Per gli studenti liceali l’idealismo tedesco rappresenta un po’ la bestia nera della filosofia. Fichte, Schelling e Hegel risultano astrusi e incomprensibili; le loro riflessioni avulse dalla realtà. Cosa fare? Insistere sui contenuti dottrinali fino allo sfinimento o provare un taglio diverso? Come ogni grande corrente filosofica, anche l’idealismo incarna in prima istanza un’attitudine nei confronti dell’esistenza. Riscoprirne la dimensione “pratica” può essere allora una chiave interessante per cogliere l’attualità di filosofi che hanno scelto la libertà come stile di vita.
Per gli studenti liceali l’idealismo tedesco rappresenta un po’ la bestia nera della filosofia. Fichte, Schelling e Hegel risultano astrusi e incomprensibili; le loro riflessioni avulse dalla realtà.
I più volenterosi si cimentano nell’imparare a memoria i nodi concettuali importanti: i tre principi della Dottrina della scienza di Fichte, l’Assoluto di Schelling come identità di Natura e Spirito, le formulazioni della dialettica hegeliana e le figure significative della Fenomenologia dello spirito. I meno pazienti aspettano che “passi la nottata”; prima o poi si giungerà a filosofi più semplici per recuperare le insufficienze maturate a causa degli idealisti.
In tutto questo i manuali scolastici fanno egregiamente la loro parte. Se già di norma hanno l’abilità di rendere complicati i filosofi che adottano un linguaggio chiaro e diretto, figuriamoci con gli idealisti! Si potrebbe dire che qui i libri di testo stanno nel loro elemento: i curatori si possono sbizzarrire nell’enunciare frasi o filastrocche prive di senso, nell’abbondare con il lessico specialistico, nel far venire il mal di testa agli studenti – e agli insegnanti.
Dal canto loro, i docenti sono divisi. Una parte rema controcorrente, costi quel che costi. Non importa che l’“utenza” sia poco interessata o senta distanti questi filosofi: non si può rinunciare agli idealisti né edulcorarli. Che si scornino pure, gli studenti; la filosofia è anche rigore e disciplina!
Altri sono intimiditi dalle resistenze degli alunni. Nell’introdurre gli idealisti, quasi si scusano con le proprie classi per doverle tediare con riflessioni così inutili.
Bisogna pagare il tributo alle Indicazioni nazionali del MIUR; si tratta di una parentesi, di un’amara medicina da somministrare prima dei “sempre verdi” Schopenhauer, Marx, Kierkegaard o Nietzsche.
Non dimentichiamo poi che se tutto va male, se gli studenti non riescono né da soli né con l’aiuto degli insegnanti ad assimilare qualche nozione dei filosofi idealisti, ci sono sempre schiere oplitiche di professori influencer pronti a spiegare in un minuto Hegel, Fichte e Schelling. Ecco, se proprio non si afferra nulla, ci sono loro, che rendono la filosofia a portata di smartphone, di click. Il tempo di un reel e ogni dubbio è fugato: perfino il pensiero più complesso si dissolve nella luce abbagliante delle pillole/perle di conoscenza dei professori influencer, che dall’alto della loro sapienza trasformano l’esoterico in un accattivante sketch fagocitato e riproposto dagli algoritmi social ai liceali in difficoltà.
Di fronte a questa situazione ambigua, quelli che restano dietro le quinte, denigrati, vituperati o banalizzati sono proprio gli idealisti. Fichte, Schelling e Hegel diventano nomi vuoti, ritratti sbiaditi sui manuali scolastici. Strane chimere si aggirano tra i banchi e sugli schermi dei cellulari. In un modo o nell’altro gli idealisti sono domati ed esorcizzati. Questo è ciò che conta: per la scuola, per gli studenti, per lo spettacolo, per i follower. È la sorte che meritano gli idealisti?
Certo, approcciarli con serietà non è semplice. Chi ha frequentato le loro opere sa bene quanto la lettura di una sola pagina sia sufficiente a indurre un sentimento di smarrimento misto a disperazione. Lo stile ipotattico e involuto, i giochi di parole, i tecnicismi, ogni passaggio si presenta come un enigma da risolvere. Si procede nella lettura con la pia speranza che un bagliore possa rischiarare le tenebre. Si verifica l’esatto opposto: il mistero si infittisce, i rebus si sovrappongono ai rebus. A volte si può fare affidamento su alcuni validi commenti per provare a non perdersi. Appena si torna però alla lettura del testo, riemerge prepotente la durezza di un dire che non ha alcuna intenzione di svelare i suoi segreti.
Ebbene, se questa è l’esperienza che per lo più prova ogni studioso, cosa dovrebbe fare un docente per avvicinare gli alunni all’idealismo? In didattica e in generale nell’insegnamento non esistono ricette magiche. Vorrei però lanciare una provocazione, indicare una strategia diversa per presentare Fichte, Schelling e Hegel. E se l’idealismo tedesco fosse uno stile di vita, un’arte di vivere?
Può sembrare una follia, nulla in apparenza più lontano dell’idealismo tedesco dalla filosofia come saggezza. In realtà, non mancano indizi che mostrano il contrario.
Premessa
Quando penso alla filosofia come stile di vita o arte di vivere, mi riferisco alla grande lezione storiografica di Pierre Hadot (1922-2010). Il filosofo francese afferma:
« Il discorso sulla filosofia non è la filosofia. [...] Nell’epoca ellenistica e romana la filosofia si presenta dunque come un modo di vivere, come un’arte della vita, come una maniera di essere. In effetti la filosofia antica aveva questo carattere, almeno a partire da Socrate. [...] La filosofia antica propone all’uomo un’arte della vita, mentre al contrario la filosofia moderna si presenta anzitutto come la costruzione di un linguaggio tecnico riservato a specialisti » (P. Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica).
Secondo Hadot nel mondo antico, e in particolare a partire da Socrate, la filosofia è essenzialmente un’arte di vivere, una maniera di essere. Il filosofo è un con-vertito, colui che ha deciso di dare una direzione altra – rispetto all’uomo comune – all’esistenza. Prima di essere un elaboratore di dottrine, di “dogmi”, il filosofo è un maestro di saggezza, ha intrapreso un percorso di ascesi, di costante esercizio su di sé per elevarsi.
Così – continua Hadot –,
« Tutte le scuole dell’antichità rifiutavano di considerare l’attività filosofica come puramente intellettuale, ma la consideravano come una scelta, che impegnava tutta la vita e tutta l’anima. L’esercizio della filosofia non era, quindi, solo intellettuale, ma poteva anche essere spirituale. Il filosofo non forma solo allora a un saper parlare, a un saper discutere, ma a un saper vivere nel senso più forte e nobile del termine. Invita i suoi discepoli a un’arte di vivere, a un modo di vita » (P. Hadot, Studi di filosofia antica)
Con l’avvento dell’età moderna, tale aspetto della filosofia sembra passare in secondo piano. Lo stesso Hadot sostiene che la riflessione teoretica prevale su quella pratica. Da arte di vivere, la filosofia si tramuterebbe in una disciplina con un proprio ambito di indagine e con un suo linguaggio tecnico-specialistico.
Tuttavia, non è difficile argomentare – anche Hadot ritorna sui suoi passi – che la filosofia come arte di vivere non è mai tramontata. Essa attraversa il medioevo fino ad arrivare all’età contemporanea. È stato anche sostenuto che si tratta di una terza via – accanto a quella metafisica e alla più recente analitica –, che da sempre anima il pensiero occidentale (cfr. W. Schmid, Filosofia dell’arte di vivere). Del resto, sono tanti i pensatori che rientrano nella categoria storiografica, formulata da Hadot e da molti altri, della filosofia come esercizio: Montaigne (ad esempio cfr. S. Bakewell, Montaigne. Arte di vivere) ma anche Cartesio e Spinoza (ad esempio cfr. S. D’Agostino, Bacone, Cartesio, Spinoza. Esercizi spirituali e filosofia moderna), per non parlare di Schopenhauer, di Kierkegaard, di Nietzsche o di Heidegger.
A volte atteggiamento ascetico e teoretico coesistono in modo armonioso; altre si giustappongono; altre ancora entrano in tensione.
L’idealismo non è affatto un’eccezione. Essere idealisti significa aderire a un certo stile di vita. Proverò a semplificare la lezione “ascetica” dell’idealismo in tre grandi imperativi.
Fichte: “Scegli la libertà!”
Nella Prima introduzione alla dottrina della scienza, Fichte fa intendere senza mezzi termini che essere “idealisti” non è da tutti:
« La scelta di una filosofia dipende da quel che si è come uomo, perché un sistema filosofico non è un’inerte suppellettile, che si può prendere o lasciare a piacere, ma è animato dallo spirito dell’uomo che lo ha fatto suo. Un carattere fiacco per natura, o infiacchito e piegato dalle frivolezze, dal lusso raffinato e dalla servitù spirituale, non potrà mai elevarsi all’idealismo » (J. G. Fichte, Prima introduzione alla dottrina della scienza).
L’idealista è un uomo dallo spirito forte, non «infiacchito e piegato dalle frivolezze», un uomo che si ribella alla servitù spirituale, che ha scelto la libertà.
Per Fichte, scegliere la libertà significa scorgere nella realtà non un limite o una necessità che vanifica l’azione del soggetto, ma la possibilità del proprio superamento. Per gli idealisti gli ostacoli in cui ci imbattiamo non sono muri invalicabili, piuttosto occasioni, opportunità per oltrepassare se stessi.
Attenzione a non leggere questo messaggio in stile motivazionale da life coach! Per Fichte la scelta della libertà non si riduce a un invito al “tutto è possibile”. Il superamento dei propri limiti non è un’operazione autoreferenziale, che avrebbe come scopo un mero accrescimento di sé nella direzione di un essere più performante.
Per il filosofo tedesco la scelta della libertà ha una portata prima di tutto etica. L’idealista crede fermamente nella possibilità che l’umanità possa migliorarsi, che la strada verso la vita buona sia accessibile a chiunque e che vada percorsa insieme.
Ne La Missione del dotto Fichte esprime con parole icastiche questo concetto: «Libero è solo colui che vuole rendere libero tutto ciò che lo circonda» (J. G. Fichte, La missione del dotto). È libero chi concorre alla libertà degli altri, chi agisce per incrementare la libertà altrui; è libero colui che vede nell’altro un alleato e non un ostacolo alla libertà.
Schelling: “Estendi la libertà a tutto l’universo!”
Con Schelling l’intuizione della libertà alla base dell’idealismo è approfondita o, meglio, diventa la chiave per comprendere l’intera realtà.
Ne L’essenza della libertà Schelling osserva:
« Se coloro che lo [l’idealismo] giudicano o se lo appropriano, sospettassero che la libertà ne è il più intimo presupposto, in quale diversa luce lo considererebbero e lo intenderebbero! Solo chi ha gustato la libertà, può capire il desiderio di trovare dovunque analogia con essa, di estenderla a tutto l’universo » (F.W.J. Schelling, L’essenza della libertà).
Schelling ribadisce che la libertà non è un tema tra tanti dell’idealismo, ma il suo fondamento necessario. Chi non riconosce o “sospetta” questa connessione essenziale non può comprendere veramente l’idealismo e lo giudicherà in modo inadeguato o superficiale.
Segue un importante rinvio alla dimensione del vissuto. La verità dell’idealismo ha la sua radice in un’esperienza individuale che va assaporata. Prima di essere un concetto su cui dissertare, la libertà è una prova, un sentire che deve risuonare nelle trame più intime dell’anima. Come un aroma, la libertà deve impregnare il nostro essere: la libertà è “senso”, un’affezione che riempie di significato l’essere nel mondo.
La libertà è l’Erlebnis originario di chi si “converte” all’idealismo. In questa esperienza fondamentale, oltre a ritrovare il sé più autentico, l’individuo scopre il legame che lo unisce e lo accomuna ad ogni cosa.
Schelling sviluppa fino alle sue estreme conseguenze l’intuizione di Fichte. La libertà non è solo plurale – nel senso che è un agire collettivo cui partecipa l’intera umanità –, ma molteplice. Chi l’ha sentita nella propria carne sa che la libertà assume infiniti volti, che la libertà si manifesta ovunque, in un fiore, in una pietra, nelle forze che governano la natura.
Ancor più di Fichte, Schelling spinge verso una conversione radicale dello sguardo. Essere idealisti vuol dire cogliere ogni cosa dal lato dell’azione e del processo. L’idealista non asseconda la spontanea tendenza dell’intelletto a dividere il reale in un insieme di entità stabili. Cerca di vedere il dinamismo lì dove in apparenza regna la staticità; si sforza di ragionare nella prospettiva dell’intero e della totalità, di cogliere la coappartenenza di particolare e universale.
L’idealista approverebbe questa osservazione di Bergson:
« Ciò che è reale non sono gli “stati” – semplici istantanee scattate da noi, ancora una volta, lungo il cambiamento; è, al contrario, il flusso, la continuità di transizione, il cambiamento stesso » (H. Bergson, Pensiero e movimento).
Hegel: “Guarda in faccia il negativo!''
La libertà dell’idealista non è ebbrezza, la hybris di poter superare senza travaglio un qualsiasi ostacolo. È una libertà che si nutre del negativo, sempre sul punto di disgregarsi e di soccombere. La libertà dell’idealista si mette alla prova, “guarda in faccia il negativo”.
Nessuno meglio di Hegel ha evidenziato il ruolo della negazione nel progresso dello Spirito:
« La vita dello Spirito non è quella che si riempie d’orrore dinanzi alla morte e si preserva integra dal disfacimento e dalla devastazione, ma è quella vita che sopporta la morte e si mantiene in essa. Lo Spirito conquista la propria verità solo a condizione di ritrovare se stesso nella disgregazione assoluta. Lo Spirito è questa potenza, ma non nel senso del positivo che distoglie lo sguardo dal negativo, come quando ci sbarazziamo in fretta di qualcosa dicendo che non è o che è falso, per passare subito a qualcos’altro. Lo Spirito è invece questa potenza solo quando guarda in faccia il negativo e soggiorna presso di esso. Tale soggiorno è il potere magico che converte il negativo nell’essere » (G. W. F. Hegel, La fenomenologia dello spirito).
Il termine “Spirito” è in Hegel polisemico. Spirito è l’intelligenza (dinamica) che è alla base del reale (un “Nous” in divenire); è ciò che anima e guida il reale (Pneuma e Provvidenza); coincide con le manifestazioni del collettivo (lo Stato, un popolo, ecc.) e dell’individuo nel suo essere simbolo della totalità – come Napoleone che incarnerebbe per Hegel l’anima del mondo.
Ai fini del nostro discorso, questa polisemia non è di ostacolo. Anzi, fa risaltare come alle molteplici forme della libertà dello Spirito corrisponda un’infinità di modi di soggiornare presso il negativo. La libertà si nutre del negativo; ne ha bisogno per approfondirsi. In assenza del negativo si può dare solo una parvenza di libertà, finta e ipocrita.
L’autentica libertà accetta la possibilità della disgregazione, la morte, l’altro, il dubbio. L’autentica libertà accoglie il progresso, ossia la propria riformulazione in interi più ampi. Non ha paura di perdersi per ritrovarsi in qualcosa di più grande, di essere presso di sé nell’essere presso l’altro. L’autentica libertà non è una positiva chiusura mortifera in se stessi, ma costitutiva apertura al negativo.
Osserva Byung-Chul Han – commentando il passo di Hegel appena letto –: « Dove domina ciò che è puramente positivo, l’eccesso di positività, non vi è alcuno spirito» (B.-C. Han, Eros in agonia). La negatività è la condizione del darsi dello spirito, perché genera profondità e progresso: essa è il motore della libertà, la sua logica interna.
La concezione della libertà degli idealisti è lontana anni luce dalla nostra. Viviamo in una società che ha la pretesa di “saperla lunga” sulla libertà. Riteniamo con presunzione che mai come oggi la libertà sia garantita, tutelata, che finalmente ognuno può sentirsi libero di essere quello che vuole. Non solo: il nostro tempo sembra avere il primato della “libertà di fare”. Siamo liberi, perché ormai tutto appare realizzabile. Non vi sono più ostacoli ai desideri, basta l’ultimo ritrovato della tecnologia e l’impossibile diventa possibile.
La nostra libertà è quella mortifera di un positivo che non conosce limiti, che non ha paura di nulla, che non dubita di nulla. La nostra è una libertà che vive di certezze, che non ammette di essere messa in discussione; è una libertà miope ed egoista che non conosce l’altro. La nostra è una libertà stazionaria, stanziale, bulimica, che cannibalizza se stessa. È la libertà implosa, una libertà morta per l’inedia del “sì”.
Conclusione
Questo breve percorso nella filosofia idealista apre a nuove prospettive esegetiche e didattiche. Uno dei grandi problemi dell’insegnamento della filosofia in Italia è il prediligere i “contenuti” a discapito della dimensione dell’esercizio propria del filosofare.
Non vi è dottrina filosofica che non abbia in sé una portata ascetica o antropotecnica: la filosofia è per sua stessa costituzione dominata da un profondo senso di verticalità. Il filosofo, per dirla con Peter Sloterdijk, vuole cambiare la sua vita, ascendere al “monte dell’improbabile” (cfr. Peter Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita).
Gli idealisti assumono pienamente questo atteggiamento nei confronti dell’esistenza. Lo dichiarano a più riprese nelle loro opere. Molte delle loro elucubrazioni dottrinarie potranno essere lontane dalla nostra sensibilità e dagli interessi degli studenti. Ha ragione il giovane liceale a considerare noiose o cervellotiche le speculazioni di Hegel e di Schelling sulla Natura. Ma cosa dire invece dell’“attitudine” degli idealisti, del loro stile di vita?
Si può essere idealisti? Certo, perché si può ancora scegliere la libertà, di guardare la realtà dalla prospettiva del cambiamento e della complessità, di soggiornare presso la negazione che dà profondità e senso all’esistenza.
26 maggio 2025
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