Sulle nostre insoddisfazioni comunicative

 

La comunicazione, attraverso la parola, non sempre sembra essere una metodologia da ritenersi esaustiva e soddisfacente nel riflettere quello che è il nostro pensiero: con essa entra in gioco la decontestualizzazione che tutti noi attuiamo quando comunichiamo con un'altra persona.

 

di Steven Drmać

 

Una cosa interessante che capita mentre cerchiamo di esporre un argomento, è il fatto che siamo portati a decontestualizzare. Spesso nemmeno ci rendiamo conto di questa operazione che facciamo di continuo. Ora cerchiamo di provare a capire meglio come funziona un simile meccanismo. Se parliamo di decontestualizzazione, si può già partire con il dire la cosa che balza subito all’occhio, ovvero che il significato immediatamente suggerito dalla parola è “togliere dal contesto”.

 

Mentre discutiamo rispetto ad un qualsiasi argomento, per esempio raccontando di un certo avvenimento, ci è impossibile riportare perfettamente tutti i dettagli dell’accaduto; avviene quindi una selezione di contenuti da parte nostra, più o meno conscia, che classifica su diversi piani ciò che vogliamo esporre. Questa selezione di contenuti che avviene mentre parliamo è caratteristica di ogni singolo soggetto – non si può ripetere in maniera identica in nessun altro. Sappiamo quanto per noi la comunicazione sia importante, come il dialogo tra di noi sia una componente fondamentale per poter progredire. È pur vero che la comunicazione, attraverso la parola, non sempre sembra essere una metodologia da ritenersi esaustiva e soddisfacente nel riflettere quello che è il nostro pensiero: è in questa sede che, a mio avviso, entra in gioco la decontestualizzazione che tutti noi attuiamo quando stiamo comunicando con un'altra persona. 

S. Dalí, "Apparizione di un volto e di una fruttiera sulla spiaggia" (1938)
S. Dalí, "Apparizione di un volto e di una fruttiera sulla spiaggia" (1938)

La decontestualizzazione non sembra avvenire tanto nella nostra mente, quanto nel momento in cui proviamo a tradurre il nostro pensiero in parole; ed è qui che siamo portati talvolta a dei fraintendimenti. Non è una cosa semplice tradurre il nostro pensiero in parole che lo rispecchino alla perfezione. Se ci pensiamo, anche solo nel tradurre un testo da una lingua all’altra capita spesso di incappare in situazioni in cui è difficile trovare un termine che esprima bene un concetto, come magari può farlo un’altra lingua. Lo stesso avviene nella “traduzione” dal pensiero alla parola, per un motivo semplice: la parola rappresenta solo una parte del pensiero; è limitata e delimitante quando viene chiamata in causa. La parola è concepita per spezzare, troncare, tracciare un confine proprio per la sua natura finita che prova a racchiudere un qualcosa che non lo è. Possiamo invece dire tutto il contrario del pensare: non siamo in grado di dividere nei cosiddetti “compartimenti stagni” il nostro pensiero, non possiamo delimitarlo, non abbiamo la possibilità di spezzare quello che è lo scorrere dei nostri pensieri.

 

L’attività che si svolge nella nostra mente, se dovessimo provare a definirla, si potrebbe dire che è fluida: scorre da una parte all’altra senza brusche sterzate o interruzioni; nella nostra mente non esiste la decontestualizzazione perché è tutto collegato ed è un tutt’uno, che si muove da una parte all’altra senza difficoltà. È per questo che si può porre la decontestualizzazione come una proprietà e caratteristica del linguaggio: una parola, una frase o un testo non hanno lo stesso valore per tutti. Con questo intendo dire che ognuno di noi quando comunica non ha la facoltà di trasferire tutto il valore e le rappresentazioni che ha in mente nella parola: possiamo solo contare sul fatto che l’interlocutore possa intravedere questo valore in maniera simile. Questo non poter trasferire e non poter far capire del tutto all’interlocutore attraverso la parola è il processo che noi facciamo ogni volta che comunichiamo. Siamo portati a strappare quella fluidità, quella connessione che una determinata rappresentazione ha nella nostra mente, e cerchiamo di conficcarla in una parola, in una frase o in un testo, dove per noi avrà un certo significato, mentre per gli altri avrà un significato che può essere simile, ma che non sarà mai uguale a quello che noi abbiamo nella nostra mente. 

 

Proviamo per esempio a pensare ad una parola comunissima come può essere “albero”. Ognuno di noi nella sua mente darà luogo a processi differenti di fronte ad una parola, che non saranno mai identici a quelli di nessun’altra persona. In questo caso la decontestualizzazione da tutte le rappresentazioni del nostro pensiero fa sì che tra di noi ci si possa avvicinare sul pensiero che abbiamo circa il termine “albero”, ma appunto non perché si abbia lo stesso pensiero sulla medesima parola, bensì perché l’astrazione che ne facciamo trova dei punti di contatto, che ci permettono di avvicinarci al valore che noi ne diamo. Con il termine “albero” è abbastanza semplice intendersi, e la decontestualizzazione che noi applichiamo sembra venirci in aiuto.

 

Il problema è che la decontestualizzazione, man mano che si vuole esprimere un concetto sempre più grande, comincia a creare difficoltà non da poco e il rischio di fraintendimenti diventa sempre maggiore. Dunque, sembra che da un lato la decontestualizzazione si riveli un'utile proprietà della parola quando si vogliono comunicare concetti dal peso non elevato. Permette di comunicare, anche se in maniera molto parziale, il contenuto del nostro pensiero, quel tanto che basta per intenderci. Dall’altro lato, invece, la decontestualizzazione sembra un ostacolo difficile da scalare. In particolare ciò accade quando si cominciano ad affrontare argomenti con un peso concettuale importante, nella trattazione dei quali il fraintendimento si rivela un pericolo sempre più concreto.

 

6 agosto 2018

 




  • Canale Telegram: t.me/gazzettafilosofica