo discordare è come intendere il prendersi cura dei giovani. Basti pensare che l’affermazione suddetta viene espressa da Socrate per rispondere a un Eutifrone sorpreso di scoprire che sia stata intentata, ad Atene, un’accusa, da parte del poco noto poeta Meleto, contro il rinomato filosofo. Più precisamente, un’accusa di corrompere i giovani della città.

 

Comincia così l’Eutifrone, uno dei più noti dialoghi giovanili di Platone, dove troviamo un Socrate qualche giorno prima degli avvenimenti che lo porteranno alla condanna a morte, come narrato nell’Apologia di Socrate. Il personaggio che dà il nome al dialogo è un sacerdote convinto del suo rigore morale, al punto da trovarsi in un processo intentato contro il suo stesso padre. Un’azione che, seppur fattibile nell’antica Grecia a dispetto dei romani (dove non era giuridicamente possibile), era normalmente vista come scandalosa. Com’è possibile che una persona giunga a compiere un atto del genere? Proprio questa sarà una domanda fondamentale nel corso del dialogo. La base su cui si strutturerà il confronto dagli esiti aporetici fra Eutifrone e Socrate.

 

Eutifrone racconta che un dipendente del padre, mentre lavorava presso un loro terreno a Nasso, uccise in stato di ebbrezza uno schiavo. Quando il padre scoprì l'accaduto, decise di legarlo mani e piedi e di gettarlo in una fossa, nell'attesa di ricevere indicazioni sul da farsi dagli esegeti (i magistrati). Tuttavia, in quel frangente, il padre si dimenticò – volontariamente o meno, non è chiaro – di curarsi dello stato di salute del dipendente, che alla fine morì di stenti.

E così, Eutifrone reputa il padre stesso un assassino e di doverlo, dunque, denunciare. Il suo rigore morale lo porta infatti ad accusare chiunque, anche uno stretto parente, se tale persona aveva compiuto un’azione empia:

 

« È ridicolo, o Socrate, che tu ritenga che ci sia qualche differenza a seconda che l’ucciso sia un estraneo o uno della casa e che non si debba invece guardare a questa sola cosa: se l’uccisore abbia avuto ragione di uccidere oppure no. E se aveva ragione, bisogna lasciarlo stare, e, se no, bisogna intentargli accusa, anche nel caso che egli abiti sotto il tuo tetto e segga alla tua mensa. »   

 

 Giunge, così, la domanda cruciale di Socrate:

 

« Ma tu, per Zeus, o Eutifrone, sei convinto di conoscere con tanta precisione in che cosa consistano le cose divine e quali siano le cose sante ed empie, che, pur essendosi svolti i fatti così come tu dici, non hai timore di rischiare di commettere, a tua volta, un’azione empia, intentando un processo contro tuo padre? »

 

La questione è fondamentale: Eutifrone può sapere quanto è stato fatto da suo padre, ma ha una sufficiente conoscenza di quei principi che permettono di giudicare un’azione nel modo giusto? Condannare una persona significa infatti giudicarla secondo dei valori ritenuti validi. Se si afferma, come fa Eutifrone, che l’azione del padre è empia, cioè il contrario di un’azione santa, allora Eutifrone, ci dice Socrate, sarà un esperto del concetto di santità. Altrimenti, come potrebbe essere così spavaldo nell’accusare il genitore, contravvenendo a una regola non scritta tramandata nel tempo che afferma di mostrare rispetto e non muovere accusa contro il padre?

 

Tu, Eutifrone, sai dunque spiegarci cosa sia il santo e cosa l’empio? Gli chiede Socrate. E attorno a tale domanda si sviluppa l’intero dialogo. Dialogo che, più che dimostrare l’incapacità di trovare una risposta, mostra l’incapacità di farlo da parte di chi non sa mettersi in discussione.

 

Cogliere l’idea

 

Eutifrone parte spavaldo, di fronte alla domanda di Socrate, convinto di sapere rispondere alla richiesta del noto filosofo:

 

« Dico che il santo è ciò che io sto facendo ora: intentare accusa contro chi commette ingiustizia rendendosi colpevole o di omicidio o di furti sacrileghi o di altri misfatti di questo tipo, sia che si tratti del padre, sia che si tratti della madre, sia che si tratti di chiunque altro; non intentargli causa, invece, è empio. »

 

Una risposta a cui Socrate ha subito da obiettare qualcosa:

 

« Non ti chiedevo di farmi conoscere una o due delle molte azioni sante, ma di farmi conoscere proprio quella forma per cui tutte le azioni sante sono sante. »

 

Non si può, infatti, comprendere cosa sia la santità semplicemente additando azioni sante. Un’azione, infatti, noi la etichettiamo secondo una determinata categoria in quanto presenta delle precise caratteristiche. Se si afferma che un certo gesto è “illegale”, per comprendere perché esso sia illegale bisogna capire quali sono le caratteristiche che devono essere presenti affinché l’azione vada etichettata in tal modo (in questo caso, non rispettare le leggi vigenti). Non possiamo comprendere il significato di illegalità semplicemente indicando delle azioni che lo sono (rubare, uccidere, frodare lo Stato, ecc.). Piuttosto, è la comprensione del concetto, dell’idea di illegalità (l’insieme delle caratteristiche che essa comporta) che ci permette poi di additare quali azioni siano legali e quali illegali.

 

Dire, come Eutifrone, che il santo è quella precisa azione che si è fatta non ci permette neppure di essere sicuri che quella azione sia davvero santa: non avendo chiara l’idea di santo, non si sa infatti che caratteristiche debba presentare l’azione rientrante nell’etichetta “santità”.

Bisogna, quindi, cogliere l’idea, afferma Socrate:

 

«Allora, devi farmi conoscere che cosa sia, precisamente, questa Idea, affinché, guardando ad essa e di essa servendomi come di modello, io possa qualificare come santa quell’azione – tua o degli altri – che ad essa sia somigliante, e non santa quella che non le sia somigliante. »

 

Eutifrone ci prova, affermando che santo è ciò che è caro agli dèi: una definizione debole, nel momento in cui gli stessi dèi greci, a cui Eutifrone fa riferimento, sono un insieme di personalità che spesso litigano fra loro, «che sono nemici gli uni con gli altri». Detto altrimenti, sono divinità in disaccordo su molte cose: in che modo la loro opinione su ciò che è caro è sinonimo di santità, se non tutti gli dèi la pensano allo stesso modo?

 

Allora, ci riprova Eutifrone, santo è ciò che è caro a tutti gli dèi: ciò su cui sono tutti d’accordo. Forse, avrà pensato il sacerdote, sono riuscito a fermare l’infinito interrogatorio socratico. Invece, anche questa volta, Socrate ha da ridire. Nulla di eccezionale, conoscendo il filosofo. Egli chiede a Eutifrone:

 

« Considera questo: il santo viene amato dagli dèi in quanto è santo, oppure in quanto viene amato è santo? »

 

Forse non tutti avranno capito la domanda nella sua immediatezza, come non la comprende subito neppure Eutifrone. Socrate allora approfondisce il tema, delineando una distinzione fondamentale per la prosecuzione della ricerca sulla santità.

 

Se affermiamo che una cosa è santa in quanto amata dagli dèi, allora cadiamo in una concezione relativistica e vuota della santità, per cui essa coincide con ciò che è caro (amato) dagli dèi. Se gli dèi amano qualcosa, esso automaticamente è santo. Non solo già abbiamo notato che gli dèi non hanno tutti la stessa opinione, ma se a un certo punto, su una certa azione, tutti gli dèi concordassero nell’amarla, tale azione sarebbe santa fintantoché il sentimento degli dèi non cambiasse. Una volta cambiato, quell’azione smetterebbe di essere definibile santa.

 

Se, invece, poniamo – come Socrate ritiene corretto, e su cui poi Eutifrone concorda – che una cosa viene amata in quanto santa, sottolineiamo che “essere amati” è una caratteristica dell’essere santi. Gli dèi amano una certa azione in quanto è santa, presenta le caratteristiche tipiche della santità. Non è arbitrario il loro amore, in quanto è ciò che consegue nel momento in cui si riconosce che un’azione rispetta l’idea di santità. Se invece un’azione non è santa, allora non viene amata.

 

 

Allora caratteristica secondaria di ciò che è santo è «di venir amato da tutti gli dèi», ma ancora Eutifrone non ha spiegato che cosa sia il santo. Quale sia l’idea con la quale poter qualificare le azioni sante, distinguendole da quelle empie. 

 

A. Canova, "Dedalo e Icaro" (1779)
A. Canova, "Dedalo e Icaro" (1779)

 

L’arte di Dedalo

 

« Ma, o Socrate, io non so più come dirti quello che ho in mente: qualsiasi definizione che proponiamo ci gira, non so come, sempre attorno, e non vuole rimaner ferma al posto in cui la mettiamo. »

 

Si lamenta così Eutifrone, infastidito dall’incapacità di tenere ferma la sua definizione della santità. Socrate ci scherza sopra, dicendo che tali definizioni ricordano le opere di Dedalo, considerato capostipite degli scultori e colui che per primo aveva superato la rappresentazione statica nelle sculture, imprimendo una dinamicità nelle forme prima assente. Come le sue opere sembrano muoversi, anche le definizioni di Eutifrone sembrano non voler stare ferme al loro posto, siccome ogni volta che Eutifrone ne pone una, delle contraddizioni ad essa interne obbligano a cercare un altro tentativo definitorio di santità. Eutifrone, però, replica, riguardo alle sue definizioni, che «questo loro rigirarsi e non voler star ferme nel medesimo luogo, non sono io a produrlo, ma il Dedalo mi sembra che sia proprio tu [Socrate], perché, per conto mio, sarebbero rimaste ferme così.»

 

Da queste parole, cogliamo l’incapacità di Eutifrone di apprezzare l’unica cosa che permetterebbe di giungere a una definizione chiara, o di sicuro migliore delle precedenti, sulla santità: il confronto. L’arte della dialettica, del botta e risposta serrato con chi si ha davanti.

 

Ogni definizione, nel momento in cui si pone, vuole “star ferma”, cioè, in quanto dichiarata, essa, implicitamente, si posiziona come vera, non contraddittoria. Se, infatti, una dichiarazione la si pensasse come falsa, non la si dichiarerebbe.

 

Siccome – come abbiamo potuto evidenziare altrove in un articolo sull’Apologia di Socrate – la verità non è qualcosa che si ottiene in modo definitivo, ma la si ricerca costantemente e in modo mai definitivo, ne deriva che, per avvicinarci al vero riguardo qualcosa, dobbiamo tenere sempre aperte le porte al cambiamento. È dunque un bene se qualcosa fa “muovere” le nostre definizioni: vuol dire che ci ha messo in difficoltà, ha evidenziato delle contraddizioni interne a quanto diciamo. Ci spinge, dunque, a migliorare: tramite il confronto, a scoprire nuove definizioni più coerenti.

 

Il fallimento di chi ha qualcosa di “più importante” da fare

 

Proprio a ciò punta Socrate: punzecchiare Eutifrone con continue obiezioni, affinché egli affini la sua posizione sulla santità. Più precisamente, affinché nel dialogo entrambi, assieme, scoprano una migliore, meglio fondata, definizione del concetto di santità.

 

Comincia allora la seconda parte della ricerca, che porta Eutifrone, con l’aiuto e il suggerimento di Socrate, a concepire il santo come una parte del giusto (per cui tutto ciò che è santo è giusto, mentre non tutto ciò che rientra nell’idea di giustizia è anche santo). Santo allora, afferma Eutifrone, è «quella parte del giusto che concerne la cura per gli dèi», mentre la restante parte del giusto riguarda la cura degli uomini.

 

Ma, obietta Socrate, in che modo gli uomini possono prendersi cura degli dèi, infinitamente migliori e più potenti degli uomini? Il prendersi cura di qualcosa lo rende migliore: chi si prende cura delle piante fa in modo che esse crescano rigogliose. Gli dèi però non possono venir resi migliori dagli uomini, sarebbe un’assurdità. Allora, afferma Eutifrone, la cura degli uomini verso gli dèi sarebbe, più precisamente, «un’arte di servire gli dèi», quel tipo di cura che «i servi hanno per i loro padroni». Incalzato ancora di più, Eutifrone arriva a definire il servire gli dèi come un chiedere (pregare) e un donare (fare sacrifici) ad essi. Ma se noi, grazie alle preghiere, otteniamo qualcosa, cosa mai possono ottenere da noi gli dèi? Grazie ai nostri sacrifici, gli dèi in dono cosa ottengono? Risponde Eutifrone, ormai stizzito:

 

« In che altro vuoi che consistano, se non in onore, venerazione, e, come poco fa dicevo, in ciò che è loro gradito? »

 

E si torna, così, all’idea di partenza:

 

« SOCRATE – Allora il santo, o Eutifrone, è ciò che è gradito agli dèi, e non è, invece, ciò che è giovevole e neppure ciò che è caro agli dèi?

EUTIFRONE – Io ritengo, anzi, che esso sia ciò che è caro agli dèi più di ogni altra cosa. »

 

Sei molto più abile di Dedalo, afferma Socrate verso Eutifrone, siccome questi i suoi discorsi ha finito per farli girare addirittura in circolo, tornando a quella definizione sulla santità che già si era appurato essere contraddittoria.

 

Proprio a questo punto della narrazione, si coglie la differenza fra chi è filosofo nel senso profondo del termine e chi non lo è.

Socrate, infatti, non si dà per vinto:

 

« Dobbiamo, pertanto, riesaminare dall’inizio che cosa sia il santo, perché io, prima di averlo imparato, non mi darò per vinto. Ma tu non ti stancare, e, sforzando il tuo ingegno più che puoi, ora dimmi la verità. »

 

Con la sua classica ironia, Socrate suppone che Eutifrone debba conoscere cosa sia la santità:

 

« Se, infatti, tu non avessi una conoscenza del santo e dell’empio, certo non avresti accusato di omicidio il tuo vecchio padre per quell’uomo che lavorava da voi a giornata ».

 

Senza una tale conoscenza, come avrebbe potuto Eutifrone compiere un’azione così moralmente carica di implicazioni? Ovvio che, sotto tale domanda, si cela la spinta di Socrate per proseguire il dialogo, per non arrendersi nella ricerca del vero sull’idea della santità.

Ed è qui che giunge la risposta di Eutifrone, che spinge il dialogo alla chiusura:

 

« Un’altra volta, o Socrate. Ora ho fretta. Devo andare altrove, ed è ora. »

 

Eutifrone è stato smascherato da Socrate: convinto di essere sapiente, non è capace di giustificare il suo operato, dimostrando di conoscere cosa sia santo e cosa sia empio. Anziché rimettersi in gioco e ricercare il vero, però, preferisce allontanarsi da chi lo contraddice.

 

Mettersi in questione è un po’ come scalare una montagna: l’inizio è faticoso, ma il raggiungimento della vetta comporta una soddisfazione d’animo che dà senso a tutte le difficoltà sopportate. Alcuni però rinunciano alla vetta per la fatica, incapaci di vedere il positivo che si può cogliere solo dopo aver affrontato il momento negativo.

 

Anche il confronto ha il suo aspetto doloroso: rimettere in dubbio quanto si credeva vero nel proprio pensiero e nel proprio stile di vita. Se si affronta quel dolore, però, si potrà giungere a una verità più fondata. A una vita, quindi, più coerente.

 

 

Eutifrone non ha avuto il coraggio di farlo. Meglio, allora, non seguire il suo esempio.


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12 giugno 2025

 








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