Per essere morali bisogna fare il male

 

Quando proviamo a fare il bene, diamo una forma particolare ad un’idea che è racchiusa nella totalità. Ogni volta che agiamo, facciamo il male. È possibile intravedere il bene solo nella dimensione dell’attraversamento e dell’esigenza.

 

René Magritte, "La condizione umana" (1933)
René Magritte, "La condizione umana" (1933)

 

Nel compiere qualunque atto, l’uomo ha il diritto di riconoscersi in esso, di ritenerlo suo: ognuno ha il diritto di riconoscere i fini per cui agisce come i suoi. L’universale diventa ciò che mi prefisso di fare, non ciò che mi limita: è questo lo spazio della moralità.

 

Come abbiamo visto nei precedenti articoli (Perché bisogna essere persone morali), tutto ciò che facciamo è perché lo vogliamo, perché rientra nel fine che ci siamo prefissati di raggiungere. Questa è la condizione naturale dell’uomo: porsi dei fini che lo fanno sentire appagato. Questa ricerca dell’appagamento è anche il tentativo di dare forma all’universale ed in ciò ci si sente liberi: l’universale si oggettiva attraverso l’agire individuale.

 

Il meccanismo di realizzazione del fine è sempre un’esigenza: nelle intenzioni che mi pongo ho il diritto di essere appagato,  di trovare la felicità.

 

« Il proponimento, siccome procedente da un essere pensante, racchiude non meramente la singolarità, bensì essenzialmente quel lato universale, ― l’intenzione. […] Il soggetto ha nel suo fine il suo proprio particolare contenuto, che è l’anima determinante dell’azione. Il fatto che questo momento della particolarità dell’agente è eseguito e contenuto nell’azione, costituisce la libertà soggettiva in una sua determinazione più concreta, il diritto del soggetto di trovare nell’azione il suo appagamento. » (Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto)

 

Il bene è l’idea per cui c’è una volontà universale, un fine universale, che non è un fine mio, ma che trovo e riconosco. Questo fine non si impone da fuori, ma si dà solo attraverso il mio agire. Agendo, ricerco la totalità, quindi l’assenza di ogni coercizione esterna alla mia volontà, e in questo mi sento libero.

 

È quindi fondamentale distinguere il bene dal benessere. Quest’ultimo corrisponde alla realizzazione del proprio fine particolare e il mancato riconoscimento del proprio tentativo di attraversare l’universalità.

Ogni volta che l’individuo entra in una relazione deve assumersi dei compiti, deve essere realizzato nelle relazioni in cui si trova. Attraversare l’universale, assurgere al bene, significa innanzitutto stare bene con gli altri. Questo non vuol dire albergare nel benessere e nel comfort di una posizione comoda, che non si mette in discussione, che non corregge l’altro, che non si confronta con esso. Stare bene con gli altri è prendersi le proprie responsabilità, riconoscere il ruolo della propria persona all’interno della relazione e dare il massimo. 

 

Rembrandt, "Tempesta nel mar di Galilea" (1633)
Rembrandt, "Tempesta nel mar di Galilea" (1633)

 

La volontà soggettiva trova nel bene la sua essenza, il bene si realizza nella soggettività. L’individuo non può ritenersi mai soddisfatto di quello che ha raggiunto, perché continuamente ricalibra i suoi obiettivi e ricerca una determinazione migliore del suo fine. Il bene è un compito mai finito, non c’è un modo per realizzarlo che mi dice che il bene è finito.

 

Il bene non può essere ciò che deriva dalla volontà particolare, altrimenti si farebbe determinato e accidentale alle relazioni che costituiscono l’individuo. Il bene deve essere visto come un universale vuoto, la pura forma della generalità e la generalità diventa il mio fine interiore.

 

L’unico modo per volere il bene è non volere niente di determinato, altrimenti lo si particolarizza.

 

La verità della coscienza morale è il male. Se voglio agire bene, e credo che il bene sia la pura forma, allora quando agisco do un contenuto al bene, e quindi faccio il male. Il male è dunque una necessità della moralità. Ogni contenuto di per sé è un male, perché occupa lo spazio di ciò che dovrebbe essere la pura generalità.

 

L’uomo vive costantemente in questa duplicità: da una parte inevitabilmente produce il male per sua natura, a causa delle strutture stesse del suo esistere; dall’altra, cerca di  togliere questo male per poter raggiungere il bene.

 

« L’autocoscienza, nella vanità di tutte le determinazioni altrimenti vigenti e nella pura interiorità della volontà, è altrettanto la possibilità di costituire a principio l’universale in sé e per sé, quanto sopra l’universale l’arbitrio, la propria particolarità, e di realizzarli grazie all’agire ― la possibilità di essere cattiva. » (Ibidem)

 

Della stessa opinione di Hegel è stato il filosofo italiano Gustavo Bontadini, maestro di Emanuele Severino.

 

Bontadini, nell’Abbozzo di una critica dell’idealismo immanente, è concorde con quanto suggerito da Hegel nei Lineamenti: ricusa la tesi immanentista secondo cui non esiste il male e il falso, ma tutto è bene e vero. 

 

Secondo Bontadini bisogna accettare il male e il peccato come un dato.

 

Non è Dio, cioè il bene assoluto, a compiere il male, ma è colpa dell’uomo, il quale non è un pezzo di Dio. 

 

« Si dice: se tutto il reale è l’atto di conoscenza attuale, vedasi che questo, in quanto attuale, non è conosciuto  ̶  perché ora ciò che si conosce è il suo termine oggettivo  ̶ ; in quanto poi è conosciuto  ̶  per la riflessione  ̶  non è attuale, ma trascorso: dunque non riuscendo ad adunare in sé le condizioni di realtà  ̶  la consapevolezza insieme con l’attualità  ̶  cade nel nulla, seco trascinando tutto il mondo. » (Bontadini, Studi sull’idealismo)

 

Non c’è contraddizione tra il dato (cioè l’esistenza del male) e la tesi teologica (cioè l’esistenza di Dio), perché il male è empirico, mentre il bene deve essere trascendentale.

 

« In quanto il male, che è dato, è come si suol dire, empirico, mentre il bene, che deve essere, è trascendentale: quel male e questo bene non sono predicati sotto lo stesso aspetto. […] Dio, qui come nella concezione tradizionale, non coonesta il male, ma anzi fa sì, con la sua presenza che esso sia male. Il tutto è buono come tutto; e per porsi come buono riprova da sé il male che sorge nella sfera del particolare. » (Ivi)

 

Per natura, sembra dunque che l’uomo sia portato a fare il male: in ogni atto conoscitivo, non potendo racchiudere la totalità, non può far altro che il male. Ma è così anche dal punto di vista dell’esistenza?  Oppure, vivendo ed essendo parte della totalità, si è inevitabilmente il bene?

 

17 febbraio 2020

 








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