I pericoli della tecnocrazia

 

Lungi dal voler mettere in discussione l’importanza della conoscenza e della competenza che chiunque svolga un ruolo pubblico deve avere relativamente a ciò di cui si occupa, sarebbe importante anche tener fermi alcuni capisaldi di quella che è la nostra, almeno sedicente, democrazia.

 

di Alberto Giuseppe Pilotto

 

D. Lynch, "Dune" (1984). Fotografia: F. Francis
D. Lynch, "Dune" (1984). Fotografia: F. Francis

 

In questi tempi di pandemia si sono sentite molte e diverse opinioni sui modi migliori di affrontare questa crisi senza precedenti. Fermo restando che, dato la situazione inaudita a livello mondiale, sarebbe stato pressoché impossibile trovare il modo perfetto per rispondere all’emergenza, si è tornati ad invocare la necessità di “esperti” e di “tecnici” che prendano decisioni ai vertici della politica.

Lungi dal voler mettere in discussione l’importanza della conoscenza e della competenza che chiunque svolga un ruolo pubblico deve avere relativamente a ciò di cui si occupa, sarebbe importante anche tener fermi alcuni capisaldi di quella che è la nostra, almeno sedicente, democrazia.

Ebbene, dato che in una democrazia, per essere definita tale, il potere politico deve appartenere al popolo, è necessario che chiunque prenda decisioni all’interno di uno Stato sia legittimato dal popolo in questo senso. Possiamo allora intuitivamente notare la difficoltà dell’integrare da una parte la necessità di un governo di “tecnici” o “esperti” e dall’altra la necessità che questo governo venga legittimato da parte del popolo, soprattutto a fronte delle dichiarazioni di alcuni appartenenti al primo gruppo, come il medico Burioni che va sostenendo la non-democraticità della scienza e che in questo ultimo periodo di emergenza virale è stato per molto tempo sotto le luci dei riflettori. Chiaramente Burioni sostiene ciò che sostiene nel senso che «La velocità della luce non si decide per alzata di mano», sottoscrivendo le parole di Piero Angela, ma probabilmente non si rende conto della pericolosa portata delle sue affermazioni a livello politico e sociale.

Se infatti «La scienza non è democratica», la domanda che ci si potrebbe porre a questo punto è cosa segni la differenza tra politica e scienza. Perché se appunto la tecnoscienza deve orientare le decisioni della politica, e se essa non è sottoponibile a processi democratici, né riguardo al suo metodo né riguardo ai suoi risultati, il pericolo che si profila è che il popolo, finora depositario del potere decisionale, venga esautorato di questo potere. Il pericolo allora è che la tecnocrazia si riveli come un regime non molto diverso da quello dominato dall'autorità religiosa nel Medioevo, in cui una piccola élite – legittimata lì da Dio e qui dalla Scienza –, la quale si esprime in un linguaggio che il popolo non comprende – lì il latino e qui il dizionario tecno-scientifico – impone le proprie decisioni sulla maggioranza in quanto unica depositaria legittima del sapere. Tale depoliticizzazione delle masse porterebbe con sé il pericolo di una dittatura della tecnoscienza, di una tecnocrazia in cui nessuno al di fuori di una élite tecnica può mettere in discussione e passare al vaglio le decisioni prese ai piani alti.

 

L’errore fondamentale di questo pensiero, che affonda le sue radici nella fede nelle capacità della tecnoscienza, è quello di dimenticare le lezioni della tradizione occidentale, in particolare quella di Platone.

La gestione della cosa pubblica così come prefigurata idealmente da Platone infatti potrebbe essere intesa come una tecnocrazia, in quanto anche la politica viene definita come una téchne a tutti gli effetti. La differenza però è che nella buona comunità politica la gestione dello stato viene demandata al vero politico, che sarebbe poi il filosofo in quanto è colui che arriva a conoscere l’idea del Bene, e in relazione ad essa è in grado di gestire e ordinare al meglio la società.

Tralasciando il fatto che Platone assegni questo compito al filosofo piuttosto che ad un politico in quanto tale, importante è qui notare come chi governa sia considerato in possesso di una conoscenza che è alla pari di quella delle altre tecniche, in grado di fondarsi su principi non contraddittori come tutte le altre tecniche che si possano dire tali. Anzi, tale conoscenza ha una dignità e un’importanza ancora maggiore: essa viene infatti definita da Platone arte regia, poiché capace di disporre di tutte le altre tecniche orientandole a quel fine che è il Bene. Platone dunque mette in luce il fatto che nessun’altra tecnica è epistemologicamente e autonomamente capace di conoscere e quindi di compiere il bene, oltre alla politica. Nessuna tecnica, per quanto in grado di descrivere il mondo esterno, prevedendone o dominandone cause ed effetti, ha per suo oggetto il Bene, proprio perché non lo hanno come loro oggetto. Voler dunque mettere dei tecnici che non siano veri politici al governo sarebbe per Platone una pericolosa perversione, perché essi non sarebbero in grado, attraverso la propria scienza, di definire il Bene e di perseguirlo. Essi sarebbero allora solo in grado di imporre arbitrariamente un fine, e di perseguirlo tramite la potenzialità della loro tecnica, ma senza la sicurezza che quel fine sia effettivamente un bene. Ecco perché secondo Platone alla guida della società dev’esserci un uomo politico che conosca il Bene prima di ogni altra cosa. Esso deve poi ovviamente saper ben disporre di tutte le altre tecniche, quindi sapersi anche avvalere del sapere degli esperti, ma senza sottomettere la politica alla finalità di una qualche altra tecnica.

 

Platone
Platone

 

E oggi? Oggi la legittimità della politica come guida della società è messa in pericolo dalla tecnoscienza, che vorrebbe assumere sempre più legittimità grazie alla sua capacità di dominare il mondo e ai suoi effetti visibili sotto gli occhi di tutti. Oltretutto sembra essersi persa la fiducia nella capacità della politica, in quanto tecnica, di agire in vista del bene comune, complice anche la politica stessa che invece di essere strumento direttivo della vita sociale, è stata serva degli interessi delle classi dominanti.

Invocare questo tipo di tecnocrazia, non guidata da una classe di politici, è solo l’apice di quel processo nichilistico e postmoderno in atto nel mondo occidentale per cui, persa la possibilità di concepire l’esistenza di un Bene che vada oltre il relativismo individuale e si estenda a tutta la comunità, si è persa anche la possibilità di concepire la possibilità pratica di metterlo in atto.

 

Dunque, che fare? È necessario recuperare e tener ferma la consapevolezza del ruolo della politica nel nostro tempo, minacciata dall’utilitarismo tecnocratico che guarda soltanto alla capacità di realizzare fini e non alla bontà di tali fini. È necessario che la politica torni ad essere la guida principale della nostra società. È necessaria allora in questo senso una forma di politica che riesca a tenere insieme la necessità della democrazia e quella della guida degli esperti. In tal senso sarà sempre utile tornare a ciò che Gabriele Zuppa mette in luce nel suo Platone democratico, in cui appunto si mostra come questo sia l’unico modo per avere una democrazia reale: è solo tramite il confronto pubblico, in cui ognuno può mostrare le proprie ragioni, che si può prendere consapevolezza riguardo a chi è più o meno esperto – ogni altro mezzo sarebbe arbitrario –, e una volta passata al vaglio la conoscenza di questi tecnici ad essi potrà essere affidata la gestione della cosa pubblica. Ogni altra forma di legittimazione invece risulterebbe aprioristica, elitaria e arbitraria.

 

29 aprile 2020

 








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